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2000 - "CARO GUIDO, TI SONO PIACIUTI I TUOI FUNERALI?"

Da Tragnone a Fidel Castro

"Da Tragnone a Fidel Castro"
1992-2003: gli Eventi che Sconvolsero L'Aquila

Un Libro di Angelo De Nicola


Indice Capitoli

Prefazione | 1992 | 1993 | 1994 | 1995 | 1996 | 1997 | 1998 | 1999 | 2000 | 2001 | 2002 | 2003



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2000
Guido Polidoro (il primo a sinistra) con alcuni colleghi del Messaggero, nei primi anni Settanta, immortalati sul balcone dell'allora redazione che si affacciava su piazza Palazzo. Da sinistra, dopo il Capo: Romolo Como, Giancarlo De Risio e Gianfranco Volpe.



Da Tragnone a Fidel Castro
11 agosto 2001, Santa Chiara

In auto non ci dicemmo quasi nemmeno una parola. Io, alla guida, facevo finta di concentrarmi sulla strada, l'autostrada per Roma che pure conoscevo a memoria. Lui, il Capo, guardava nel vuoto la striscia d'asfalto. Seduto dietro, il collega Alessandro Orsini, si era associato a questo assordante silenzio. Ognuno di noi, ne ero certo, rifletteva sulla vita. Sul perché, a 43 anni, la vita ti porta via dai tuoi affetti, dal tuo lavoro, dalla tua casa. A 43 anni.

Andavamo, così in silenzio, al funerale di uno di noi. Gigi Malandrino lo aveva stroncato un infarto, a 43 anni, mentre si godeva in piscina, in una bella giornata di quel caldo luglio del 1997, i suoi due bambini tanto desiderati. Malandrino, due anni prima, nei primi mesi del 1995, era stato paracadutato in Abruzzo come caporedattore dall'allora direttore del Messaggero, Giulio Anselmi, con l'obiettivo di rivoluzionare l'edizione abruzzese dopo l'ondata di prepensionamenti decisa nel 1994 dall'editore, la Montedison. Tutti i giornalisti che compivano 55 anni, e dunque all'apice della loro esperienza (ed il giornalismo, si sa, è un mestiere soprattutto di esperienza), venivano sbattuti fuori, "col giornale sotto il braccio a pisciare alla villa comunale" come si disse con volgare ma efficace brutalità.

Tra questi c'era anche Guido Polidoro, classe 1938, coordinatore dell'edizione Abruzzo di nome ma soprattutto di fatto visto che, in regione, era il punto di riferimento di molti colleghi e non solo di quelli del Messaggero. Con queste righe, "il Capo" come tutti lo chiamavano, salutò i colleghi il giorno fatidico:

Oggi, via fax, mi è arrivata da Roma la comunicazione formale della sospensione del contratto di lavoro col Messaggero a far data da domani, primo marzo. Sono pre-pensionato, una condizione nuova che non ho avuto il tempo di maturare e che, dunque, non mi rattrista più di tanto. Salvo per le circostanze. Concludo, dunque, oggi un rapporto di lavoro che, per decisione del Pretore del Lavoro, l'azienda ha dovuto riconoscere in atto dal 29 marzo 1961 (e non febbraio 1968). Non nego di lasciare con qualche rimpianto e qualche rammarico. Il rimpianto per qualcosa che poteva essere fatto meglio, il rammarico per le asfissianti condizioni di lavoro degli ultimi mesi. Spero non me ne vogliate, perché ho cercato di fare quanto possibile, con i limiti e le strozzature della situazione generale e della mia educazione personale, per rendere più vivibile il comune rapporto di lavoro. Scrivo queste due righe soltanto per ringraziarvi tutti, con sincerità, della collaborazione e dell'amicizia. Ad alcuni di voi, in particolare, quelli con i quali ho avuto più lunga confidenza da collega e da amico, un grazie per avermi aiutato a crescere. (1)

Andando in auto al funerale del povero Gigi (soltanto dieci giorni prima ero stato ospite, nella sua casa-fattoria adagiata sulla campagna romana, di una delle sue proverbiali feste) a Palombara Sabina, di certo "il Capo" ripensava a quando il nuovo giovane caporedattore lo incontrò: "Come vedi, sono stati valorizzati i tuoi allievi- gli disse Malandrino con un tono sinceramente ossequioso- Paolo Mastri è il capo della redazione di Chieti, Luciano Tancredi di quella di Pescara e Angelo De Nicola di quella dell'Aquila. Dovresti andarne orgoglioso". Non lo disse, ma ne era orgoglioso. Eccome.

* * * *

Quel viaggio dei silenzi mi rivenne in mente tre anni dopo quando in auto, stavolta da solo, tornavo all'Aquila da Pescara per andare al funerale di Guido. Fu Totò De Leonardis, allora vicecaporedattore dell'edizione Abruzzo del Messaggero, a darmi la notizia mentre ero in bermuda sulla sdraio di uno stabilimento di Francavilla al Mare a godermi qualche giorno di ferie. Era un venerdì. L'11 agosto 2000. Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Quel male non gli avrebbe lasciato scampo. Ma su quella sdraio rimasi di stucco. Se ne andava il Maestro. Il cane di un cieco. Il pozzo di quell'esperienza che non avevo e non ho tutt'oggi. "Troppo presto, perdio. Troppo presto" mi ripetevo.

Nemmeno il tempo di realizzare, che mi arriva un'altra telefonata sul cellulare. L'allora caporedattore del Messaggero Abruzzo, Paolo Traini, mi avvertiva che l'articolo di commemorazione l'avrei dovuto fare io. "Tocca a te. Ferie o non ferie". Non era certo per le ferie che cercai di sfangare quella enorme responsabilità. Non mi sentivo all'altezza. Io, l'ultimo degli allievi, dovevo scrivere il necrologio del Maestro? E cosa avrei potuto scrivere, io? E come? Già col cuore a lutto, mi piombava addosso anche un compito al di sopra delle mie capacità.

Ma Traini fu irremovibile come, giustamente, lo sono i capi in situazioni difficili. Perciò, distrutto ed atterrito, mi recai nella redazione di Pescara per scrivere quello che è stato, e forse lo sarà per sempre, il più difficile articolo della mia vita.

Davanti al computer riflettei a lungo. Poi mi convinsi che se avessi fatto parlare il cuore non solo avrei fatto una cosa dignitosa di fronte, soprattutto, ai tanti colleghi che amavano Guido, ma sarei anche stato, e quello contava di più, a posto con la coscienza. Ascoltai il cuore e scrissi:

"Tu non devi pensare: qui l'unico pagato per pensare sono io". Il tono era gentile ma la sostanza inequivocabile tanto da intimidirti davvero, a volte, i pensieri. Che oggi, confusi in un vuoto incolmabile, sono come narcotizzati.

Guido Polidoro era un Maestro. Di giornalismo e di vita. Quando sei anni fa, per le spietate ragioni del mercato, con un semplice fax fu collocato anticipatamente in pensione a 55 anni, "l'ultimo dei miei allievi" (come lui amava chiamare chi scrive, "promosso" dopo il primo incarico: andare a comprare le sigarette al Capo) gli inviò una lettera: "I maestri non vanno in pensione". La risposta fu inconfondibile in una missiva (2) che, oggi, suona quasi come un testamento morale.

Guido era nato maestro, maestro di scuola elementare. E spesso, con ironia, ricordava la sua prima professione esercitata fino al 1961, quando, dopo l'esordio al Tempo di Chieti, entrò al Messaggero sempre nella redazione chietina. E da allora fu sempre "il Capo". Nelle redazioni di Avezzano, Rieti, Teramo e, quindi, alla fine degli anni Sessanta, all'Aquila dove venti anni dopo, nel 1987, fu promosso coordinatore regionale. Dal '92 affiancò Paolo Gambescia alla guida della redazione regionale di Pescara. Nel '94 il fulmine a ciel sereno per lui e per tutta la "vecchia" guardia: il prepensionamento. Sopportò in silenzio rimanendo comunque, fino all'ultimo, nella professione attiva. Professione cui ha offerto il suo impegno negli organi di tutela della categoria quale l'Ordine dei giornalisti abruzzesi ed il Gruppo stampa regionale di cui è stato fondatore e presidente.

Un maestro. Non a caso il suo maggior vanto (e come ci teneva!) era quello di "aver lasciato in eredità" una nidiata di pulcini ai quali, ormai, erano cresciute le ali. D'altra parte, sarebbe stato impossibile non mettere a frutto le sue lezioni quotidiane in una redazione trasformata spesso in salotto culturale per il costante pellegrinaggio di chi veniva a trovare "il Capo" per un consiglio, una "benedizione", una chiacchierata. Proverbiali le sue battaglie sulle colonne del giornale: storica è rimasta quella, sul fine degli anni Ottanta, contro la realizzazione del megaparcheggio di Collemaggio; dopo 13 anni, l'attivazione della struttura è ancora lontana. Spiccato era il suo senso della notizia. Enciclopedica la conoscenza del "suo" Abruzzo. Granitica la sua autorevolezza nel "Palazzo". Per i colleghi era una sicurezza: "Chiedi a Polidoro, lui di sicuro lo sa". E molti, anche quando è andato via, hanno continuato a chiedergli pareri e consigli.

Addio, Capo. So già che questo ricordo avrebbe subìto la scure della matita rossa e blu: "Ecco, come sempre, hai pensato troppo". (3)

Questo riuscii a scrivere. Il cuore mi aveva portato, in particolare, a quella lettera con la quale il Capo aveva risposto alla mia missiva dopo il suo prepensionamento. "I maestri non vanno mai in pensione" gli scrissi scusandomi di non usare la scrittura a mano ma quella, di cui proprio lui mi aveva sempre insegnato a diffidare, fredda del computer. Mi rispose con una lettera scritta, stavolta, al computer e non con la sua mitica macchina da scrivere, la "Olivetti" che noi in redazione chiamavamo "la ruspa" per il rumore assordante che Guido gli riusciva a tirar fuori, scrivendo a dieci dita articoli senza un refuso e senza bisogno di correzioni, pronti per essere digitati (come toccò moltissime volte anche a me) prima sulle telescriventi e poi, anni dopo, sui computer. Eccola quella lettera, su carta intestata del bisettimanale "AB", una sua sfida giornalistica che non ebbe la fortuna che avrebbe meritato:

Ti dovevo una risposta: saldo questo debito di coscienza, formalmente, a poco meno di due anni di distanza. Il tempo non è passato invano. Anzi. Mi offre l'opportunità, come speravo, di considerare la mia risposta superflua o comunque di affidarla non a considerazioni etico- filosofiche ma a considerazioni di fatto. Come vedi, nel giornalismo- come e forse più che in altre professioni- l'applicazione, accompagnata da serietà e da umiltà, paga. Sacrificarsi è saggio. Perché comunque- e sottolineo comunque- tempra e dà spessore alla vita. Specie quando si è scelto di avere una vita che si realizza nel rapporto costante con la società (e naturalmente con la famiglia). Non si vive per sé e di sé, ma con sé e con gli altri. Non è facile. Ogni giorno ci sono da evitare insidie e trappole: talune "oggettive", altre disseminate da gelosie e invidie. C'è bisogno di un costante allenamento alla serenità, per esprimere (nel quotidiano) una capacità di analisi che favorisce profondità e tempestività di giudizio. C'è bisogno di un grosso lavoro e di assoluta disponibilità al sacrificio. Non è vero, come si usa dire, che bisogna aggirare la montagna se questa non è scalabile; si può evitare di prenderla di petto, come si può evitare di aggirarla (rassegnandosi): basta mettersi d'impegno a raggiungere la vetta per sentieri che l'avvolgano, passo dopo passo. La conquista della cima, per questi percorsi, forse non provoca esplosioni di gioia ma certamente rende la vittoria più vera, più propria, più genuina. E c'è di più: è sempre una vittoria di cui sentirsi padroni e non servi, utilizzandola nella concezione di vita con sé e con gli altri, non per sé e senza (se non "contro") gli altri.

Ma ora basta. Se no dò ragione a chi sostiene che tra me e mio fratello (il parroco!) c'è stato uno scambio di professioni... Ti faccio gli auguri più affettuosi. Consentimi solo di ricordarti che non si è "Capi" per decreto o ordini di servizio.

Come vedi, ho scritto col computer. Per non farti faticare a leggermi. Non credere però che abbia scritto... di getto. Non a caso sono passati quasi due anni, per la risposta. Erano cose che avrei potuto dirti anche a pochi giorni dall'arrivo della tua lettera ma avevo il timore di fare puro esercizio di retorica. Accompagno questa lettera con un modesto oggetto (non l'ho visto: ho incaricato Sara di acquistarlo, con fretta, il giorno prima della data che avevamo concordato per stare insieme a pranzo. Spero che sia all'altezza del messaggio). Ho scelto di offrirti un vecchio pennino con la relativa asta. Perché? Semplice: diffida del computer. Almeno su alcuni temi. I "Capi" non possono e non devono permettersi di far commenti e-o considerazioni senza aver prima pensato. Il pennino aiuta a riflettere; il computer non permette pause. Per quanto possibile, ricordatelo. Scusa della chiacchierata, ciao e buon lavoro

P.S. Lascia perdere gli incontri a tavola programmati. Ci incontriamo (e spero continueremo a incontrarci) giorno per giorno attraverso il lavoro. Al ruolo del Maestro preferisco quello del compagno di strada. Se mi servirà una mano te la chiederò, con rispetto e con lealtà; se ti serve una mano puoi chiedermela: l'accoglierò con identici sentimenti. (4)

Tornando all'Aquila, l'indomani, per i funerali, i pensieri ed i ricordi mi si accavallavano. Nella chiesa di San Silvestro, stracolma di gente nonostante il periodo feriale, Padre Lorenzo Polidoro, il fratello di Guido, durante la toccante omelia citò alcuni passi del mio articolo sostenendo che l'autore aveva toccato i tasti giusti della personalità del defunto. Per me fu una liberazione (anche per le lacrime). Potevo tornare al mio dolore senza preoccupazioni aggiuntive. Un dolore che era di tutti i colleghi. Scrisse Gianni Giovannetti che, per anni, era stato il suo vice:

Mi ricordo di Guido Polidoro, come in una fotografia che non ingiallisce mai ed è destinata a rimanere quella, la sigaretta sempre accesa tra le labbra e i suoi occhi azzurrissimi. Ecco, questi erano i suoi estremi: la rudezza taciturna e che sapeva di fumo di un Jean Gabin (un po' ci assomigliava), e la mitezza di quello sguardo azzurro da bambino.

Il nostro incontro, agli inizi, non fu per niente facile. Il suo lavoro era tutto e per questo, come ogni innamorato geloso, era possessivo, accentratore, esclusivo. Radunava a sé tutte le energie e le risorse che appartengono a questo mestiere: quelle che ci infili dentro, ogni giorno, e quelle che ti restituisce filtrate, a volte perfino sublimate, attraverso la realtà che racconta. "Un mestiere per il quale- diceva spesso- sacrificarsi è saggio" e lui, quel mestiere, ce l'aveva nelle vene. Dunque non era facile rubare e condividere quei pezzetti d'amore che Guido voleva tutto per sé. Non era banale egoismo il suo. Era dedizione, cura, un accanimento vitale. Appunto era dono di sacrificio. Il giornale era la sua casa, la sua famiglia, gli affetti, le ambizioni, il potere. Marco, Robert, Sara, i figli amatissimi di Guido, un po' sono cresciuti in quelle stanze di redazione impregnate di fumo e di notizie a piazza Palazzo e poi alla Fontana Luminosa. Lui che non c'era mai, i figli se li godeva così. E in quei momenti, con loro che ticchettavano con frastuono sui tasti delle macchine da scrivere, Guido Polidoro finalmente sorrideva.

Sì, poi anche il potere. Due cose Guido Polidoro amava più di ogni altra: la politica e la cronaca. Oggi sembra un nonsenso accostare la cronaca alla politica, quando i nostri giornali grondano retroscena e commenti e la cronaca, appunto, appare sempre più un esercizio secondario. Polidoro, invece, in questo era un maestro straordinario: lui faceva cronaca e quella cronaca era "la politica". Non v'era chi potesse lamentarsi o protestare, perché lì c'erano i fatti, messi insieme in un'architettura sempre perfetta e perdipiù chiara, semplice, persino definitiva. Ed ecco il suo "potere": nessuno sapeva fare meglio e tutti potevano imparare, politici e giornalisti compresi. Lui lo sapeva, e così diventavano più densi e appaganti gli sbuffi di fumo delle sue sigarette.

Caro Guido-Jean Gabin, ci mancherai. Ci mancherà quella cascata rumorosa e veloce dei tasti della tua macchina da scrivere sui fogli di carta che presto si riempivano, ogni sera, delle idee e dei pensieri che fanno un giornale. Ci mancheranno i tuoi consigli in un mondo del giornalismo che non è più scuola, non è più palestra. Ci mancherà il tuo sorriso malizioso, le tue verità dette senza troppi complimenti ai potenti, le tue battaglie per chi il potere non ce l'ha. Ci mancherai tu. (5)

Scrissero, in una "Lettera aperta a Guido Polidoro", i colleghi Maria Pia Renzetti e Luigi Marra:

Caro Guido, ti sono piaciuti i tuoi funerali? Noi faremmo salti di gioia se ai nostri potessimo avere tanti amici che tu, dal Regno dei Giusti, hai almeno potuto contare, mentre noi non abbiamo fatto in tempo. Stai sorridendo, e dai tuoi occhi brilla la più grande soddisfazione perché, come noi, hai notato che non c'era "L'Aquila ufficiale", non c'era la "Regione fantasma" né la "Provincia provinciale", non c'erano i tanti Enti né i parlamentari. Insomma non c'erano le Istituzioni e gli uomini che tu, da collega veramente libero, hai sempre difeso per quello che rappresentavano in un contesto democratico e nello stesso tempo criticato negli errori. Hanno ricordato solo le critiche, e non aggiungiamo altro. Certo, abbiamo visto Cecco Peppe, Federico, Luciano ed anche altri legati alle istituzioni, ma non li contiamo perché, come noi, erano nella chiesa di San Silvestro per amicizia e rappresentavano, in quel momento, solo il dolore che avevano nel cuore. E dagli con quel sorriso e lo sbuffo dell'eterna sigaretta! Da noi due ti aspettavi forse il discorsetto di circostanza? Alla nostra età, che poi è anche la tua, non si cambia, e se il pane si chiama pane perché dargli della ricotta? Lo vediamo che stai scoppiando di soddisfazione nel leggere il pezzo del tuo allievo Angelo, ma non dimenticare che il "ragazzino capo-redattore" lo abbiamo battezzato prima noi, e quindi anche noi scoppiamo di soddisfazione. Forse, per non mandarla a dire, ci saremmo aspettati anche qualche riga ufficiale dal tuo ex giornale, ma l'assenza non ci sorprende ed anzi, come te, non l'avremmo gradita, se non proveniente dal cuore.

Per parlare di cose serie, hai contato quanti colleghi erano presenti e tutti con i lacrimoni agli occhi? Dai giovincelli ai "capi" per antonomasia c'erano quasi tutti, e quelli che non c'erano stavano lavorando con il pensiero rivolto a te, ai tuoi insegnamenti, alla tua amicizia sempre pronta a dare e che nulla chiedeva in cambio. Hai seminato bene, dobbiamo riconoscerlo, ed il seme, fortunatamente, è caduto in buone zolle. Smettila, per un attimo, di fare il sornione, ed abbracciaci come noi ti abbracciamo con tanto affetto e tanta nostalgia. (7)

* * * *

I colleghi, appunto. Spesso con Guido si discuteva della professione finendo col parlare di questo o quel collega. A volte il Capo aveva espresso, sotto il profilo professionale, dei giudizi sferzanti (devo dire, col senno di poi, indovinati) anche se mai avrebbe potuto immaginare, mi disse, lo scandalo che già in quella primavera del 2000 cominciava a travolgere il vertice dell'Ordine regionale dei Giornalisti.

Mi colpì, perciò, molto quando il Capo, in un colloquio davanti alla "sua" edicola (quella a piazza Regina Margherita dei fratelli Franco e Luciano De Iacobis) espresse un lusinghiero giudizio su Peppe Vespa: "Questo benedetto "Editoriale"- disse- ne ha scoperti di scandali e malefatte!".

In effetti, rileggendo a ritroso i principali fatti aquilani dell'ultimo decennio, l'Editoriale ed il suo giornalista- editore sono sempre presenti. Nel bene o nel male. Esemplificativa, in tal senso, è la vicenda del cosiddetto "nastro dei misteri", ovvero della registrazione che Peppe Vespa fece di un colloquio avuto con alcuni uomini politici alla fine dell'estate del 1993.

Scrive Vespa, cinque giorni dopo il clamoroso blitz del Pm Tragnone in Municipio che portò all'arresto dell'allora sindaco Dc, Peppe Placidi:

Gli avvenimenti degli ultimi giorni, caratterizzati da una costante presenza della magistratura e delle forze dell'ordine a Palazzo Margherita, meritano una riflessione attenta di tipo politico ed un'analisi dei comportamenti dei nostri amministratori di fronte agli "incidenti di percorso" che si verificano, ormai, quotidianamente.

Per quanto riguarda la situazione politica in cui versa questa amministrazione vanno rilevati alcuni punti essenziali. Il primo riguarda il malvezzo dei rappresentanti di spicco di ogni partito di fare terra bruciata nel loro intorno per conservare con sicurezza le loro posizioni di leadership. Il risultato è che quando gli stessi abbandonano il Consiglio municipale per Camera e Senato, regna sovrano il vuoto assoluto. E così, sia la "Lega Lombardi" che il "clan Ferrauto", promossi ad "incarichi superiori", hanno dimostrato di essere scatole vuote, incapaci di governare propositivamente questa città. Per contro, le opposizioni non hanno i numeri e forse neanche il coraggio per determinare una crisi risolutiva. È inutile che i vari Cialente, Aloisio, Fabiani continuino a cavalcare la crisi in televisione e, di contro, a permettere, con la loro presenza in Consiglio comunale che "il nulla" malgoverni questa città. Per non parlare del partito degli "Zombies", il fantomatico Psi del povero Giovanni Giuliani, che si è visto ridimensionare uomini e mezzi dalla magistratura; degli altri partiti, non è neanche il caso di parlarne. Se a questa breve analisi aggiungiamo la disamina dei comportamenti degli amministratori non si può essere che colti da una crisi di rigetto totale. Gli eventi legati al problema dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, hanno chiaramente manifestato l'incapacità di coloro che, negli ultimi anni, si sono avvicendati sugli scranni del Consiglio comunale. Noi, e non solo noi, siamo, però, convinti che dietro tutta questa "giostra" non possano che celarsi manovre poco chiare, affatto trasparenti e affari poco puliti; poiché, se così non fosse, il problema si sarebbe potuto risolvere ormai da tempo.

Ma i rifiuti sono "l'affare" del 2000! Ebbene, ad un problema così grave si è risposto con atti illegittimi e con l'arroganza di presupporre che il Tar sconfessi l'operato del Coreco e permetta l'assegnazione dell'appalto (a trattativa privata) alla "Deco srl", con buona pace di chi sopporta gli "odori" e deve soggiacere ai rischi che la Cona comporta. Inoltre se anche così fosse, il problema rifiuti non sarebbe risolto, ma semplicemente rinviato. La paradossale buffonata del piano traffico con "relativa" pedonalizzazione del centro storico, è stata l'ennesima dimostrazione di incapacità a portare avanti anche quelle poche decisioni prese.

Ma l'esempio più calzante di come viene governato questo Comune, è la vicenda Perdonanza. Abbiamo più volte chiarito il nostro pensiero in merito; la celebrazione Celestiniana è patrimonio inalienabile della storia e della cultura di questa città, sono soltanto "i ladroni che devono essere cacciati dal tempio". Non ci si può nascondere, quindi, dietro presunti "nemici della Perdonanza" per giustificare una scorretta gestione economica della manifestazione; non esistono nemici della Perdonanza, ma soltanto persone che vorrebbero che questa ricorrenza fosse gestita in modo oculato, trasparente, nell'interesse della città e non di "pochi intimi".

Ma torniamo ai fatti. Più volte questo giornale si è fatto portavoce del malessere che investe tutto il mondo culturale cittadino; abbiamo dato ampio spazio e voce anche a interventi di operatori culturali, critici, ecc.. Ne è venuto fuori che la Perdonanza e soltanto la punta emergente di un iceberg che racchiude associazioni culturali, Enti pubblici, operatori del settore ecc.. Ebbene, rendere noto che in questo campo esiste una "cupola", che tutto gestisce dalle manifestazioni ricreative a quelle culturali, passando per l'ideazione, la realizzazione e la pubblicizzazione, a qualcuno ha dato veramente fastidio. L'aver dimostrato, facendo i nomi e cognomi, come avviene la spartizione della torta attraverso una serie di società, variamente collegate tra loro a mo' di scatole cinesi, ha rotto le uova nel paniere a chi, fino ad oggi, aveva gestito impunemente il pubblico denaro con la sola logica del nepotismo e della spartizione. Tutta una serie di "segnali" sono arrivati alla nostra redazione con lo scopo di intimidirci: dalla diffida inviataci dall'avvocato Giuseppe Dell'Orso, legale di Enzo Gentile, allo stop alle spedizioni del giornale della locale direzione degli Uffici postali con motivazioni a dir poco ridicole, alla denuncia di Romeo Ricciuti, al divieto di circolazione del nostro quotidiano a Palazzo Margherita, posta in atto prima dal sindaco Marisa Baldoni, poi dal sindaco Placidi. Non ci siamo fermati, anzi siamo più che mai convinti che intorno "alla cultura" ruotino interessi appetibili e la riprova è che l'unico assessorato non ancora assegnato, perché ambito da tutti, è proprio quello della Cultura. Ma tant'è: dove non sono riusciti con la forza hanno tentato di farlo con il denaro.

La gente deve sapere, infatti, che questa amministrazione comunale, dopo aver provato a tacitarci con "le cattive", ci ha riprovato con le buone. Un giorno di luglio (...) forse rincretiniti dal solleone, si sono presentati alla nostra redazione, due assessori ed un accompagnatore i quali, atteggiandosi a mediatori, a loro detta "su mandato del sindaco", ci offrivano "lavoro" per trenta-quaranta milioni, nell'ambito degli "appalti" per la Perdonanza '93, a condizione che la smettessimo con i nostri "attacchi" ed assumessimo una linea più morbida. Inutile dire che abbiamo sdegnosamente rifiutato. Il risultato fu che, il giorno dopo, pubblicammo l'articolo dal titolo "Anche Lombardi e Placidi sapevano" riferito ai brogli delle precedenti gestioni della Perdonanza che, ormai, come tutti sanno, sono oggetto di inchieste da parte della magistratura. Anche questo episodio è illuminante circa un modo di amministrare fatto di pressioni, ricatti, mazzette, favori e quant'altro, che non può essere più tollerato. È molto probabile che il sindaco Placidi sia scivolato sulla proverbiale buccia di banana e su questo può avere tutta la nostra solidarietà. Continuiamo a non dargliela, invece, per quel che riguarda il modo di governare di cui egli stesso è espressione e vittima. A questo punto ci aspettiamo da Placidi, tuttora agli arresti domiciliari, quelle coraggiose dimissioni che non ha saputo (o potuto?) rendere nel momento in cui (e ciò gli avrebbe restituito dignità politica) veniva raggiunto dal provvedimento restrittivo. Questo con la speranza che non si dia corpo alle voci di una nuova edizione di un quadripartito ancora una volta gestito dalla "Lega Lombardi", e si vada, in tempi celeri, a nuove elezioni per ridare fiato a questa boccheggiante città. (8)

La portata della questione non sfugge all'allora consigliere comunale indipendente, Biagio Tempesta. Il quale presenta un'interrogazione al sindaco facente funzioni, il socialista Giovanni Giuliani, inviata per conoscenza al Procuratore della Repubblica:

Per conoscere se sia vero quanto riportato nell'articolo del quotidiano L'Editoriale; in caso positivo la S.V. voglia rendere di pubblico dominio: a) i nominativi dei due assessori autori della "operazione"; b) di quale tipo di "lavoro" si sarebbe dovuto occupare il giornale; c) l'ammontare preciso da corrispondere ed a quale capitolo del bilancio comunale sarebbe stata imputata la spesa relativa. Si chiede urgente riposta. (9)

Le risposte le fornisce lo stesso Vespa qualche giorno dopo:

Che vergogna! Le future dimissioni del sindaco sospeso Placidi, annunciate oggi nella sua conferenza stampa, ci appaiono quanto meno tardive. Non vorremmo che dietro le stesse si celasse un ulteriore tentativo di continuare, con questo andazzo, per ricostituire una ulteriore Giunta a termine e di servizio, di salute pubblica.

Il tentativo di impedire immediate elezioni è chiaro a tutti, si gioca sul tempo per arrivare in primavera, con gli stessi uomini per poter quindi tirare "la volata", per le probabilissime elezioni politiche, in posizione di forza.

Questo tentativo è da impedire ad ogni costo. Questo modo di intendere la politica come solo mezzo di potere e di gestione anche economica senza tenere in alcun conto le esigenze dei cittadini, deve finire. È necessario un cambiamento radicale di idee, metodi e soprattutto di uomini. È per questo motivo che pubblichiamo stralci del colloquio, ormai famoso, da noi avuto con alcuni amministratori, dal quale anche il profano può capire con quali metodi si è gestita sino ad oggi la pubblica amministrazione.

Vespa: Placidi che ha detto?
Sabatino Pupi: non te lo posso dì.
Vespa: che dice, è d'accordo?
Pupi: a te non te lo posso dire
Omissis
Vespa: sì, ma Sabatì, parliamoci chiaro, no, io ho scritto quello che ho scritto, adesso come faccio, io a fare un lavoro.
Pupi: fatti i c... tuoi.
Vespa: ma non lo posso fare.
Pupi: ... Omissis, perché se 12-13 milioni, 20 milioni, 15 milioni per te...
Vespa: no Sabatì, non lo posso fare, sai perché Sabatì, io ho scritto questo qua, no; domani io faccio un lavoro per la Perdonanza...
Pupi: e ma allora tu, allora tu...
Vespa: scusami Sabatì, dopo che ho fatto quel dossier la gente viene a sapere...
Pupi: sei un fenomeno... pensa alla gente che c.... gli frega, la gente ci si diverte. (...)
Vespa: no-no, Sabatì... poi oltretutto... Placidi è d'accordo con questo discorso?
Omissis
Entra Carlo Iannini con un accompagnatore:
Iannini: Buonasera. Avete risolto?
Vespa: che devi risolvere?
Iannini: quella storia, avere risolto? (Rivolto a Pupi) Ci hai parlato o no?
Omissis
Iannini: se esci domani (riferito a Vespa ed al numero dell'Editoriale in stampa, n.d.r.) mi metti in difficoltà con la Giunta... a te non te ne frega un c...(...). > Pupi: allora io dico una cosa, se noi possiamo risolvere... Omissis... se riusciamo a farlo lavorare bene, se riusciamo a farti guadagnare qualche milione a te, mi pare che sia più percorribile, questa strada. Omissis.
Vespa: questi se ne debbono andare a casa, punto e basta.
Pupi: non se ne vanno.
Vespa: e va bene non se ne vanno e allora
Omissis
Vespa: noi ci siamo capiti, dopo quello che io ho scritto, io non posso andare a collaborare con Errico Centofanti.
Pupi: è un lavoro, ti offrono un lavoro, tu lo fa... io come Comune ti dico tu devi fare questo lavoro qua, mi fai la fattura e sta a posto.
Omissis
Pupi: io e Carlo Iannini, credo che se ci mettiamo in testa qualche cosa.
Vespa: no, no, deve finire. Sabatì, mo' parliamoci chiaro, io ho 57 anni, mo', ormai ti dico sinceramente: io ne ho viste troppe, questa gente deve solo andarsene a casa, perché...
Pupi: dicono che tu te ne devi andare affanc....
Iannini: com'è, io non gliel'ho detto e tu glielo dici?
Vespa: loro dicono che io dove debbo andare; all'altro paese...
Pupi: sì.
Vespa: e io li mando in galera, perché lì debbono stare, hai capito? La devono finire con questa tracotanza che loro hanno (...).
Iannini: mò lui (rivolto a Vespa, n.d.r.) si deve calmare.
Vespa: io a questa storia, Sabatino, non ci sto più.
Pupi: voglio dire che una volta hai scritto, non puoi riscrivere.
Iannini: (rivolto a Vespa, n.d.r.) non te la pigliare con Peppe, no, con Placidi...
Omissis
Vespa: se ne debbono andare a casa.
Omissis
Iannini: mo', poi, pigliatela con uno, non li coalizzare tra di loro...
Vespa: Carlo, quanti ne siete: quaranta? Con quaranta me la piglio!
Il terzo: io direi una cosa, la fa Centofanti; senza incarico, solo il corteo e l'isola sonante.
Iannini: e non lo fanno, non lo fanno perché Placidi è determinato, quando ci ho parlato io, ha detto che la Perdonanza deve costare almeno 500-550 milioni.
Vespa: sì, ma come si permette Placidi di misurare tutti quanti alla sua persona, io non sono alla sua altezza, non mi faccio ricattare per i soldi, punto e basta. Ecco la mettiamo in questa maniera qua.
Omissis

Quanto sopra non ha bisogno di alcun commento. A buon intenditor poche parole. Torniamo a ribadire che non è più pensabile una soluzione "politica" di questa crisi. Invitiamo ancora una volta il Prefetto a sciogliere questo Consiglio comunale "per manifesta incapacità ad amministrare". (11)

Apriti cielo! Piovono inchieste. Che si concluderanno tutte in una bolla di sapone. Quella sulla Perdonanza. Quella per diffamazione dopo la querela presentata da Placidi contro Vespa e, soprattutto, quella avviata dalla Procura sul "nastro dei misteri". Scrivo:

Non ci fu nessun tentativo di corrompere l'editore del foglio "L'Editoriale", Peppe Vespa. Lo ha stabilito ieri mattina il Tribunale aquilano (Villani presidente, Tatozzi e Pace giudici) che ha assolto l'ex sindaco Giuseppe Placidi, e gli ex assessori comunali Sabatino Pupi e Carlo Iannini dall'accusa di aver cercato di "ammorbidire", con un "regalo", la penna di Vespa che sul suo giornale attaccava duramente l'amministrazione di quell'epoca. I giudici hanno ritenuto che l'imputazione a carico dei tre di abuso d'ufficio (per aver cercato di procurare un ingiusto vantaggio all'allora sindaco Placidi) "non sussiste" dando ragione alle tesi della difesa (avvocati Francesco Chiofalo per Placidi, Marzio Del Tosto per Pupi e Antonio Valentini per Iannini) e torto all'accusa, rappresentata dal sostituto procuratore Mario Pinelli che aveva chiesto la condanna a dieci mesi per Pupi e a sette mesi ciascuno per gli altri due.

Il processo, così come l'intera vicenda, ruota su uno dei tanti "nastri dei misteri" che hanno animato la vita cittadina degli ultimi anni. Era stato Vespa prima a rivelare sul suo giornale e quindi a consegnare alla magistratura, il nastro magnetofonico contenente il tentativo di "approccio" fattogli è che lui registrò di nascosto. Un colloquio, raccontò Vespa, nel corso del quale Iannini e Pupi gli offrirono un "lavoretto" lautamente pagato per la Perdonanza in cambio di commenti meno "cattivi" contro l'amministrazione Placidi.

Consegnato alla Procura, il nastro è stato trascritto con una perizia d'ufficio che ha confermato la "trascrizione" che ne aveva fatto Vespa sul giornale. Solo che ieri mattina, durante il processo, gli avvocati difensori hanno fatto notare che era stata fatta la trascrizione del colloquio ma non l'identificazione delle voci. Né è stata ritenuta prova acquisibile la copia dell'Editoriale in cui si pubblicava il colloquio con le frasi addebitate a ciascun protagonista: occorreva una perizia. Lo stesso Vespa, poi, nella sua testimonianza non ha gettato benzina sul fuoco: i toni di quel colloquio, ha raccontato, erano distesi e tra reciproci sorrisi. Dopo dieci minuti di camera di consiglio, è arrivata l'assoluzione. (12)

* * * *

Benzina sul fuoco. Non è stata trovata la benzina con la quale, nell'immediata vigilia delle elezioni comunali del 2002, qualcuno incendiò l'auto del giornalista-editore, ancora protagonista della vita politica cittadina. Un fatto grave che così raccontai:

Peppe Vespa, all'Aquila, lo conoscono tutti, proprio tutti. Ma forse nessuno lo ha visto piangere. Era in lacrime, ieri sera, il direttore responsabile dell'Editoriale, davanti alla carcassa fumante della sua auto data alle fiamme proprio sotto la redazione del suo "quotidiano indipendente" e "garibaldino", parcheggiata in via Svolte della Misericordia, a due passi dalla chiesa di San Silvestro. Un rogo che lancia luci sinistre e rischia di segnare questa fine della campagna elettorale.

L'allarme poco dopo le 19,15. Prima un passante, poi le tre redattrici che erano all'interno dell'ufficio, hanno visto le fiamme alzarsi per dieci metri dalla Fiat Panda di Vespa che, in quel momento, non era presente in redazione. Sono accorsi i Vigili del fuoco e la polizia. Per l'auto non c'era nulla da fare. S'è pure rischiato grosso. Le fiamme hanno, infatti, danneggiato il muro e il portone di una casa ed una tettoia dello stesso stabile. I vigili del fuoco hanno dovuto tagliare un grosso pino piantato nel cortile antistante l'abitazione, che ha rischiato di finire in cenere e sottoposto a controllo di stabilità la tettoia attaccata dalle fiamme.

Gli investigatori della Digos hanno dato per assai probabile che non si sia trattato di un'autocombustione. Primo: perché un testimone avrebbe visto allontanarsi una persona, un giovane con fare sospetto. Secondo: le fiamme, a giudicare dall'iniziale esame fatto dagli agenti, si sarebbero propagate dal portellone posteriore della "Panda" che notoriamente ha il motore nella parte anteriore, anche se su questo punto i vigili del fuoco non hanno espresso un'indicazione definitiva in attesa dei riscontri.

Un atto intimidatorio? Una reazione agli ultimi scritti di Vespa? Di certo, nei giorni scorsi il direttore dell'Editoriale (che è andato a ruba) non era stato affatto tenero nei confronti del candidato sindaco del centrosinistra, Celso Cioni. Articoli che gli avevano attirato pesanti critiche. Erano anche stati diffusi volantini, alcuni riproducenti la testata dell'Editoriale con contumelie e attacchi all'indirizzo di Vespa, altri (anche "firmati") in cui si rimproverava scarsa coerenza a Vespa riproducendo, a conferma, i suoi scritti di qualche mese fa contro Tempesta e l'amministrazione di centrodestra. Per questi episodi il direttore del quotidiano, l'altro ieri, aveva presentato una denuncia contro ignoti in Questura. "Non voglio e non posso credere che si sia giunto a tanto", è stato l'unico commento di Peppe Vespa, in lacrime. (13)

Un fatto grave che così commentai, in un corsivo a margine del pezzo di cronaca dal titolo "Ma L'Aquila non è Palermo", assumendomi il rischio di intervenire a 48 ore dall'apertura delle urne:

Ore 19,20 del 23 maggio 2002: qualcuno, ieri, ha deciso di spostare a Sud, oltre Scilla e Cariddi, la posizione geografica di questa nostra città. Un fatto gravissimo, mai accaduto almeno nell'Aquila democratica. Democratica, appunto. Noi non ci stiamo. Prendiamo, con decisione, le distanze dalla coda avvelenata di campagna elettorale (che pure era stata segnata dalla correttezza) in cui si arriva a mettere fuoco alle auto dei giornalisti. Peppe Vespa schierato? In democrazia ha il diritto di schierarsi, se crede, anche un pubblicista di provincia. Peppe Vespa scrive il falso? Chi ha da lamentarsi può querelarlo o chiedergli i danni, come alcuni hanno fatto in passato. Peppe Vespa è prezzolato? Lo si denunci pubblicamente citando nomi e fatti. Ma le fiamme no. L'Aquila non è Palermo.

Qualche giorno dopo mi smentisce Emidio Di Carlo in un intervento nel quale si firma "giornalista indipendente e critico d'arte":

A margine del commento sollecitato dall'incendio della macchina del collega Peppe Vespa si è subito pensato all'origine dolosa, magari legata allo "sbilanciamento politico" che lo stesso Vespa ha rivelato, attraverso il suo "Editoriale", alla vigilia della prima tornata elettorale. Nel rigettare gesti ignobili contro la persona o quanto gli è utile per la professione, è giusto, tuttavia, allargare il campo delle considerazioni su altri segnali preoccupanti che toccano la politica e l'economia e che, attraverso la gestione della cultura, inchiodano politici ed amministratori di ventura a precise responsabilità dalle quali non sono estranei certi compiacimenti dovuti ad un'informazione basata sul semplice riciclaggio dei fax del Palazzo.

La ricerca appena conosciuta sulla realtà abruzzese (leggasi: "Dia - Dna Bocconi"), ha indicato: la vulnerabilità economica-finanziaria rispetto alla criminalità in relazione al proliferare degli sportelli bancari, l'accumulazione dei capitali nell'economia criminale ed il riciclaggio dei proventi, il reimpiego nell'economia legale del denaro ripulito. L'Abruzzo, insomma, risulta in una fascia ad alto rischio, con il territorio aquilano in prima linea. L'incubo di "una città (L'Aquila) che muore", così si legge sulla stampa dell'Arcidiocesi di monsignor Molinari, è sotto gli occhi di tutti. Purtroppo, quando il campanello di allarme ormai tace, quando la vicenda Vespa si presenta eclatante, si tradirebbe il principio della corretta informazione qualora non si affermasse, senza mezzi termini che "L'Aquila è Palermo".

Al proliferare degli sportelli bancari, va aggiunto il diffondersi dei super-iper-mercati, una fantomatica metropolitana di superficie, la caduta verticale dell'economia nel centro storico con esercizi commerciali che aprono e subito chiudono (troppi "affittasi"), le industrie che riducono personale o chiudono del tutto incrementando l'esercito dei disoccupati, la "bufala" del megaparcheggio, la mortificante "politica della fontanella" e dei "giardinetti in fiore", etc..

Ma è sulla politica culturale che bisogna guardare, poiché la stessa fornisce indicatori precisi sul più grande male rivelato dalle agenzie che svolgono sondaggi. Sono troppe le constatazioni che la cultura, all'Aquila, è una sorta di option a vantaggio del politico di turno. Da qualche settimana è stata pubblicizzata l'istituzione di un "Premio di Poesia" nel nome di Laudomia Bonanni nota, in realtà, per i suoi importanti ed esclusivi testi di narrativa. Oggi è in atto una mostra sulla "Mail Art" che risulta "Arte viaggiata" con ben altro scopo.

È evidente che torna comodo il nome prestigioso, per puntare ad aiuti economici attraverso la protezione di un partito, le istituzioni pubbliche o istituto bancario di circostanza. Magari per alimentare con il denaro aquilano gli editori della costa.

La vera chicca è però la mostra allestita nel "qualificato" Palazzetto dei Nobili. Sotto l'attenta "direzione" del sindaco Tempesta e dell'assessore Tancredi, è stato dato mandato ad un critico pescarese di allestire una mostra sul tema della pace (sic!); in verità: per uso campagna elettorale. Dunque una politica culturale di grande apertura regionale, in linea con il programma commerciale del Polo delle Libertà; una politica, insomma, dei "numeri" che ha preso le distanze (giustamente!) dalla politica del rappresentante locale del Polo, la senatrice Claudia Ioannucci troppo accecata dall'aquilanità e dal "neo-campanilismo". Ecco, allora i numeri della mostra: 222 elaborati proposti, 16 giunti dalla provincia aquilana, 3 dalla stretta periferia del capoluogo: nessun elaborato in linea con la "Mail Art".

Meglio sorvolare sul confuso allestimento nelle sale del Palazzetto dei Nobili che offende anche i vivaci allestimenti di mostre negli asili materni. Quanto al voluminoso catalogo a colori: sulla copertina campeggiano lo stemma del "Comune de L'Aquila" e l'editore (ovviamente di Pescara). Poi, altre due chicche: una mostra di "Mail Art" che tale non è; la preposizione "di" trasformata in "de".

Basta! I "mercanti" che infestano il Palazzo e gli ambienti culturali vanno cacciati dal tempio. La vera "Città della Cultura" deve risorgere, nel rispetto degli autentici valori locali, in una trasparente gestione amministrativa dell'ente pubblico. Oggi, la quasi totalità del tessuto politico-culturale- amministrativo evidenzia uno stato di fatto che fa concludere: "L'Aquila è Palermo". L'aver cercato di sottolineare il contrario ha rafforzato tale convinzione, dimostrando che la città non è più un'isola felice. (14)

Informazione compiacente, spesso "basata sul semplice riciclaggio dei fax di palazzo": un'accusa pesante. Sembra voler smentire Di Carlo un'editoriale (dal titolo "Vita da Grand Hotel") di Giosafat Capulli secondo il quale l'informazione politica che conta passa per il cosiddetto "triangolo delle bermude":

Al mattino la signora, una ex insegnante, acquistati i giornali in edicola, quella della Villa comunale, si siede nella sala da thè del Grand Hotel che diventa quindi sala di lettura. Nella poltroncina a fianco, un altro cliente storico, Gildo De Paulis, anche lui attento lettore di quotidiani, commenta le notizie del giorno anche con gli avventori meno interessati agli eventi. All'ora di pranzo la sala si riempie. Mario Tertulliani, direttore del Monte dei Paschi di Siena, sonnecchia dopo il pranzo punzecchiato da Caterina e dalla bella Serena che guarda alla Sicilia: chissà perché? Giuseppina da Roio li controlla tutti, e da perfetta manager dà consigli ai colleghi e dispensa sorrisi ai clienti. In quel "triangolo delle Bermude" irrompe a un certo punto il dottor Antonello Oliva che racconta barzellette e si incavola, lui che per secondo nome si chiama Filoteo, per le cose della politica amministrativa che non vanno. E così tutti i giorni con Nino Pentola e Peppe Vespa, con Demetrio Moretti e Roberto Ettorre, con Angela Baglioni e Franco Giancarli, Gianchi Giancarlo e Cucciolo Giovanni, Franco Bologna e Renatino del Messaggero (tutti giornalisti, Pentola ancora no! Per ora). Poi quelle di Tv1 Michela Santoro ed Elisabetta Barozzi (la greca rossa), e la signora "Telecom" che scrive poesie. I giorni scivolano. E la sera la politica la fa da padrona. Gianfranco Giuliante, Vito Bergamotto, Luigi D'Eramo e qualche volta Massimo Cialente (tre ex missini e un ex Pci), tengono banco. Ma quando arriva lui, il senatore vero Enzo Lombardi, il livello cresce in ironia e autoironia. Mancano gli ex ricoverati di Collemaggio da qualche tempo: li hanno trasferiti altrove e si vede. Ersilia, Domenico, Raul, Annarosa, Massimo e Antonietta ascoltano tutto e sorridono. In quel luogo si riassume la città che discute e qualche volta tira fuori una bella idea. Vita da Grand Hotel, insomma. Vedere per credere! (15)

Il giornalista-editore Ugo Centi smentisce Capulli: l'informazione cittadina che conta passa per succulente cene offerte dal potente di turno. Un'altra grave accusa (anche questa rimasta senza alcuna replica: d'altra parte, le cene c'erano state, eccome) alla stampa aquilana:

Non bastavano i comunicati e le conferenze stampa autoelogiative. Ora all'Aquila pare in voga un'altra forma di "comunicazione" politica: la cena tra i giornalisti (non tutti, per fortuna) e i potenti di turno (a proposito, chi pagherà il conto all'oste?). L'iniziativa, per di più, pare propiziata proprio da uno della categoria (ancora a proposito, chi sarà?). Si è saputo, poi, che le prelibatezze culinarie verrebbero gustate sia con politici un po' "ex", ma sempre in forma, che con potenti in piena... carica. Certo, non si vorrebbe essere nei panni di quegli operatori dell'informazione che partecipano alle libagioni. Riuscire a criticare al mattino coloro con i quali si è diviso il tavolo del ristorante a sera dev'essere una faticaccia. Alla quale, comunque, molta informazione aquilana pare sia lieta di affrancarsi quanto e più che può. Recita un vecchio motto, per il vero mai di grande seguito in città: la stampa è il cane da guardia del cittadino nei confronti del potere. Ma s'è mai visto un "cane" che azzanna i polpacci dei potenti essere invitato ai loro banchetti? (16)

* * * *

autografo Polidoro
Scritto autografo Guido Polidoro


Dal "ricordo" di Guido Polidoro fatto stampare dalla famiglia in occasione del primo anniversario della morte:

Ad un colloquio che per me era tutto (allora), giunsi sulla porta di una chiesa. Entrai. La chiesa era vuota: colma soltanto del profumo di piccoli fiori e da quell'atmosfera serena ed accogliente che è la sua caratteristica.

Mi sono inginocchiato ed ho pregato. Promisi di aver sempre tenuto fede ai miei principi. Promisi che non avrei avallato una cattiveria; promisi che tutta la mia opera l'avrei messa al servizio della povera gente innanzitutto; promisi di considerarmi sempre il servitore della gente, di coloro che non hanno forza, i più deboli in spirito e materia; promisi di dovermi sempre comportare in modo che dal mendicante al ricco, vedendomi per la strada, potessero dire: ciao, Guì. Ed uscii.

Con la stessa sensazione che provo adesso. Ne sono soddisfatto e quasi felice.
(17)



Note al testo


(1) Lettera ai colleghi del Messaggero, 28 febbraio 1994 (torna al testo)
(2) Lo stralcio viene omesso poiché la lettera è pubblicata integralmente qui appresso a pag. (torna al testo)
(3) Il Messaggero, Cronaca d'Abruzzo, 11 agosto 2000 (torna al testo)
(4) Lettera di Guido Polidoro, gennaio 1996 (torna al testo)
(5) Il Messaggero, Cronaca dell'Aquila, 13 agosto 2000 (torna al testo)
(6) Il riferimento è a Francesco "Cecco Peppe" Aloisio, Federico Brini e Luciano Fabiani (torna al testo)
(7) Ibidem (torna al testo)
(8) L'Editoriale, 23 agosto 1993 (torna al testo)
(9) Interrogazione al sindaco, 25 agosto 1993 (torna al testo)
(10) I numerosi "Omissis" sono del testo originale dal quale non si evince con certezza se si riferiscano a dei tagli effettuati alla trascrizione o, come sembra più probabile, a tratti non comprensibili della registrazione e, dunque, non trascrivibili (torna al testo)
(11) L'Editoriale, 31 agosto 1993 (torna al testo)
(12) Il Messaggero, Cronaca dell'Aquila, 22 febbraio 1995 (torna al testo)
(13) Il Messaggero, Cronaca dell'Aquila, 24 maggio 2002 (torna al testo)
(14) Il Messaggero, Cronaca dell'Aquila, 1 giugno 2002 (torna al testo)
(15) Cittanews, ottobre 2002 (torna al testo)
(16) Controaliseo, 25 novembre 2002 (torna al testo)
(17) Scritto autografo di Guido Polidoro, 1961 (torna al testo)