1992 - LA NOTTE DI SAN MICHELE
"Da Tragnone a Fidel Castro"
1992-2003: gli Eventi che Sconvolsero L'Aquila
Un Libro di Angelo De Nicola
Indice Capitoli
L'ex presidente della Regione Rocco Salini, in piedi, nel corso di un'udienza del processo per lo Scandalo Pop con gli avvocati Lino Nisii e Arturo Marini (ultimo a destra). Dietro di lui il grande accusatore, l'ingegnere Francesco Mannella.
29 settembre, San Michele
Quella notte, la famosa notte di San Michele, al macabro party davanti al carcere di "San Domenico" non ci andai. "Ci vediamo davanti a "Minicuccio"": così c'eravamo lasciati, nel primo pomeriggio, tra i colleghi della cronaca giudiziaria, tutti in ansia per quello che sapevamo sarebbe accaduto ma, talmente era clamoroso, non avremmo mai potuto credere finché non l'avessimo visto concretizzarsi. Ed una vecchia regola della "giudiziaria" dice che, se vuoi davvero il via libera per poter scrivere che una persona è stata arrestata, visto che l'ordine di custodia cautelare non può essere conosciuto da altri essendo il "re" degli atti cosiddetti "a sorpresa", devi avere la certezza che quella persona sia "ospite del grand hotel".
Dunque, se quella notte volevamo avere la certezza che davvero era stato firmato, per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana, un ordine di custodia cautelare in carcere per un'intera Giunta regionale, non c'era altro mezzo che mettere le poste alla porta carraia del "grand hotel"; vedere con i propri occhi chi entrava; spuntare sul taccuino via via i nomi di chi (un po' sapevamo, un po' intuivamo) doveva essere arrestato; tirare un sospiro di sollievo (la notizia è vera); mettersi l'anima in pace che non s'era pubblicato (o, comunque, pericolosamente anticipato, col rischio di incorrere nell'accusa di aver favorito la fuga dell'interessato) la più grande delle bufale e, infine, pensare già al giorno dopo (ed ai giorni successivi), a come "gestire" la notizia più clamorosa della storia dell'Abruzzo moderno.
"No, non ci vado- mi dissi- me ne vado a dormire: domani sarà una giornata infernale". Sì, egoisticamente, pensai a me stesso. Ma d'altra parte non avrei mai potuto immaginare che quella che doveva servire soltanto quale prova del nove per noi cronisti, si sarebbe al contrario trasformata in una "festa" come le cronache hanno poi raccontato. Per uno di quegli strani tam-tam che una città di provincia come L'Aquila è capace di generare (qualcuno ricorda ancora quel feroce "Chi sono le signore?"), stranezza a cui ho assistito più volte tra l'incuriosito (per la fenomenale efficacia) e l'atterrito (per le nefaste conseguenze), davanti al carcere di "Minicuccio" s'era radunata una gran folla richiamata da quelle che non riuscirono a restare delle soffiate ad esclusivo uso dei giornalisti. Una folla eccitata e vociante come gli spettatori che, nell'arena, attendono l'entrata del toro. Alla prima entrata (quella dell'assessore Giuseppe Lettere, aquilano e perciò il più vicino al "grand hotel"), l'olè assunse il rumore di un tappo di una bottiglia di spumante cui seguiranno delle altre.
Nella lunga notte delle manette - scrive Giancarlo De Risio in un reportage- non ha dormito neppure Francesco Mannella, l'ingegnere di Ateleta la cui denuncia del 25 settembre scorso ha fatto esplodere un pandemonio dopo che si recò presso l'Ufficio programmazione della Regione Abruzzo per avere notizie del progetto di un albergo da lui redatto per conto di una società. Ebbene, quel progetto "chiavi in mano", subito cantierabile, era stato escluso senza una motivazione apparente dalle provvidenze del Programma operativo plurifondo (Pop) finanziato dalla Cee ma affidato alla Regione per la ripartizione dei contributi. Di più. Degli altri progetti ammessi ai finanziamenti comunitari, denunciò Mannella, non esisteva neppure la graduatoria (...). Incredulo, sbigottito, confuso, gli occhi arrossati dalla veglia, seminascosto nell'auto di un amico, Mannella è rimasto nelle vicinanze del carcere fino all'alba di ieri. "Mi trovavo là per caso- ha detto ai giornalisti quando l'hanno riconosciuto- perché mi ci ha portato un conoscente che mi aveva tenuto compagnia all'Aquila tutto il giorno. Ho visto gli arrestati in mezzo ai carabinieri, ma non ero animato da alcun sentimento di vendetta, tanto che alla fine me ne sono tornato a casa tranquillo". (1)
Che notte! Così la rievocò Stefano Tamburini, un anno dopo:
Fu una notte storica, da qualunque parte la si guardi. Quel 29 settembre, giusto un anno fa, per la prima volta la polizia bussò alle porte degli "intoccabili". "Dottor Salini, lei è in arresto..." e poi la perquisizione in ogni angolo di quelle case lussuose di molti già ricchi per proprio conto e molti per i mega stipendi della politica a tempo pieno. Infine, la traduzione al carcere aquilano di San Domenico, del presidente della Giunta regionale e di otto assessori.
Una strana processione, quella. Nessuno degli "intoccabili" stava dormendo. E quando carabinieri, polizia e guardia di finanza andarono a prenderli, in piena notte, loro erano in attesa, nervosa. Sbirciavano dalle tendine di finestre rimaste a lungo illuminate con i familiari in pigiama ad ascoltare quello che fino al giorno prima credevano di non dover mai ascoltare: che il marito, il padre potente sarebbero finiti in galera.
Fino a poche ore prima erano tutti quanti a Palazzo dell'Emiciclo, per l'ultimo loro Consiglio regionale da potenti. Ma erano già accerchiati: i poliziotti in borghese avevano circondato il palazzo, e noi giornalisti eravamo tutti lì, ad attendere un blitz ancora più clamoroso, al quale molti stentavano a credere.
Al penitenziario, i potenti, arrivarono alla spicciolata, senza alcun segnale ufficiale. Il primo "intoccabile" che passò dagli affetti dei familiari a una squallidissima cella di isolamento fu l'assessore all'Agricoltura Giuseppe Lettere, uno dei fedelissimi, ormai l'ultimo nel gruppo degli amministratori che contavano, al parlamentare Romeo Ricciuti. Lettere fu il primo, perché era l'unico che abitava all'Aquila. E fu l'unico a non scomporsi, dentro l'auto dove era stretto fra un finanziere, un ispettore di polizia ed un carabiniere. Accennò un saluto ai giornalisti che cercavano di cogliere nello sguardo o nell'espressione del viso un sia pur minimo segnale di uno stato d'animo che certamente non poteva essere quello di sempre.
Poi toccò ad Aldo Canosa, con il volto piuttosto provato. E poi ancora al presidente Rocco Salini: volto terreo, più curvo del solito, sembrava più vecchio di dieci anni. Non mosse mai lo sguardo, e non ebbe cenni di insofferenza, come accadrà poco dopo a Domenico Tenaglia, che arrivò quando l'alba era vicina e il chiarore permetteva di cogliere meglio certe sfumature. Ci fu anche un gestaccio verso i giornalisti e soprattutto verso i fotografi che lo bersagliavano di flash. Poi toccò agli altri arrestati, al mattino o al giorno successivo.
L'unico a cercare di entrare di nascosto fu il vice presidente Ugo Giannunzio, che ricorse al trucco di nascondersi sotto i tappetini fra i sedili dell'auto del suo avvocato.
Che notte, quella notte. Fu lunga per tutti, anche per chi osservava incredulo, e segnò l'inizio della demolizione di un vecchio modo di fare politica che ancora resiste: fra i personaggi rinviati a giudizio troviamo ancora tre assessori regionali in carica e l'attuale presidente del Consiglio regionale. Forse, quella sera, tutti si aspettavano di veder cambiare di più le cose nei mesi seguenti. Oggi, dopo un anno, la resistenza del vecchio è ancora forte. Ma, almeno, gli "intoccabili" non esistono più. (2)
Che notte! Nemmeno io, pur nel mio letto e non davanti alla porta carraia del carcere, chiusi occhio. E non soltanto perché un amico (non feci caso all'ora, ma potevano essere le 3) mi mandò un impulso sul "teledrin" (i telefonini ancora dovevano arrivare). Richiamai quel numero di telefono che conoscevo benissimo: "Sei il solo che sta a casa a dormire. Il primo ospite- mi disse la mia "talpa"- è entrato al grand hotel, buona notte". Buona notte sì, ma all'Abruzzo. E buona notte anche al mio giornale. Rigirandomi insonne nel letto, non riuscivo a capacitarmi che il Messaggero sarebbe uscito al mattino successivo con un vaghissimo "incubo di manette" all'Emiciclo. Io avevo fatto tutto il mio dovere: "Capo- dissi a Guido Polidoro, coordinatore dell'edizione abruzzese-: guardi che stanotte arrestano nove assessori su undici della Giunta regionale per lo scandalo dei fondi Pop". Il capo stentava a credermi: troppo grosso, davvero incredibile, lo scenario che prospettavo. Ma Polidoro sapeva anche che ero ben agganciato a palazzo di giustizia. Lui sapeva molto, forse tutto, del Palazzaccio e della politica abruzzese ma non poteva sapere che, in appena tre giorni, tutto era cambiato perché il vento di Milano stava soffiando già da qualche tempo nei corridoi della Procura aquilana: anzi, s'era generata un'enorme corrente che, era facile intuirlo, di lì a poco avrebbe sollevato un tornado simile a quello nato dall'arresto di Mario Chiesa a Milano. Scrisse Polidoro nel suo pezzo assai cauto:
I reati presunti (abuso d'ufficio e falso) si identificano con i contenuti della denuncia presentata da un imprenditore. Gli stessi reati, secondo più di un legale raggiunto ieri telefonicamente, non giustificherebbero un ordine di custodia cautelare di necessità. Perché gli atti relativi alla vicenda sospetta sono già tutti a disposizione del magistrato e quindi non suscettibili di alterazioni, perché non c'è flagranza, perché appare eccessivo considerare l'intero esecutivo (nove su unici componenti) capace di delinquenza abituale. Oggi, comunque, sull'intera vicenda (non escluso lo stato di allarme) si dovrebbero avere elementi utili per fare chiarezza. (3)
"Il Tempo", invece, forte delle notizie in mano al più acuto ed esperto dei cronisti aquilani della giudiziaria, Demetrio Moretti, ci aveva creduto, eccome: a tal punto che sparò un titolo a nove colonne ("Arrestate la Giunta regionale d'Abruzzo") sulla prima pagina dell'edizione nazionale. Un titolo furbo (le virgolette sottintendevano la richiesta del Pm) che avrebbe fatto molto discutere. Per uno di quegli strani giochi del destino, quel titolo segnò di fatto la prima e la più clamorosa di una serie di presunte (visto gli esiti negativi delle molte inchieste) violazioni del segreto istruttorio di quel periodo infuocato all'Aquila che va sotto il nome di "Mani pulite". Poco dopo la mezzanotte, infatti, ancora prima che il primo degli arresti (quello di Lettere, appunto) venisse eseguito, nell'"edicola" televisiva notturna del Tg3 venne inquadrata la prima pagina del "Tempo" col suo titolo inequivocabile ed efficace. La frittata era fatta.
Solo dopo le mie insistenze, il mio capo cronista si convinse a parlare nei cauti articoli di "incubo di manette". Posizione ineccepibile e corretta allo stato delle cose (nessuna notizia di arresti al momento di "chiudere" il giornale, a mezzanotte) ma inevitabilmente risultata troppo timida, addirittura quasi da "pompieri", all'indomani quando (per un altro scherzo del destino) la redazione dell'Aquila ricevè la programmata visita dell'allora direttore del Messaggero, Mario Pendinelli, incazzatissimo per il "buco" preso dalla concorrenza.
Col senno di poi, Polidoro non poteva far altro. Era stato alle regole. Anche perché una fonte di primissima mano gli smentì, a tarda sera, la notizia di possibili arresti. Qualcuno al telefono (io gli ero seduto di fronte ma non gli chiesi né allora ne mai con chi avesse parlato) gli raccontò che l'onorevole Remo Gaspari aveva telefonato al Pm, ovvero il sostituto procuratore Fabrizio Tragnone, e che questi gli aveva negato tutto. Gaspari aveva, poi, telefonato per rassicurarlo al presidente della Giunta regionale, Salini, il quale aveva a sua volta tranquillizzato i colleghi della sua Giunta: "Ma quali arresti! Esagerazioni dei giornalisti. C'è un'inchiesta, vedremo".
Io ero certo, certissimo, del fatto mio. Eppure quella telefonata bastò a far vacillare le mie convinzioni. Quantomeno consentì di spiegarmi la ostentata tranquillità con la quale assessori e consiglieri avevano assistito, nel tardo pomeriggio, ad un inconsueto concentrarsi di giornalisti, fotografi e cineoperatori presso il palazzo dell'Emiciclo dove era in corso una seduta del Consiglio regionale che, secondo un'indiscrezione poi rivelatasi infondata, doveva dare l'occasione agli investigatori per effettuare più comodamente la "retata". "Che vuole che le portiamo, sigarette o arance?" chiese, con feroce ironia, un giornalista all'assessore regionale socialista Paolo Pizzola (il quale ebbe la prontezza di rispondere: "Beh, io non fumo!"), certamente preoccupato come gli altri dalle voci insistenti ma anche visibilmente rinfrancato dal trascorrere delle ore senza che le ombre prendessero corpo.
Non erano voci. Un terremoto vero avrebbe scosso di meno l'Abruzzo, sbattuto in prima pagina, anche sul "New York Times", come la terra della corruzione politica, delle tangenti e delle clientele in particolare nella spartizione dei fondi della Comunità europea. Tale, almeno, era l'ipotesi di scenario che, dopo la denuncia ai carabinieri dell'ingegner Francesco Mannella, disegnò un'informativa della polizia giudiziaria al Pm Tragnone. Eccolo il passaggio chiave di quel famigerato atto datato 28 settembre 1992 (dunque, il giorno prima della notte degli arresti) che porta la firma dei responsabili della Sezione di polizia giudiziaria interforze presso la Procura della Repubblica, ovvero di Roberto Vitanza (commissario capo Polizia di Stato), Marco Palmieri (tenente dei carabinieri), Rosario Greco (tenente colonnello dei carabinieri) e Sergio Cianca (brigadiere della Guardia di Finanza):
(...) Palesemente falsa appare quindi l'affermazione contenuta nella delibera 5145/C citata che testualmente recita: "Sentiti i pareri in ordine alla coerenza ed alla funzionalità programmatica, espressi per ogni SINGOLA PROPOSTA DAI COMPONENTI DELLA GIUNTA COMPETENTI PER SETTORE E PER MATERIA; TENUTO CONTO, ALTRESÌ PER CIASCUNA INIZIATIVA DEGLI ULTERIORI PARAMETRI DI VALUTAZIONE STABILITI DALL'ART. 3 L.R. 35/91", in quanto la disamina di 2.600 istanze corredate da complessa documentazione, avrebbe comportato necessariamente una riunione di Giunta della durata di gran lunga superiore ai 30 minuti indicati nel citato verbale. Altresì falsa deve ritenersi l'affermazione contenuta nella citata delibera in quanto vi si legge testualmente: "AD UNANIMITÀ DI VOTI ESPRESSI NELLE FORME DI LEGGE DELIBERA: DI REDIGERE LA GRADUATORIA DELLE ISTANZE SUI FONDI POP RELATIVI AL PROGRAMMA 1991...", in quanto una graduatoria al riguardo, stante le spontanee dichiarazioni del dr. Costantino Giancarlo, responsabile del Servizio Programmazione, non è stata mai predisposta da nessun ufficio burocratico, né tantomeno dall'organo di Giunta ovvero dal Consiglio Regionale.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, verrà espletata ulteriore attività investigativa onde appurare i criteri sulla base dei quali sono state individuate le proposte ammesse ai fondi POP 1991, a tal riguardo non può escludersi una illecita determinazione da parte dei componenti della Giunta Regionale presenti nella seduta del 14.7.92, che qui di seguito si elencano: 1) SALINI Rocco, presidente; 2) BENEDETTO Giuseppe, Assessore; 3) CANOSA Aldo, Assessore; 4) GIANNUNZIO Ugo, Assessore; 5) LETTERE Giuseppe, Assessore; 6) PIZZOLA Paolo, Assessore; 7) POLLICE Filippo, Assessore, 8) TENAGLIA Domenico Teodoro, Assessore; 9) LIBERATI Romano, Assessore.
Parimenti le ulteriori attività investigative sopra indicate potrebbero, in considerazione dell'elevato numero delle proposte accolte, subire rilevanti deviazioni circa l'acquisizione degli ulteriori elementi probatori in ordine ai fatti narrati, da parte dei soggetti sopra indicati, che potrebbero operare direttamente sui testimoni in tale delicata fase investigativa.
Si precisa infine che informazioni assunte in loco (Dr. ssa Santarelli e Dr. Costantino) hanno permesso di stabilire che il presidente Salini ha mantenuto per se la delega al Settore Programmazione Regione Abruzzo. (4)
Retata, dunque. Contro la quale quel sistema di potere ("gli intoccabili") che era ormai agonizzante, reagì col vigore di un belva ferita a morte. Emblematica l'intervista che l'onorevole Remo Gaspari concede ad Augusto Minzolini (che sta per affermarsi quale uno dei più autorevoli e qualificati notisti politici):
"L'ho detto al presidente Oscar Luigi Scalfaro, nella mia terra c'è solo gente onesta, l'Abruzzo non è Milano. La ferocia della magistratura dimostrerà solo che la classe dirigente della regione è per bene, come lo sono anche i democristiani delle mie parti. L'inchiesta diventerà un certificato di buona condotta per tutti noi. Io ogni anno faccio 250 mila chilometri in Abruzzo e non ho mai visto una porcheria, delle tangenti non c'è neanche l'odore. Quelli che hanno preso li conosco tutti, uno per uno, non sono delinquenti ma persone per bene, anche quelli del Psi". Remo Gaspari, padre-padrone della Democrazia cristiana abruzzese e governatore ombra dell'intera regione, queste parole le grida nel bel mezzo del "corridoio dei passi perduti" di Montecitorio.
Non si dà pace l'intramontabile capo doroteo per quell'inchiesta che ha portato in cella quasi tutta la Giunta regionale. Lui questa storia non la manda giù, specie adesso che per la prima volta, dopo tanti anni, si trova a non aver posto nel Governo. E non sono pochi i deputati che gli vanno incontro per stringergli la mano. "Remo- gli domanda il sottosegretario dc Mario Angelini, dandogli una pacca sulla spalla- hanno arrestato anche la giunta di Vercelli. Qui bisogna fare qualcosa". "Io l'ho detto a Forlani - è la risposta di Gaspari, elevato involontariamente da mezzo Parlamento a simbolo dei politici aggrediti dalla magistratura - se non reagiamo ci mettono tutti in galera per niente. Lui mi ha detto che farà qualcosa. Speriamo. Intanto, oggi pomeriggio raccolgo le firme per presentare un documento, un'interrogazione in aula".
Domanda. Ma cos'è successo onorevole Gaspari? L'Abruzzo non è più quella terra dei sogni che lei ha sempre osannato?
Risposta. È stato creato un precedente incredibile nella storia legale di questo Paese, è stato messo in galera l'intero governo di una regione. L'accusa poi è strana: ci sarebbero state delle irregolarità nell'assegnazione dei fondi Cee. Secondo me non c'è mai stata una Regione che ha adottato il criterio dei punteggi in questi casi. Debbo dire che la Giunta, per non avere rotte le scatole, ha fatto qualche tempo fa una legge per adottare un criterio del genere. La delibera sotto accusa, però, era stata già presa. Poi, c'era bisogno di almeno 5 mesi di tempo per applicare il nuovo criterio, mentre la Cee pretendeva una risposta subito, con i nomi dei soggetti cui assegnare i fondi.
D. Adesso, però, gli amministratori della sua regione sono in galera. E questo non è certo un bel risultato...
R. Lasciamo perdere. Hanno usato metodi da Gestapo! Ma non lascerò che vengano criminalizzati l'Abruzzo e la sua classe dirigente. L'Abruzzo in manette? Ma che, scherziamo! La magistratura dell'Aquila crede di essere in un momento magico. È sotto l'effetto Di Pietro e pensa che noi siamo come quelli di Milano. Ma questo è un altro mondo, altro che Tangentopoli! Venite qui, guardate in faccia l'Abruzzo. A Gissi, il mio paese, noi teniamo ancora la porta di casa aperta, con le chiavi fuori, infilate nella serratura. Vada a casa mia e guardi. Chi vuole, spinge la porta ed entra dentro. Ci conosciamo tutti, siamo persone per bene. Io ho un vanto: l'Abruzzo era agli ultimi posti come reddito pro-capite, ora siamo cresciuti ma senza imbastardirci.
D. Cosa le ha dato più fastidio?
R. I metodi nazisti. Avete visto la pubblicità che hanno fatto agli arrestati: telecamere, riflettori e foto sui giornali. I carabinieri sono andati a prenderli nelle loro case a notte fonda. Hanno guardato, perquisito dappertutto. Dentro i cassetti, nelle tasche dei vestiti appesi negli armadi, tra le cose più private, più intime, addirittura tra le mutandine delle mogli. Sa cosa pensavano di trovarci tra gli indumenti intimi! E non avendo trovato niente inerente all'inchiesta, hanno portato via tutto, dai bigliettini da visita agli incartamenti che riguardano la vita politica di 15-20 anni di queste persone.
D. Lei li conosce personalmente gli arrestati?
R. Prendiamo il presidente della Giunta, Rocco Salini, io lo conosco bene. Un onest'uomo, mi creda. Sono andati a prenderlo all'una di notte! Dopo avergli perquisito la casa dove abita, i carabinieri lo hanno prelevato e si sono fatti portare nella sua casa al mare. E anche lì, visto che non hanno trovato niente, hanno portato via tutto quello che riguardava l'attività politica del mio amico. E quando dico tutto, dico tutto. Ieri mi ha telefonato la moglie, disperata:! "L'hanno messo dentro - mi ha detto - come un delinquente e, invece, è un galantuomo. Chi glielo ha fatto fare di mettersi in politica, poteva stare a casa con me". Io gli ho risposto: "Tu sei una brava cuoca e sai che l'onestà viene a galla come l'olio nell'acqua. Bisogna solo aspettare che il cucchiaio si fermi".
D. Due assessori però, si sono salvati, almeno a leggere le cronache dei giornali.
R. Comunque, ci hanno pensato ieri a metterli sotto custodia, non in stato di arresto e li hanno tenuti dalle 9 del mattino alle 21 di sera. Hanno subito degli interrogatori molto duri. Prima da soli, poi li hanno messi a confronto ed infine hanno fatto degli interrogatori incrociati. Hanno tentato ogni cosa: hanno cercato di prenderli in fallo, gli hanno fatto delle domande trabocchetto. Cercavano assolutamente qualcosa, volevano un appiglio che motivasse quanto hanno fatto. Ma i loro tentativi però sono stati vani. Così, dopo gli interrogatori, hanno tenuto quei due poveracci per il resto della giornata chiusi in una stanza con dieci finanzieri. Dico io: come fa lo Stato a far pagare le tasse se dieci finanzieri passano un'intera giornata a controllare una persona onesta?
D. Lei ce l'ha con il giudice Tragnone, quello che sta conducendo le indagini?
R. Io non ce l'ho con lui, però, è un tipo strano. Tre mesi fa aveva spiccato un mandato di cattura contro il segretario amministrativo del Psi aquilano, colpevole di aver offerto un cocktail in una discoteca. Secondo l'accusa, non scherzo, il segretario di un partito non può offrire cocktail. La buon'anima del capo procuratore dell'Aquila gli strappò quel mandato di cattura e quel giorno al palazzo di Giustizia volarono parole grosse, tanto che la cosa finì sui giornali. Un mese dopo il capo procuratore è morto e adesso questo giudice fa ciò che vuole.
D. Secondo lei quest'inchiesta nasconde qualcosa?
R. Io ho qualche sospetto. Ad esempio, so che la Giunta aveva adottato una prassi rigida, che non lasciava i funzionari con le mani libere per combinare qualche pasticcio. E forse qualcuno si è vendicato. Oppure, visto che sono state ristrette le spese per il settore sanitario, qualche privato che ha perso miliardi, ha lavorato contro la Giunta. C'è sempre gente che pensa di poter sostituire gli amministratori per bene con gente disonesta.
D. Quindi ne è proprio sicuro: l'Abruzzo, la sua terra dove la gente la chiama ancora "zio Remo", non è terra di tangenti?
R. Bisognerebbe portare la gente in pullman a visitarla. Qui si sono mantenuti intatti i valori della famiglia, della religione e della società civile. Glielo dice uno che ha preso 85 mila voti. La percentuale più alta in Italia tra i ministri e i democristiani. E questi voti li ho presi senza un manifesto, senza uno spot televisivo. Sono bastati i miei santini con la fotografia formato tessera. Risultato: ogni due abruzzesi che sono andati a votare, uno ha votato per me.
D. E questo, a suo avviso, che cosa dimostra?
R. Glielo dico io cosa dimostra. Ancora oggi, quando vado in giro per la mia regione, trovo i vescovi sul palco, i frati e i parroci che vogliono stringermi la mano. Questa è gente che ha naso, se sentissero puzza di tangenti starebbero alla larga. (6)
Si sono scritti fiumi di inchiostro sulla legittimità di quegli arresti che hanno (in parte) cambiato la storia dell'Abruzzo. Col senno di poi, alla luce di quell'informativa di polizia giudiziaria, soltanto un Pm negligente non avrebbe fatto quello che Tragnone in effetti fece: chiedere gli arresti al Gip Romolo Como (che li concesse). I fatti, sotto il profilo giudiziario, hanno dato clamorosamente torto a quello scenario e ragione alle affermazioni di Gaspari ("L'inchiesta diventerà un certificato di buona condotta per tutti noi"): indagini tanto gigantesche quanto arruffate e pasticcione sono approdate ad un nulla di fatto. In sostanza, invece di cercare prima prove e riscontri per arrivare ad un teorema ("corrono fiumi di tangenti") si fece esattamente il contrario: si ipotizzò il teorema e, quindi, si cercarono prove e riscontri a conforto dell'ipotesi.
La bocciatura dei metodi e dell'operato della magistratura verrà anche, quasi "in diretta", da uno storico, il professor Raffaele Colapietra che in un'intervista lungimirante, alla vigilia del processo di primo grado, così mi risponde:
"Questo processo mi sembra tanto un accompagno funebre. Già immagino il povero Salini balbettante come Forlani di fronte a Di Pietro. E con la stampa e la Tv ad infierire in questa uccisione di uomini morti. Ma tant'è: l'era di "zio Remo" è tramontata". Anche per il professor Colapietra, storico ed acuto osservatore di cose abruzzesi, il maxiprocesso allo "Scandalo Pop" segna un'epoca: sancirà, dice, la fine della "gasparizzazione" dell'Abruzzo.
Domanda. Professore, una vicenda giudiziaria può segnare una "rivoluzione"?
Risposta. In Abruzzo il sistema è caduto per opera della magistratura non certo della politica: la rivoluzione l'ha provocata Tragnone, non Marco Verticelli (7). Una magistratura che, prima, insabbiava ed era complice del sistema.
D. E poi...?
R. Poi, dopo che è nato il movimento della Lega di Bossi, la magistratura s'è liberata dalla catene. Ma va detto: senza la "pressione" della Lega, tante inchieste non sarebbero nemmeno nate e forse il vecchio sistema sarebbe ancora in piedi.
D. Tragnone in Abruzzo come Di Pietro a Milano?
R. Al di là delle persone, parlerei di cambio generazionale. Nel senso che ad una vecchia guardia di magistrati legati al sistema, si sono sostituiti magistrati giovani, più preparati e, cosa da non sottovalutare, ormai indipendenti economicamente perché oggi guadagnano molto bene. Illuminante è il caso della Procura dell'Aquila: tutto nasce dopo la morte del Procuratore Capo, Mario Ratiglia, al posto del quale, ai primi del settembre del '92, subentra Tragnone. Non dimentichiamo quella richiesta di arresto di un politico che Tragnone aveva richiesto e che Ratiglia bloccò....
D. 29 settembre '92: secondo molti, quegli arresti furono provvedimenti esagerati; Gaspari parlò di "metodi da Gestapo" si parlò anche di grave danno all'immagine per l'intera regione. Che ne pensa?
R. Ho sentito e letto di critiche a quegli arresti ma, comprese le interrogazioni parlamentari, non hanno avuto esito. Certo, in questa come in altre inchieste, c'è stato un compiacimento protagonista dei magistrati. Che non è giustificabile ma pur comprensibile visto che questa corporazione è stata, fino a "Mani pulite", un'oscura servitrice del sistema con poche eccezioni. Quanto all'affermazione di Gaspari, mi meraviglia che proprio lui che potè vedere anche in Abruzzo i nazisti all'opera, se ne sia uscito con una simile bestemmia.
D. E il danno all'immagine dell'Abruzzo?
R. Anche questo è un passaggio indicativo. Salini e C. non erano stati sconfessati dagli abruzzesi né erano decaduti per mano politica. Perciò qualcuno avrà legittimamente pensato che colpendoli, s'era colpito l'intero Abruzzo.
D. Clientopoli e non Tangentopoli: ossia un sistema di favoritismi e non di tangenti. Questa la difesa di alcuni...
R. Se dal punto di vista penale il reato di abuso d'ufficio è meno grave di quello della concussione, dal punto di vista etico Clientopoli è più grave. Perché tradisce la politica, intesa come rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Meriterebbe un ergastolo, ma politico. D'altra parte, ottenere la grazia dal padrone è tipico della mentalità meridionale post- feudale. E l'Abruzzo è sempre stato sotto un padrone a cui presentare suppliche. Non a caso Gaspari, che dopo un dualismo di leader pescaresi o aquilani, ha unificato il padrinaggio, riceveva le suppliche "cammin facendo" tra casa sua ed il Municipio di Gissi. Non a caso Gaspari arrivava in elicottero: un gesto dal valore antropologico del potente- onnipotente che viene d'alto.
D. Insomma, un Governo regionale "gasparizzato"?
R. Con l'istituzione delle regioni, nel '70, ad amministrare l'ente in Abruzzo sono sempre andate mezze cartucce: o onorevoli trombati o aspiranti onorevoli. Tutti messi là dal potente di turno. Così il medico condotto di Castilenti è diventato presidente della Giunta regionale.
D. Lei sostiene che la vicenda Pop ha segnato un'epoca sotto il profilo distruttivo. E per costruire?
R. Il risultato, paradossale, delle recenti elezioni sono un'occasione unica per l'Abruzzo. Per la prima volta, l'Abruzzo rosso e con tutti gli esponenti del vecchio sistema di intermediazione trombati sonoramente, è fuori dal sistema. L'occasione per l'Abruzzo di realizzarsi finalmente come regione. La regionalizzazione dopo la degasparizzazione. A cominciare da questa Giunta regionale dove sono diventati, per caso, assessori quelli che non erano finiti in manette. (8)
Le indagini, dunque, furono un "fiasco" almeno rispetto alle attese. Le attese soprattutto del popolo, quel popolo che festeggiò con lo spumante l'ingresso in carcere degli "intoccabili" ma anche di alcuni politici come l'allora missino Giuseppe Tagliente che durante la prima seduta dell'assise regionale (della quale attualmente è presidente per Forza Italia) dopo gli arresti, tirò fuori addirittura un "pitale". Racconta Guido Polidoro:
E tanto per sottolineare la forzatura dei toni, basta riferire del consigliere missino Tagliente che ha ritenuto opportuno esibire in aula, durante l'intervento, un vaso da notte in porcellana bianca, per indicarlo a simbolo di ciò che il Consiglio regionale sarebbe, oggi, nella comune e diffusa opinione degli abruzzesi. (9)
Se le indagini furono un fiasco, il conseguente maxiprocesso (dopo che altri ben 17 procedimenti-satellite sono via via usciti dall'orbita fino a sparire totalmente), s'è letteralmente sgonfiato, alla luce prima dell'annullamento della sentenza della Corte d'Appello dell'Aquila (un anno e dieci mesi di reclusione per tutti gli imputati per abuso d'ufficio, 2 anni a Salini anche per il falso nella delibera) deciso dalla Corte di Cassazione nel 1997 e quindi della sentenza finale della Corte d'Appello di Roma (condanna ad un anno e quattro mesi soltanto per falso al solo Salini). Ecco la mia cronaca di quella clamorosa decisione finale:
Come capita di fronte ad un fatto storico, in molti giocarono al Lotto e vinsero con il terno 29 (la nottata degli arresti), 9 (gli arrestati, poi diventati undici) e 90 (la "paura"). Alla stessa stregua, oggi, si dovrebbe giocare il terno 7 (la mattinata delle assoluzioni), 11 (gli assolti) e 36 (l'errore). Sì, perché, la sentenza assolutoria di ieri della Corte d'Appello di Roma sul caso che non potrà più essere definito "Scandalo Pop", ha sancito "uno storico errore giudiziario".
Un intero Governo regionale in manette, caso unico nella storia italiana tanto da far ipotizzare a qualcuno, con feroce ironia, una seduta di Giunta nel parlatoio del carcere; un'intera classe politica spazzata via; una figuraccia davanti alla Cee che finì addirittura sulla prima pagina del "New York Times"; ventimila pagine di atti raccolti in un'inchiesta "madre" che ne ha fatte scattare altre 17 contro la Regione (quasi tutte chiuse con un nulla di fatto); la fama di essere la capitale italiana di "Clientopoli", il regno dei favori agli amici e agli amici degli amici.
Tutto questo, secondo la Corte d'Appello di Roma, chiamata dalla Cassazione a dirimere la questione, è "un fatto che non sussiste". Dunque, assolti dall'accusa di abuso d'ufficio per aver spartito in maniera clientelare i 435 miliardi dei fondi comunitari Pop. Tutti assolti: l'ex presidente Rocco Salini (per il quale, però, è stata confermata una condanna ad 1 anno e 4 mesi per un falso nella delibera incriminata contro la quale i suoi legali hanno già annunciato ricorso in Cassazione), l'ex vicepresidente Ugo Giannunzio (Psi), e gli ex assessori Franco La Civita (Dc), Paolo Pizzola (Psi), Giuseppe Lettere (Dc), Filippo Pollice (Dc), Giuseppe Molino (Dc), Aldo Canosa (Dc), Domenico Tenaglia (Dc), Giuseppe Benedetto (Pli), e Romano Liberati (Psi). Tutti assolti, nonostante la condanna in primo grado del Tribunale dell'Aquila, con sostanziale conferma (ma pene ridotte) della Corte d'Appello aquilana prima che la Cassazione "cancellasse" e rinviasse tutto alla Corte d'Appello di Roma. I cui giudici, ieri, sono andati oltre la richiesta della Pubblica accusa (il Pg Lombardi) il quale aveva chiesto l'assoluzione con la formula "perché il fatto non costituisce reato". Penalmente il fatto non sussiste, non c'è proprio stato.
Una requisitoria durissima, quella di ieri così come lo era stata quella del Pg della Cassazione, nella quale sono stati tirati due poderosi schiaffi alla giustizia abruzzese. Uno schiaffo al Pm che condusse le indagini ed ordinò gli arresti, il sostituto Fabrizio Tragnone da due anni promosso Procuratore capo in Sardegna, a Lanusei. "Il processo è nato zoppo" ha detto in sostanza il Pg riferendosi, senza comunque dirlo esplicitamente, a quelle manette che hanno segnato la vicenda processuale oltre che la storia recente dell'Abruzzo. Una "retata" che fu duramente contestata. "Quel Tragnone è uno sceriffo con la toga" disse a caldo Marco Pannella.
L'altro schiaffo è arrivato sul viso dei giudici di primo e secondo grado. "Non c'è alcuna prova che gli imputati abbiano agito con dolo" ha detto ieri il Pg, cioè con la volontà di abusare della propria carica per spartirsi in maniera clientelare i finanziamenti. Infliggere una condanna senza averne provato il dolo: è come un mare senza acqua. Al massimo, ha detto il Pg, si è trattato di un'irregolarità amministrativa dettata dalla fretta di assegnare i finanziamenti per non perderli visto che scadevano i termini.
Un storico errore giudiziario. "La Giunta Salini - ha commentato ieri Gaspari- fu vittima di un gravissimo errore giudiziario e di un'operazione politica che ha violentato la volontà degli elettori e che è all'origine del gravissimo danno derivato alla politica di sviluppo, dell'economia e del reddito in Abruzzo. Senza quella inchiesta- ha aggiunto l'ex ministro- non staremmo oggi a piangere per i 49 mila posti di lavoro, quelli che mancano all'appello dal '92 quando l'Abruzzo, dopo le note vicende, subì una forte frenata politico-economica". Di più. Secondo l'ex ministro "l'esclusione dell'Abruzzo dai benefici nazionali e comunitari è stata fortemente influenzata proprio da quell'accusa, mossa in un primo momento e poi rivelatasi infondata, di tentata truffa ai danni della Cee. Non dimentichiamoci che la Cee inviò addirittura un avvocato per costituirsi parte civile. Il discredito era giunto perfino a Bruxelles. Gli abruzzesi hanno pagato e pagano tuttora duramente quell'incredibile errore giudiziario. La mia solidarietà va anche a quei socialisti ed a quei liberali che finirono alla gogna".
Numerose le reazioni. Dall'ex ministro di Grazia e giustizia, Filippo Mancuso (Fi) che ha parlato di "una ingiustizia che resterà impunita", agli ex parlamentari Piero D'Andreamatteo ("Alla luce di questa sentenza si rifletta su quanto avvenuto in Italia e in particolare in Abruzzo e sui metodi usati per colpire la classe politica democraticamente eletta") e Anna Nenna D'Antonio ("Le nubi si sono diradate, ora è chiaro per tutti cos'è accaduto in Abruzzo"), all'ex assessore Giuseppe Benedetto: "Si è conclusa la più vergognosa vicenda di "Mani pulite" dal suo nascere. L'arresto di tutto un governo regionale fu il vero salto di qualità di quegli sciagurati anni. Chi pagherà lo scempio di giustizia che è stato perpetrato?". (10)
"Un clamoroso errore giudiziario"? Dirà Domenico Tenaglia, in un convegno organizzato nel secondo anniversario della notte di San Michele: "Non si poteva forse invitarci già nel pomeriggio all'Aquila evitando la retata? Così iniziava la nostra tragedia, proprio come ammoniva l'Antolisei, definendo l'errore giudiziario, "frutto di un frettoloso rapporto di un zelante membro della polizia giudiziaria, privo di supporti probatori". Così è stato, unico caso in Italia, e senza dubbio nel mondo, per la Giunta Regionale d'Abruzzo. Ma era sufficiente una mezza paginetta di rapporto per far scattare le manette in una storica retata decapitando un organo costituzionale? È mai possibile che non sia insorto il sospetto sulla ben nota assonanza politica tra il denunciante ed il refertante come, i fatti hanno, poi, dimostrato? Non era necessario cercare riscontri? Non si poteva proprio sentire almeno il proponente? Ma tant'è: "vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuol e più non dimandar". Gli altri due colleghi ci seguirono al San Domenico ed, intanto, senza risposta rimaneva il grido accorato, nel chiuso dell'isolamento, di chi chiamandomi mi chiedeva: perché siamo qui?". (11)
E già dopo la Cassazione, l'onorevole Carlo Giovanardi, in una conferenza stampa alla Camera alla luce della sentenza della Suprema Corte, aveva detto: "In Abruzzo c'è stato un vero colpo di Stato perché un intero governo regionale è stato arrestato e portato via sulla base del nulla, come succede in Sud America. Ma l'Abruzzo non è una repubblica delle banane: oggi sappiamo che quegli arresti erano senza fondamento. C'è stata una via giudiziaria al potere. Infatti, dopo gli arresti sono andati al governo gli amici dei magistrati a partire dal Pci- Pds: l'attuale governo regionale è quindi illegittimo perché nato da un colpo di Stato". (12)
Infuriano le polemiche. A tal punto che scende in campo l'allora Procuratore generale dell'Abruzzo, Bruno Tarquini. Il quale convoca una conferenza stampa per diffondere un durissimo documento. Eccolo:
Poiché non passa giorno senza che sugli organi di informazione si torni a scrivere sul presunto errore giudiziario in cui sarebbe incorsa la magistratura aquilana in relazione al processo che ha visto coinvolta la Giunta regionale per la nota vicenda dei Pop; e poiché continuano a piovere sulla "malagiustizia abruzzese" accuse di aver cagionato danni irreparabili a persone, ad imprese e perfino alla stessa Regione; e poiché, infine, il silenzio sulla verità dei fatti e degli avvenimenti giudiziari finirebbe per avallare questa infamante campagna di delegittimazione della magistratura, al solo scopo di servire la verità, rimettendo le cose al posto giusto, e di consentire, quindi, all'opinione pubblica di giudicare quei fatti non sulle parole spesso troppo avventatamente pronunciate ma sui documenti, ed in particolare sulle sentenze emanate nel corso del procedimento, ho ritenuto, dopo aver a lungo meditato, di offrire sul caso le seguenti precisazioni:
1) Senza dilungarmi sulla fase delle indagini preliminari, nel corso della quale i componenti della Giunta regionale furono sottoposti alla custodia cautelare in carcere (consentita dalla norma allora vigente dell'art. 323 c.p., che punisce il reato di abuso di ufficio) è sufficiente ricordare che: a) il Tribunale dell'Aquila, con sentenza del 21 Giugno 1994, condannò i componenti della Giunta per i delitti di falsità ideologica e di abuso di ufficio, e assolse i tre consiglieri regionali; b) la Corte d'Appello dell'Aquila, con sentenza del 23 Novembre 1995, riformò parzialmente la sentenza di primo grado, riducendo la pena ad uno degli imputati, e condannando anche gli imputati che erano stati assolti; c) la Corte di Cassazione, con sentenza del 26 Giugno 1997, annullò la sentenza di secondo grado "nei confronti di tutti gli imputati limitatamente al reati di abuso loro ascritti ai capi A/1 e C dell'imputazione", e rinviò per nuovo giudizio alla Corte d'Appello di Roma.
2) È necessario, a questo punto, leggere alcuni passi della motivazione contenuta nella sentenza della Suprema Corte, e precisamente le sue pagine 84, 85 e 86. Orbene, la Corte d'Appello dell'Aquila, ha opportunamente e convincentemente sottolineato- sulla base del copioso materiale probatorio rappresentato dalla documentazione acquisita, dagli accertamenti tecnico-peritali espletati, dalle ammissioni degli imputati, dalle dichiarazioni di testimoni (diversi dal Costantino )- come violazione di legge ed eccesso di potere avessero connotato l'intera vicenda: per esser state le domande selezionate in base a "segnalazioni" e non a "criteri tecnico-giuridici"; per esser state apportate riduzioni di costi non consentite; per esser stati sistematicamente disattesi i "criteri guida" previsti dalla normativa vigente; per essersi svolta la seduta di Giunta con modalità tali da rendere evidente la violazione del regolamento interno ma anche della prassi; per essere state ispirate a mere "logiche di spartizione clientelare" da prima la predisposizione e approvazione (seduta 14-7-92) e quindi le modifiche (sedute delle Commissioni congiunte) degli elenchi da presentare al Consiglio regionale circa le iniziative da finanziare con i fondi Pop.
Tutto ciò la Cassazione ha ritenuto per dimostrare la fondatezza di quanto aveva affermato a pag. 83, e cioè: "La sussistenza dell'elemento materiale del reato di abuso di ufficio, nonostante gli argomenti addotti da alcuni ricorrenti, appare nel caso di specie fuori discussione". (...)
3) Ma allora perché la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte aquilana? La risposta è che "le argomentazioni della sentenza impugnata appaiono gravemente carenti, e sono perciò da disattendere, per quanto concerne l'elemento soggettivo dei reati di abuso d'ufficio contestati". (Ma ciò solo perché la sentenza di secondo grado aveva fondato la convinzione della sussistenza del dolo su una deposizione testimoniale, di cui la Cassazione dichiarò la nullità per motivi esclusivamente di rito). Infatti "per la sussistenza dei delitti previsti dall'art.323 c.p., sono necessari sia il dolo generico che il dolo specifico: il primo, consistente nella coscienza e volontà di esercitare una pubblica funzione o un pubblico servizio, e di consumare un abuso (cioè un atto o un fatto illegittimo); il secondo, consistente nella finalizzazione della condotta ("al fine" o "per" procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale)".
Ora senza addentrarsi nelle complesse argomentazioni giuridiche svolte dalla Corte di Cassazione sull'elemento soggettivo (dolo generico e specifico) del reato di abuso di ufficio, deve concludersi che il giudice di legittimità ritenne di disporre il rinvio per un nuovo giudizio "in proposito" (cioè sull'elemento soggettivo) alla Corte d'Appello di Roma, la quale avrebbe dovuto "provvedere uniformandosi ai principi enunciati da questa Corte".
4) Sennonché avvenne che la Legge 16 Luglio 1997, n.234 (successiva di venti giorni alla sentenza della Cassazione) rivoluzionò il contenuto dell'art. 323 c.p., trasformando il delitto di abuso di ufficio da reato di pericolo a reato di danno. Ciò significa, molto schematicamente, che l'"ingiusto vantaggio patrimoniale" oppure "il danno ingiusto" non costituiscono più quella che la Corte di Cassazione ha chiamato la "finalizzazione della condotta", vale a dire il dolo specifico del delitto in esame, ma sono stati inclusi nella condotta del reo, vale a dire che sono entrati a far parte dell'elemento oggettivo. Ciò comporta che, ora, per ritenere realizzato il delitto di abuso di ufficio è necessario che il pubblico ufficiale, violando norme di legge, intenzionalmente procuri a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, oppure arrechi ad altri un danno ingiusto; occorre, cioè, che il vantaggio e/o il danno, che prima erano solo il fine da raggiungere, ora debbano essere concretamente realizzati dalla condotta del pubblico ufficiale.
5) Naturalmente la Corte d'Appello di Roma ha dovuto, (almeno si ritiene) applicare in favore degli imputati la nuova formulazione dell'art.323 c.p., in attuazione dell'art.2, comma 3, del codice penale, secondo il quale se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo. E non v'è dubbio che l'art.323 c.p., come formulato con la Legge 234 del 1997, sia sicuramente più favorevole per gli imputati di quello vigente al momento dei fatti.
6) Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza della Corte d'Appello di Roma, potendosi solo intuire che sia pervenuta all'assoluzione "perché il fatto non sussiste" invece che a quella "perché il fatto non costituisce reato" (come avrebbe dovuto se, applicati i criteri direttivi enunciati dalla Cassazione, avesse ritenuto insussistente l'elemento soggettivo) per aver ritenuto non realizzato l'intero elemento oggettivo del reato, vale a dire anche l'ingiusto vantaggio patrimoniale di altri introdotto dalla Legge 234. Quindi, non possono nemmeno immaginarsi i motivi che hanno impedito, per esempio, di ravvisare nei fatti, se non l'abuso consumato, almeno il suo tentativo. Ma in ogni caso non c'è alcun dubbio che restano definitivamente fermi tutti gli abusi elencati dalla Corte di Cassazione, sui quali ormai non può operarsi alcuna revisione in sede giudiziaria.
Tutto questo significa che, nel caso in questione, non è stato commesso alcun errore giudiziario, perché tutti i fatti contestati sono rimasti giudizialmente ed oggettivamente provati: solo sotto il profilo del dolo si sarebbe dovuto accertare, dal giudice del rinvio, se gli assessori della Giunta regionale avessero avuto coscienza e volontà di esercitare una pubblica funzione e di consumare un abuso, e se avessero finalizzato la propria condotta a procurare ad alcuni (persone o imprese) un vantaggio ingiusto e/o ad altri un corrispondente danno altrettanto ingiusto.
Ma la sopravvenuta legge del 1997 ha impedito questo tipo di accertamento ed ha, invece, necessariamente indirizzato il giudice del rinvio ad accertare la insussistenza dell'ingiusto vantaggio patrimoniale (o del danno ingiusto). Se così è, si potrebbe ipotizzare che l'abuso oggettivamente compiuto dagli imputati non abbia fatto in tempo a procurare ingiusti vantaggi e/o danni a persone e/o ad imprese proprio in virtù del tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria. Il cittadino comune può, poi, valutare da sé chi, in tutta questa vicenda, abbia veramente danneggiato gli interessi dell'Abruzzo.
Di certo, non la magistratura". (14)
"Nessun errore giudiziario"? Certo, nessuno si sarebbe aspettato che proprio quella contestatissima sentenza finale (e ormai definitiva dopo che la Cassazione la confermò nel dicembre del 1999) avrebbe segnato il destino dell'Abruzzo anche a distanza di quasi dieci anni. Sì, perché prendendo alla lettera la profezia di Gaspari ("L'inchiesta diventerà un certificato di buona condotta per tutti noi"), "il medico condotto di Castilenti" si ributta in politica, per le Regionali del 2000, dopo un periodo di purgatorio. È corteggiato per una candidatura dal centrosinistra visto che è un esponente dei Popolari ma, un mese prima delle elezioni, Salini sceglie la Casa delle Libertà, Forza Italia per la precisione. E con oltre tredicimila preferenze fa pendere la bilancia, in maniera decisiva, dalla parte di Giovanni Pace che prevale di meno di 4.000 voti su Antonio Falconio. Così Claudio Valente "dipinge" quella candidatura contesa:
Il "FATTORE S", dove S sta per Salini Rocco, ex presidente Dc della Giunta abruzzese, fresco di trionfale ritorno all'Emiciclo su una strada lastricata da 13 mila preferenze, sta spazzando come un gelido vento di tramontana le truppe del centrosinistra sconfitto. Nessuno, tra i leader di Abruzzo democratico, vuole assumersi la responsabilità d'aver caricato a bordo Salini, e poi d'averlo scaricato consegnando al Polo le chiavi del successo elettorale di Giovanni Pace. La ricerca di un colpevole sta aprendo profonde ferite tra i Ds, cui la conquista del primato tra i partiti serve solo a far bruciare di più la sconfitta di Falconio, e sta creando seri imbarazzi in casa Popolare, dove ci sono personaggi delusi dal voto di domenica che potrebbero portare i loro comunque cospicui consensi sul carro dell'amico ritrovato, appunto Salini. È dunque un falso bersaglio Maurizio Acerbo, il segretario di Rifondazione comunista che pronunciando il "no" all'ex presidente aprì la strada alla sua cancellazione dalla lista del Ppi di Teramo, dov'era già inserito: in realtà la presenza di Salini creava problemi di spazio e di posti pregiati in Giunta ad altri candidati, che colsero al balzo la palla del "no" scagliata da Acerbo. Ora che non ci sono più né spazi e né posti pregiati in Giunta, nel centrosinistra è iniziata la caccia al responsabile. Che s'annuncia spietata. (15)
Il centrosinistra non ci sta ed attiva una battaglia giudiziaria a tutti i livelli in cui si sostiene la ineleggibilità di Salini proprio per quella sua condanna ad un anno e 4 mesi di reclusione per il reato di falso. La battaglia, dopo ricorsi e controricorsi produce un clamoroso effetto: il Tar dell'Aquila, il 9 gennaio del 2002, annulla le elezioni regionali. Secondo il Tar, Salini (che nel frattempo ha lasciato la poltrona di assessore alla Sanità perché eletto senatore nel collegio Teramo-Giulianova), incandidabile ed ineleggibile, ha di fatto "inquinato" il risultato elettorale. L'Abruzzo, un'altra volta, è in ginocchio. Come in quella notte di San Michele. E ancora una volta per un "colpo" della magistratura. "Sono dell'avviso - dichiara a Giancarlo De Risio il Governatore abruzzese Giovanni Pace - di andare subito alle elezioni senza il ricorso al Consiglio di Stato. Non conosco gli elementi che hanno ispirato i giudici nella loro sentenza. Personalmente spero che gli amici della maggioranza non consiglino un ricorso". (16)
Il ricorso, invece, viene presentato. E il Consiglio di Stato, il 19 febbraio 2002, sospende la sentenza con la quale il Tar dell'Aquila, quaranta giorni prima, aveva annullato le elezioni del 2000 lasciando di fatto l'Abruzzo senza un governo. I giudici della quinta sezione hanno accolto il ricorso presentato, per conto della Regione, dall'Avvocatura dello Stato, reintegrando così, nelle piene funzioni Giunta e Consiglio regionali. Forse con un sospiro di sollievo un po' di tutti, opposizione compresa, per nulla contenta di dover tornare alle urne avendo, oltretutto, nel frattempo perduto il proprio leader, Antonio Falconio, passato al centrodestra.
Esattamente due anni dopo, nel gennaio del 2004, così commenterà la retata l'ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, in un'intervista a Marco Patricelli in occasione della sua partecipazione all'Aquila al convegno, ironia della sorte, sul "Pianeta maldicenza":
"Quel che è accaduto ricade nella totale responsabilità del Pubblico ministero. Sua e non di altri, senza tirare in ballo la magistratura nel suo complesso". (17)
Quella notte, la famosa notte di San Michele, al macabro party davanti al carcere di "San Domenico" non ci andai. "Ci vediamo davanti a "Minicuccio"": così c'eravamo lasciati, nel primo pomeriggio, tra i colleghi della cronaca giudiziaria, tutti in ansia per quello che sapevamo sarebbe accaduto ma, talmente era clamoroso, non avremmo mai potuto credere finché non l'avessimo visto concretizzarsi. Ed una vecchia regola della "giudiziaria" dice che, se vuoi davvero il via libera per poter scrivere che una persona è stata arrestata, visto che l'ordine di custodia cautelare non può essere conosciuto da altri essendo il "re" degli atti cosiddetti "a sorpresa", devi avere la certezza che quella persona sia "ospite del grand hotel".
Dunque, se quella notte volevamo avere la certezza che davvero era stato firmato, per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana, un ordine di custodia cautelare in carcere per un'intera Giunta regionale, non c'era altro mezzo che mettere le poste alla porta carraia del "grand hotel"; vedere con i propri occhi chi entrava; spuntare sul taccuino via via i nomi di chi (un po' sapevamo, un po' intuivamo) doveva essere arrestato; tirare un sospiro di sollievo (la notizia è vera); mettersi l'anima in pace che non s'era pubblicato (o, comunque, pericolosamente anticipato, col rischio di incorrere nell'accusa di aver favorito la fuga dell'interessato) la più grande delle bufale e, infine, pensare già al giorno dopo (ed ai giorni successivi), a come "gestire" la notizia più clamorosa della storia dell'Abruzzo moderno.
"No, non ci vado- mi dissi- me ne vado a dormire: domani sarà una giornata infernale". Sì, egoisticamente, pensai a me stesso. Ma d'altra parte non avrei mai potuto immaginare che quella che doveva servire soltanto quale prova del nove per noi cronisti, si sarebbe al contrario trasformata in una "festa" come le cronache hanno poi raccontato. Per uno di quegli strani tam-tam che una città di provincia come L'Aquila è capace di generare (qualcuno ricorda ancora quel feroce "Chi sono le signore?"), stranezza a cui ho assistito più volte tra l'incuriosito (per la fenomenale efficacia) e l'atterrito (per le nefaste conseguenze), davanti al carcere di "Minicuccio" s'era radunata una gran folla richiamata da quelle che non riuscirono a restare delle soffiate ad esclusivo uso dei giornalisti. Una folla eccitata e vociante come gli spettatori che, nell'arena, attendono l'entrata del toro. Alla prima entrata (quella dell'assessore Giuseppe Lettere, aquilano e perciò il più vicino al "grand hotel"), l'olè assunse il rumore di un tappo di una bottiglia di spumante cui seguiranno delle altre.
Nella lunga notte delle manette - scrive Giancarlo De Risio in un reportage- non ha dormito neppure Francesco Mannella, l'ingegnere di Ateleta la cui denuncia del 25 settembre scorso ha fatto esplodere un pandemonio dopo che si recò presso l'Ufficio programmazione della Regione Abruzzo per avere notizie del progetto di un albergo da lui redatto per conto di una società. Ebbene, quel progetto "chiavi in mano", subito cantierabile, era stato escluso senza una motivazione apparente dalle provvidenze del Programma operativo plurifondo (Pop) finanziato dalla Cee ma affidato alla Regione per la ripartizione dei contributi. Di più. Degli altri progetti ammessi ai finanziamenti comunitari, denunciò Mannella, non esisteva neppure la graduatoria (...). Incredulo, sbigottito, confuso, gli occhi arrossati dalla veglia, seminascosto nell'auto di un amico, Mannella è rimasto nelle vicinanze del carcere fino all'alba di ieri. "Mi trovavo là per caso- ha detto ai giornalisti quando l'hanno riconosciuto- perché mi ci ha portato un conoscente che mi aveva tenuto compagnia all'Aquila tutto il giorno. Ho visto gli arrestati in mezzo ai carabinieri, ma non ero animato da alcun sentimento di vendetta, tanto che alla fine me ne sono tornato a casa tranquillo". (1)
Che notte! Così la rievocò Stefano Tamburini, un anno dopo:
Fu una notte storica, da qualunque parte la si guardi. Quel 29 settembre, giusto un anno fa, per la prima volta la polizia bussò alle porte degli "intoccabili". "Dottor Salini, lei è in arresto..." e poi la perquisizione in ogni angolo di quelle case lussuose di molti già ricchi per proprio conto e molti per i mega stipendi della politica a tempo pieno. Infine, la traduzione al carcere aquilano di San Domenico, del presidente della Giunta regionale e di otto assessori.
Una strana processione, quella. Nessuno degli "intoccabili" stava dormendo. E quando carabinieri, polizia e guardia di finanza andarono a prenderli, in piena notte, loro erano in attesa, nervosa. Sbirciavano dalle tendine di finestre rimaste a lungo illuminate con i familiari in pigiama ad ascoltare quello che fino al giorno prima credevano di non dover mai ascoltare: che il marito, il padre potente sarebbero finiti in galera.
Fino a poche ore prima erano tutti quanti a Palazzo dell'Emiciclo, per l'ultimo loro Consiglio regionale da potenti. Ma erano già accerchiati: i poliziotti in borghese avevano circondato il palazzo, e noi giornalisti eravamo tutti lì, ad attendere un blitz ancora più clamoroso, al quale molti stentavano a credere.
Al penitenziario, i potenti, arrivarono alla spicciolata, senza alcun segnale ufficiale. Il primo "intoccabile" che passò dagli affetti dei familiari a una squallidissima cella di isolamento fu l'assessore all'Agricoltura Giuseppe Lettere, uno dei fedelissimi, ormai l'ultimo nel gruppo degli amministratori che contavano, al parlamentare Romeo Ricciuti. Lettere fu il primo, perché era l'unico che abitava all'Aquila. E fu l'unico a non scomporsi, dentro l'auto dove era stretto fra un finanziere, un ispettore di polizia ed un carabiniere. Accennò un saluto ai giornalisti che cercavano di cogliere nello sguardo o nell'espressione del viso un sia pur minimo segnale di uno stato d'animo che certamente non poteva essere quello di sempre.
Poi toccò ad Aldo Canosa, con il volto piuttosto provato. E poi ancora al presidente Rocco Salini: volto terreo, più curvo del solito, sembrava più vecchio di dieci anni. Non mosse mai lo sguardo, e non ebbe cenni di insofferenza, come accadrà poco dopo a Domenico Tenaglia, che arrivò quando l'alba era vicina e il chiarore permetteva di cogliere meglio certe sfumature. Ci fu anche un gestaccio verso i giornalisti e soprattutto verso i fotografi che lo bersagliavano di flash. Poi toccò agli altri arrestati, al mattino o al giorno successivo.
L'unico a cercare di entrare di nascosto fu il vice presidente Ugo Giannunzio, che ricorse al trucco di nascondersi sotto i tappetini fra i sedili dell'auto del suo avvocato.
Che notte, quella notte. Fu lunga per tutti, anche per chi osservava incredulo, e segnò l'inizio della demolizione di un vecchio modo di fare politica che ancora resiste: fra i personaggi rinviati a giudizio troviamo ancora tre assessori regionali in carica e l'attuale presidente del Consiglio regionale. Forse, quella sera, tutti si aspettavano di veder cambiare di più le cose nei mesi seguenti. Oggi, dopo un anno, la resistenza del vecchio è ancora forte. Ma, almeno, gli "intoccabili" non esistono più. (2)
* * * *
Che notte! Nemmeno io, pur nel mio letto e non davanti alla porta carraia del carcere, chiusi occhio. E non soltanto perché un amico (non feci caso all'ora, ma potevano essere le 3) mi mandò un impulso sul "teledrin" (i telefonini ancora dovevano arrivare). Richiamai quel numero di telefono che conoscevo benissimo: "Sei il solo che sta a casa a dormire. Il primo ospite- mi disse la mia "talpa"- è entrato al grand hotel, buona notte". Buona notte sì, ma all'Abruzzo. E buona notte anche al mio giornale. Rigirandomi insonne nel letto, non riuscivo a capacitarmi che il Messaggero sarebbe uscito al mattino successivo con un vaghissimo "incubo di manette" all'Emiciclo. Io avevo fatto tutto il mio dovere: "Capo- dissi a Guido Polidoro, coordinatore dell'edizione abruzzese-: guardi che stanotte arrestano nove assessori su undici della Giunta regionale per lo scandalo dei fondi Pop". Il capo stentava a credermi: troppo grosso, davvero incredibile, lo scenario che prospettavo. Ma Polidoro sapeva anche che ero ben agganciato a palazzo di giustizia. Lui sapeva molto, forse tutto, del Palazzaccio e della politica abruzzese ma non poteva sapere che, in appena tre giorni, tutto era cambiato perché il vento di Milano stava soffiando già da qualche tempo nei corridoi della Procura aquilana: anzi, s'era generata un'enorme corrente che, era facile intuirlo, di lì a poco avrebbe sollevato un tornado simile a quello nato dall'arresto di Mario Chiesa a Milano. Scrisse Polidoro nel suo pezzo assai cauto:
I reati presunti (abuso d'ufficio e falso) si identificano con i contenuti della denuncia presentata da un imprenditore. Gli stessi reati, secondo più di un legale raggiunto ieri telefonicamente, non giustificherebbero un ordine di custodia cautelare di necessità. Perché gli atti relativi alla vicenda sospetta sono già tutti a disposizione del magistrato e quindi non suscettibili di alterazioni, perché non c'è flagranza, perché appare eccessivo considerare l'intero esecutivo (nove su unici componenti) capace di delinquenza abituale. Oggi, comunque, sull'intera vicenda (non escluso lo stato di allarme) si dovrebbero avere elementi utili per fare chiarezza. (3)
"Il Tempo", invece, forte delle notizie in mano al più acuto ed esperto dei cronisti aquilani della giudiziaria, Demetrio Moretti, ci aveva creduto, eccome: a tal punto che sparò un titolo a nove colonne ("Arrestate la Giunta regionale d'Abruzzo") sulla prima pagina dell'edizione nazionale. Un titolo furbo (le virgolette sottintendevano la richiesta del Pm) che avrebbe fatto molto discutere. Per uno di quegli strani giochi del destino, quel titolo segnò di fatto la prima e la più clamorosa di una serie di presunte (visto gli esiti negativi delle molte inchieste) violazioni del segreto istruttorio di quel periodo infuocato all'Aquila che va sotto il nome di "Mani pulite". Poco dopo la mezzanotte, infatti, ancora prima che il primo degli arresti (quello di Lettere, appunto) venisse eseguito, nell'"edicola" televisiva notturna del Tg3 venne inquadrata la prima pagina del "Tempo" col suo titolo inequivocabile ed efficace. La frittata era fatta.
Solo dopo le mie insistenze, il mio capo cronista si convinse a parlare nei cauti articoli di "incubo di manette". Posizione ineccepibile e corretta allo stato delle cose (nessuna notizia di arresti al momento di "chiudere" il giornale, a mezzanotte) ma inevitabilmente risultata troppo timida, addirittura quasi da "pompieri", all'indomani quando (per un altro scherzo del destino) la redazione dell'Aquila ricevè la programmata visita dell'allora direttore del Messaggero, Mario Pendinelli, incazzatissimo per il "buco" preso dalla concorrenza.
Col senno di poi, Polidoro non poteva far altro. Era stato alle regole. Anche perché una fonte di primissima mano gli smentì, a tarda sera, la notizia di possibili arresti. Qualcuno al telefono (io gli ero seduto di fronte ma non gli chiesi né allora ne mai con chi avesse parlato) gli raccontò che l'onorevole Remo Gaspari aveva telefonato al Pm, ovvero il sostituto procuratore Fabrizio Tragnone, e che questi gli aveva negato tutto. Gaspari aveva, poi, telefonato per rassicurarlo al presidente della Giunta regionale, Salini, il quale aveva a sua volta tranquillizzato i colleghi della sua Giunta: "Ma quali arresti! Esagerazioni dei giornalisti. C'è un'inchiesta, vedremo".
Io ero certo, certissimo, del fatto mio. Eppure quella telefonata bastò a far vacillare le mie convinzioni. Quantomeno consentì di spiegarmi la ostentata tranquillità con la quale assessori e consiglieri avevano assistito, nel tardo pomeriggio, ad un inconsueto concentrarsi di giornalisti, fotografi e cineoperatori presso il palazzo dell'Emiciclo dove era in corso una seduta del Consiglio regionale che, secondo un'indiscrezione poi rivelatasi infondata, doveva dare l'occasione agli investigatori per effettuare più comodamente la "retata". "Che vuole che le portiamo, sigarette o arance?" chiese, con feroce ironia, un giornalista all'assessore regionale socialista Paolo Pizzola (il quale ebbe la prontezza di rispondere: "Beh, io non fumo!"), certamente preoccupato come gli altri dalle voci insistenti ma anche visibilmente rinfrancato dal trascorrere delle ore senza che le ombre prendessero corpo.
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Non erano voci. Un terremoto vero avrebbe scosso di meno l'Abruzzo, sbattuto in prima pagina, anche sul "New York Times", come la terra della corruzione politica, delle tangenti e delle clientele in particolare nella spartizione dei fondi della Comunità europea. Tale, almeno, era l'ipotesi di scenario che, dopo la denuncia ai carabinieri dell'ingegner Francesco Mannella, disegnò un'informativa della polizia giudiziaria al Pm Tragnone. Eccolo il passaggio chiave di quel famigerato atto datato 28 settembre 1992 (dunque, il giorno prima della notte degli arresti) che porta la firma dei responsabili della Sezione di polizia giudiziaria interforze presso la Procura della Repubblica, ovvero di Roberto Vitanza (commissario capo Polizia di Stato), Marco Palmieri (tenente dei carabinieri), Rosario Greco (tenente colonnello dei carabinieri) e Sergio Cianca (brigadiere della Guardia di Finanza):
(...) Palesemente falsa appare quindi l'affermazione contenuta nella delibera 5145/C citata che testualmente recita: "Sentiti i pareri in ordine alla coerenza ed alla funzionalità programmatica, espressi per ogni SINGOLA PROPOSTA DAI COMPONENTI DELLA GIUNTA COMPETENTI PER SETTORE E PER MATERIA; TENUTO CONTO, ALTRESÌ PER CIASCUNA INIZIATIVA DEGLI ULTERIORI PARAMETRI DI VALUTAZIONE STABILITI DALL'ART. 3 L.R. 35/91", in quanto la disamina di 2.600 istanze corredate da complessa documentazione, avrebbe comportato necessariamente una riunione di Giunta della durata di gran lunga superiore ai 30 minuti indicati nel citato verbale. Altresì falsa deve ritenersi l'affermazione contenuta nella citata delibera in quanto vi si legge testualmente: "AD UNANIMITÀ DI VOTI ESPRESSI NELLE FORME DI LEGGE DELIBERA: DI REDIGERE LA GRADUATORIA DELLE ISTANZE SUI FONDI POP RELATIVI AL PROGRAMMA 1991...", in quanto una graduatoria al riguardo, stante le spontanee dichiarazioni del dr. Costantino Giancarlo, responsabile del Servizio Programmazione, non è stata mai predisposta da nessun ufficio burocratico, né tantomeno dall'organo di Giunta ovvero dal Consiglio Regionale.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, verrà espletata ulteriore attività investigativa onde appurare i criteri sulla base dei quali sono state individuate le proposte ammesse ai fondi POP 1991, a tal riguardo non può escludersi una illecita determinazione da parte dei componenti della Giunta Regionale presenti nella seduta del 14.7.92, che qui di seguito si elencano: 1) SALINI Rocco, presidente; 2) BENEDETTO Giuseppe, Assessore; 3) CANOSA Aldo, Assessore; 4) GIANNUNZIO Ugo, Assessore; 5) LETTERE Giuseppe, Assessore; 6) PIZZOLA Paolo, Assessore; 7) POLLICE Filippo, Assessore, 8) TENAGLIA Domenico Teodoro, Assessore; 9) LIBERATI Romano, Assessore.
Parimenti le ulteriori attività investigative sopra indicate potrebbero, in considerazione dell'elevato numero delle proposte accolte, subire rilevanti deviazioni circa l'acquisizione degli ulteriori elementi probatori in ordine ai fatti narrati, da parte dei soggetti sopra indicati, che potrebbero operare direttamente sui testimoni in tale delicata fase investigativa.
Si precisa infine che informazioni assunte in loco (Dr. ssa Santarelli e Dr. Costantino) hanno permesso di stabilire che il presidente Salini ha mantenuto per se la delega al Settore Programmazione Regione Abruzzo. (4)
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Retata, dunque. Contro la quale quel sistema di potere ("gli intoccabili") che era ormai agonizzante, reagì col vigore di un belva ferita a morte. Emblematica l'intervista che l'onorevole Remo Gaspari concede ad Augusto Minzolini (che sta per affermarsi quale uno dei più autorevoli e qualificati notisti politici):
"L'ho detto al presidente Oscar Luigi Scalfaro, nella mia terra c'è solo gente onesta, l'Abruzzo non è Milano. La ferocia della magistratura dimostrerà solo che la classe dirigente della regione è per bene, come lo sono anche i democristiani delle mie parti. L'inchiesta diventerà un certificato di buona condotta per tutti noi. Io ogni anno faccio 250 mila chilometri in Abruzzo e non ho mai visto una porcheria, delle tangenti non c'è neanche l'odore. Quelli che hanno preso li conosco tutti, uno per uno, non sono delinquenti ma persone per bene, anche quelli del Psi". Remo Gaspari, padre-padrone della Democrazia cristiana abruzzese e governatore ombra dell'intera regione, queste parole le grida nel bel mezzo del "corridoio dei passi perduti" di Montecitorio.
Non si dà pace l'intramontabile capo doroteo per quell'inchiesta che ha portato in cella quasi tutta la Giunta regionale. Lui questa storia non la manda giù, specie adesso che per la prima volta, dopo tanti anni, si trova a non aver posto nel Governo. E non sono pochi i deputati che gli vanno incontro per stringergli la mano. "Remo- gli domanda il sottosegretario dc Mario Angelini, dandogli una pacca sulla spalla- hanno arrestato anche la giunta di Vercelli. Qui bisogna fare qualcosa". "Io l'ho detto a Forlani - è la risposta di Gaspari, elevato involontariamente da mezzo Parlamento a simbolo dei politici aggrediti dalla magistratura - se non reagiamo ci mettono tutti in galera per niente. Lui mi ha detto che farà qualcosa. Speriamo. Intanto, oggi pomeriggio raccolgo le firme per presentare un documento, un'interrogazione in aula".
Domanda. Ma cos'è successo onorevole Gaspari? L'Abruzzo non è più quella terra dei sogni che lei ha sempre osannato?
Risposta. È stato creato un precedente incredibile nella storia legale di questo Paese, è stato messo in galera l'intero governo di una regione. L'accusa poi è strana: ci sarebbero state delle irregolarità nell'assegnazione dei fondi Cee. Secondo me non c'è mai stata una Regione che ha adottato il criterio dei punteggi in questi casi. Debbo dire che la Giunta, per non avere rotte le scatole, ha fatto qualche tempo fa una legge per adottare un criterio del genere. La delibera sotto accusa, però, era stata già presa. Poi, c'era bisogno di almeno 5 mesi di tempo per applicare il nuovo criterio, mentre la Cee pretendeva una risposta subito, con i nomi dei soggetti cui assegnare i fondi.
D. Adesso, però, gli amministratori della sua regione sono in galera. E questo non è certo un bel risultato...
R. Lasciamo perdere. Hanno usato metodi da Gestapo! Ma non lascerò che vengano criminalizzati l'Abruzzo e la sua classe dirigente. L'Abruzzo in manette? Ma che, scherziamo! La magistratura dell'Aquila crede di essere in un momento magico. È sotto l'effetto Di Pietro e pensa che noi siamo come quelli di Milano. Ma questo è un altro mondo, altro che Tangentopoli! Venite qui, guardate in faccia l'Abruzzo. A Gissi, il mio paese, noi teniamo ancora la porta di casa aperta, con le chiavi fuori, infilate nella serratura. Vada a casa mia e guardi. Chi vuole, spinge la porta ed entra dentro. Ci conosciamo tutti, siamo persone per bene. Io ho un vanto: l'Abruzzo era agli ultimi posti come reddito pro-capite, ora siamo cresciuti ma senza imbastardirci.
D. Cosa le ha dato più fastidio?
R. I metodi nazisti. Avete visto la pubblicità che hanno fatto agli arrestati: telecamere, riflettori e foto sui giornali. I carabinieri sono andati a prenderli nelle loro case a notte fonda. Hanno guardato, perquisito dappertutto. Dentro i cassetti, nelle tasche dei vestiti appesi negli armadi, tra le cose più private, più intime, addirittura tra le mutandine delle mogli. Sa cosa pensavano di trovarci tra gli indumenti intimi! E non avendo trovato niente inerente all'inchiesta, hanno portato via tutto, dai bigliettini da visita agli incartamenti che riguardano la vita politica di 15-20 anni di queste persone.
D. Lei li conosce personalmente gli arrestati?
R. Prendiamo il presidente della Giunta, Rocco Salini, io lo conosco bene. Un onest'uomo, mi creda. Sono andati a prenderlo all'una di notte! Dopo avergli perquisito la casa dove abita, i carabinieri lo hanno prelevato e si sono fatti portare nella sua casa al mare. E anche lì, visto che non hanno trovato niente, hanno portato via tutto quello che riguardava l'attività politica del mio amico. E quando dico tutto, dico tutto. Ieri mi ha telefonato la moglie, disperata:! "L'hanno messo dentro - mi ha detto - come un delinquente e, invece, è un galantuomo. Chi glielo ha fatto fare di mettersi in politica, poteva stare a casa con me". Io gli ho risposto: "Tu sei una brava cuoca e sai che l'onestà viene a galla come l'olio nell'acqua. Bisogna solo aspettare che il cucchiaio si fermi".
D. Due assessori però, si sono salvati, almeno a leggere le cronache dei giornali.
R. Comunque, ci hanno pensato ieri a metterli sotto custodia, non in stato di arresto e li hanno tenuti dalle 9 del mattino alle 21 di sera. Hanno subito degli interrogatori molto duri. Prima da soli, poi li hanno messi a confronto ed infine hanno fatto degli interrogatori incrociati. Hanno tentato ogni cosa: hanno cercato di prenderli in fallo, gli hanno fatto delle domande trabocchetto. Cercavano assolutamente qualcosa, volevano un appiglio che motivasse quanto hanno fatto. Ma i loro tentativi però sono stati vani. Così, dopo gli interrogatori, hanno tenuto quei due poveracci per il resto della giornata chiusi in una stanza con dieci finanzieri. Dico io: come fa lo Stato a far pagare le tasse se dieci finanzieri passano un'intera giornata a controllare una persona onesta?
D. Lei ce l'ha con il giudice Tragnone, quello che sta conducendo le indagini?
R. Io non ce l'ho con lui, però, è un tipo strano. Tre mesi fa aveva spiccato un mandato di cattura contro il segretario amministrativo del Psi aquilano, colpevole di aver offerto un cocktail in una discoteca. Secondo l'accusa, non scherzo, il segretario di un partito non può offrire cocktail. La buon'anima del capo procuratore dell'Aquila gli strappò quel mandato di cattura e quel giorno al palazzo di Giustizia volarono parole grosse, tanto che la cosa finì sui giornali. Un mese dopo il capo procuratore è morto e adesso questo giudice fa ciò che vuole.
D. Secondo lei quest'inchiesta nasconde qualcosa?
R. Io ho qualche sospetto. Ad esempio, so che la Giunta aveva adottato una prassi rigida, che non lasciava i funzionari con le mani libere per combinare qualche pasticcio. E forse qualcuno si è vendicato. Oppure, visto che sono state ristrette le spese per il settore sanitario, qualche privato che ha perso miliardi, ha lavorato contro la Giunta. C'è sempre gente che pensa di poter sostituire gli amministratori per bene con gente disonesta.
D. Quindi ne è proprio sicuro: l'Abruzzo, la sua terra dove la gente la chiama ancora "zio Remo", non è terra di tangenti?
R. Bisognerebbe portare la gente in pullman a visitarla. Qui si sono mantenuti intatti i valori della famiglia, della religione e della società civile. Glielo dice uno che ha preso 85 mila voti. La percentuale più alta in Italia tra i ministri e i democristiani. E questi voti li ho presi senza un manifesto, senza uno spot televisivo. Sono bastati i miei santini con la fotografia formato tessera. Risultato: ogni due abruzzesi che sono andati a votare, uno ha votato per me.
D. E questo, a suo avviso, che cosa dimostra?
R. Glielo dico io cosa dimostra. Ancora oggi, quando vado in giro per la mia regione, trovo i vescovi sul palco, i frati e i parroci che vogliono stringermi la mano. Questa è gente che ha naso, se sentissero puzza di tangenti starebbero alla larga. (6)
* * * *
Si sono scritti fiumi di inchiostro sulla legittimità di quegli arresti che hanno (in parte) cambiato la storia dell'Abruzzo. Col senno di poi, alla luce di quell'informativa di polizia giudiziaria, soltanto un Pm negligente non avrebbe fatto quello che Tragnone in effetti fece: chiedere gli arresti al Gip Romolo Como (che li concesse). I fatti, sotto il profilo giudiziario, hanno dato clamorosamente torto a quello scenario e ragione alle affermazioni di Gaspari ("L'inchiesta diventerà un certificato di buona condotta per tutti noi"): indagini tanto gigantesche quanto arruffate e pasticcione sono approdate ad un nulla di fatto. In sostanza, invece di cercare prima prove e riscontri per arrivare ad un teorema ("corrono fiumi di tangenti") si fece esattamente il contrario: si ipotizzò il teorema e, quindi, si cercarono prove e riscontri a conforto dell'ipotesi.
La bocciatura dei metodi e dell'operato della magistratura verrà anche, quasi "in diretta", da uno storico, il professor Raffaele Colapietra che in un'intervista lungimirante, alla vigilia del processo di primo grado, così mi risponde:
"Questo processo mi sembra tanto un accompagno funebre. Già immagino il povero Salini balbettante come Forlani di fronte a Di Pietro. E con la stampa e la Tv ad infierire in questa uccisione di uomini morti. Ma tant'è: l'era di "zio Remo" è tramontata". Anche per il professor Colapietra, storico ed acuto osservatore di cose abruzzesi, il maxiprocesso allo "Scandalo Pop" segna un'epoca: sancirà, dice, la fine della "gasparizzazione" dell'Abruzzo.
Domanda. Professore, una vicenda giudiziaria può segnare una "rivoluzione"?
Risposta. In Abruzzo il sistema è caduto per opera della magistratura non certo della politica: la rivoluzione l'ha provocata Tragnone, non Marco Verticelli (7). Una magistratura che, prima, insabbiava ed era complice del sistema.
D. E poi...?
R. Poi, dopo che è nato il movimento della Lega di Bossi, la magistratura s'è liberata dalla catene. Ma va detto: senza la "pressione" della Lega, tante inchieste non sarebbero nemmeno nate e forse il vecchio sistema sarebbe ancora in piedi.
D. Tragnone in Abruzzo come Di Pietro a Milano?
R. Al di là delle persone, parlerei di cambio generazionale. Nel senso che ad una vecchia guardia di magistrati legati al sistema, si sono sostituiti magistrati giovani, più preparati e, cosa da non sottovalutare, ormai indipendenti economicamente perché oggi guadagnano molto bene. Illuminante è il caso della Procura dell'Aquila: tutto nasce dopo la morte del Procuratore Capo, Mario Ratiglia, al posto del quale, ai primi del settembre del '92, subentra Tragnone. Non dimentichiamo quella richiesta di arresto di un politico che Tragnone aveva richiesto e che Ratiglia bloccò....
D. 29 settembre '92: secondo molti, quegli arresti furono provvedimenti esagerati; Gaspari parlò di "metodi da Gestapo" si parlò anche di grave danno all'immagine per l'intera regione. Che ne pensa?
R. Ho sentito e letto di critiche a quegli arresti ma, comprese le interrogazioni parlamentari, non hanno avuto esito. Certo, in questa come in altre inchieste, c'è stato un compiacimento protagonista dei magistrati. Che non è giustificabile ma pur comprensibile visto che questa corporazione è stata, fino a "Mani pulite", un'oscura servitrice del sistema con poche eccezioni. Quanto all'affermazione di Gaspari, mi meraviglia che proprio lui che potè vedere anche in Abruzzo i nazisti all'opera, se ne sia uscito con una simile bestemmia.
D. E il danno all'immagine dell'Abruzzo?
R. Anche questo è un passaggio indicativo. Salini e C. non erano stati sconfessati dagli abruzzesi né erano decaduti per mano politica. Perciò qualcuno avrà legittimamente pensato che colpendoli, s'era colpito l'intero Abruzzo.
D. Clientopoli e non Tangentopoli: ossia un sistema di favoritismi e non di tangenti. Questa la difesa di alcuni...
R. Se dal punto di vista penale il reato di abuso d'ufficio è meno grave di quello della concussione, dal punto di vista etico Clientopoli è più grave. Perché tradisce la politica, intesa come rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Meriterebbe un ergastolo, ma politico. D'altra parte, ottenere la grazia dal padrone è tipico della mentalità meridionale post- feudale. E l'Abruzzo è sempre stato sotto un padrone a cui presentare suppliche. Non a caso Gaspari, che dopo un dualismo di leader pescaresi o aquilani, ha unificato il padrinaggio, riceveva le suppliche "cammin facendo" tra casa sua ed il Municipio di Gissi. Non a caso Gaspari arrivava in elicottero: un gesto dal valore antropologico del potente- onnipotente che viene d'alto.
D. Insomma, un Governo regionale "gasparizzato"?
R. Con l'istituzione delle regioni, nel '70, ad amministrare l'ente in Abruzzo sono sempre andate mezze cartucce: o onorevoli trombati o aspiranti onorevoli. Tutti messi là dal potente di turno. Così il medico condotto di Castilenti è diventato presidente della Giunta regionale.
D. Lei sostiene che la vicenda Pop ha segnato un'epoca sotto il profilo distruttivo. E per costruire?
R. Il risultato, paradossale, delle recenti elezioni sono un'occasione unica per l'Abruzzo. Per la prima volta, l'Abruzzo rosso e con tutti gli esponenti del vecchio sistema di intermediazione trombati sonoramente, è fuori dal sistema. L'occasione per l'Abruzzo di realizzarsi finalmente come regione. La regionalizzazione dopo la degasparizzazione. A cominciare da questa Giunta regionale dove sono diventati, per caso, assessori quelli che non erano finiti in manette. (8)
* * * *
Le indagini, dunque, furono un "fiasco" almeno rispetto alle attese. Le attese soprattutto del popolo, quel popolo che festeggiò con lo spumante l'ingresso in carcere degli "intoccabili" ma anche di alcuni politici come l'allora missino Giuseppe Tagliente che durante la prima seduta dell'assise regionale (della quale attualmente è presidente per Forza Italia) dopo gli arresti, tirò fuori addirittura un "pitale". Racconta Guido Polidoro:
E tanto per sottolineare la forzatura dei toni, basta riferire del consigliere missino Tagliente che ha ritenuto opportuno esibire in aula, durante l'intervento, un vaso da notte in porcellana bianca, per indicarlo a simbolo di ciò che il Consiglio regionale sarebbe, oggi, nella comune e diffusa opinione degli abruzzesi. (9)
Se le indagini furono un fiasco, il conseguente maxiprocesso (dopo che altri ben 17 procedimenti-satellite sono via via usciti dall'orbita fino a sparire totalmente), s'è letteralmente sgonfiato, alla luce prima dell'annullamento della sentenza della Corte d'Appello dell'Aquila (un anno e dieci mesi di reclusione per tutti gli imputati per abuso d'ufficio, 2 anni a Salini anche per il falso nella delibera) deciso dalla Corte di Cassazione nel 1997 e quindi della sentenza finale della Corte d'Appello di Roma (condanna ad un anno e quattro mesi soltanto per falso al solo Salini). Ecco la mia cronaca di quella clamorosa decisione finale:
Come capita di fronte ad un fatto storico, in molti giocarono al Lotto e vinsero con il terno 29 (la nottata degli arresti), 9 (gli arrestati, poi diventati undici) e 90 (la "paura"). Alla stessa stregua, oggi, si dovrebbe giocare il terno 7 (la mattinata delle assoluzioni), 11 (gli assolti) e 36 (l'errore). Sì, perché, la sentenza assolutoria di ieri della Corte d'Appello di Roma sul caso che non potrà più essere definito "Scandalo Pop", ha sancito "uno storico errore giudiziario".
Un intero Governo regionale in manette, caso unico nella storia italiana tanto da far ipotizzare a qualcuno, con feroce ironia, una seduta di Giunta nel parlatoio del carcere; un'intera classe politica spazzata via; una figuraccia davanti alla Cee che finì addirittura sulla prima pagina del "New York Times"; ventimila pagine di atti raccolti in un'inchiesta "madre" che ne ha fatte scattare altre 17 contro la Regione (quasi tutte chiuse con un nulla di fatto); la fama di essere la capitale italiana di "Clientopoli", il regno dei favori agli amici e agli amici degli amici.
Tutto questo, secondo la Corte d'Appello di Roma, chiamata dalla Cassazione a dirimere la questione, è "un fatto che non sussiste". Dunque, assolti dall'accusa di abuso d'ufficio per aver spartito in maniera clientelare i 435 miliardi dei fondi comunitari Pop. Tutti assolti: l'ex presidente Rocco Salini (per il quale, però, è stata confermata una condanna ad 1 anno e 4 mesi per un falso nella delibera incriminata contro la quale i suoi legali hanno già annunciato ricorso in Cassazione), l'ex vicepresidente Ugo Giannunzio (Psi), e gli ex assessori Franco La Civita (Dc), Paolo Pizzola (Psi), Giuseppe Lettere (Dc), Filippo Pollice (Dc), Giuseppe Molino (Dc), Aldo Canosa (Dc), Domenico Tenaglia (Dc), Giuseppe Benedetto (Pli), e Romano Liberati (Psi). Tutti assolti, nonostante la condanna in primo grado del Tribunale dell'Aquila, con sostanziale conferma (ma pene ridotte) della Corte d'Appello aquilana prima che la Cassazione "cancellasse" e rinviasse tutto alla Corte d'Appello di Roma. I cui giudici, ieri, sono andati oltre la richiesta della Pubblica accusa (il Pg Lombardi) il quale aveva chiesto l'assoluzione con la formula "perché il fatto non costituisce reato". Penalmente il fatto non sussiste, non c'è proprio stato.
Una requisitoria durissima, quella di ieri così come lo era stata quella del Pg della Cassazione, nella quale sono stati tirati due poderosi schiaffi alla giustizia abruzzese. Uno schiaffo al Pm che condusse le indagini ed ordinò gli arresti, il sostituto Fabrizio Tragnone da due anni promosso Procuratore capo in Sardegna, a Lanusei. "Il processo è nato zoppo" ha detto in sostanza il Pg riferendosi, senza comunque dirlo esplicitamente, a quelle manette che hanno segnato la vicenda processuale oltre che la storia recente dell'Abruzzo. Una "retata" che fu duramente contestata. "Quel Tragnone è uno sceriffo con la toga" disse a caldo Marco Pannella.
L'altro schiaffo è arrivato sul viso dei giudici di primo e secondo grado. "Non c'è alcuna prova che gli imputati abbiano agito con dolo" ha detto ieri il Pg, cioè con la volontà di abusare della propria carica per spartirsi in maniera clientelare i finanziamenti. Infliggere una condanna senza averne provato il dolo: è come un mare senza acqua. Al massimo, ha detto il Pg, si è trattato di un'irregolarità amministrativa dettata dalla fretta di assegnare i finanziamenti per non perderli visto che scadevano i termini.
Un storico errore giudiziario. "La Giunta Salini - ha commentato ieri Gaspari- fu vittima di un gravissimo errore giudiziario e di un'operazione politica che ha violentato la volontà degli elettori e che è all'origine del gravissimo danno derivato alla politica di sviluppo, dell'economia e del reddito in Abruzzo. Senza quella inchiesta- ha aggiunto l'ex ministro- non staremmo oggi a piangere per i 49 mila posti di lavoro, quelli che mancano all'appello dal '92 quando l'Abruzzo, dopo le note vicende, subì una forte frenata politico-economica". Di più. Secondo l'ex ministro "l'esclusione dell'Abruzzo dai benefici nazionali e comunitari è stata fortemente influenzata proprio da quell'accusa, mossa in un primo momento e poi rivelatasi infondata, di tentata truffa ai danni della Cee. Non dimentichiamoci che la Cee inviò addirittura un avvocato per costituirsi parte civile. Il discredito era giunto perfino a Bruxelles. Gli abruzzesi hanno pagato e pagano tuttora duramente quell'incredibile errore giudiziario. La mia solidarietà va anche a quei socialisti ed a quei liberali che finirono alla gogna".
Numerose le reazioni. Dall'ex ministro di Grazia e giustizia, Filippo Mancuso (Fi) che ha parlato di "una ingiustizia che resterà impunita", agli ex parlamentari Piero D'Andreamatteo ("Alla luce di questa sentenza si rifletta su quanto avvenuto in Italia e in particolare in Abruzzo e sui metodi usati per colpire la classe politica democraticamente eletta") e Anna Nenna D'Antonio ("Le nubi si sono diradate, ora è chiaro per tutti cos'è accaduto in Abruzzo"), all'ex assessore Giuseppe Benedetto: "Si è conclusa la più vergognosa vicenda di "Mani pulite" dal suo nascere. L'arresto di tutto un governo regionale fu il vero salto di qualità di quegli sciagurati anni. Chi pagherà lo scempio di giustizia che è stato perpetrato?". (10)
* * * *
"Un clamoroso errore giudiziario"? Dirà Domenico Tenaglia, in un convegno organizzato nel secondo anniversario della notte di San Michele: "Non si poteva forse invitarci già nel pomeriggio all'Aquila evitando la retata? Così iniziava la nostra tragedia, proprio come ammoniva l'Antolisei, definendo l'errore giudiziario, "frutto di un frettoloso rapporto di un zelante membro della polizia giudiziaria, privo di supporti probatori". Così è stato, unico caso in Italia, e senza dubbio nel mondo, per la Giunta Regionale d'Abruzzo. Ma era sufficiente una mezza paginetta di rapporto per far scattare le manette in una storica retata decapitando un organo costituzionale? È mai possibile che non sia insorto il sospetto sulla ben nota assonanza politica tra il denunciante ed il refertante come, i fatti hanno, poi, dimostrato? Non era necessario cercare riscontri? Non si poteva proprio sentire almeno il proponente? Ma tant'è: "vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuol e più non dimandar". Gli altri due colleghi ci seguirono al San Domenico ed, intanto, senza risposta rimaneva il grido accorato, nel chiuso dell'isolamento, di chi chiamandomi mi chiedeva: perché siamo qui?". (11)
E già dopo la Cassazione, l'onorevole Carlo Giovanardi, in una conferenza stampa alla Camera alla luce della sentenza della Suprema Corte, aveva detto: "In Abruzzo c'è stato un vero colpo di Stato perché un intero governo regionale è stato arrestato e portato via sulla base del nulla, come succede in Sud America. Ma l'Abruzzo non è una repubblica delle banane: oggi sappiamo che quegli arresti erano senza fondamento. C'è stata una via giudiziaria al potere. Infatti, dopo gli arresti sono andati al governo gli amici dei magistrati a partire dal Pci- Pds: l'attuale governo regionale è quindi illegittimo perché nato da un colpo di Stato". (12)
Infuriano le polemiche. A tal punto che scende in campo l'allora Procuratore generale dell'Abruzzo, Bruno Tarquini. Il quale convoca una conferenza stampa per diffondere un durissimo documento. Eccolo:
Poiché non passa giorno senza che sugli organi di informazione si torni a scrivere sul presunto errore giudiziario in cui sarebbe incorsa la magistratura aquilana in relazione al processo che ha visto coinvolta la Giunta regionale per la nota vicenda dei Pop; e poiché continuano a piovere sulla "malagiustizia abruzzese" accuse di aver cagionato danni irreparabili a persone, ad imprese e perfino alla stessa Regione; e poiché, infine, il silenzio sulla verità dei fatti e degli avvenimenti giudiziari finirebbe per avallare questa infamante campagna di delegittimazione della magistratura, al solo scopo di servire la verità, rimettendo le cose al posto giusto, e di consentire, quindi, all'opinione pubblica di giudicare quei fatti non sulle parole spesso troppo avventatamente pronunciate ma sui documenti, ed in particolare sulle sentenze emanate nel corso del procedimento, ho ritenuto, dopo aver a lungo meditato, di offrire sul caso le seguenti precisazioni:
1) Senza dilungarmi sulla fase delle indagini preliminari, nel corso della quale i componenti della Giunta regionale furono sottoposti alla custodia cautelare in carcere (consentita dalla norma allora vigente dell'art. 323 c.p., che punisce il reato di abuso di ufficio) è sufficiente ricordare che: a) il Tribunale dell'Aquila, con sentenza del 21 Giugno 1994, condannò i componenti della Giunta per i delitti di falsità ideologica e di abuso di ufficio, e assolse i tre consiglieri regionali; b) la Corte d'Appello dell'Aquila, con sentenza del 23 Novembre 1995, riformò parzialmente la sentenza di primo grado, riducendo la pena ad uno degli imputati, e condannando anche gli imputati che erano stati assolti; c) la Corte di Cassazione, con sentenza del 26 Giugno 1997, annullò la sentenza di secondo grado "nei confronti di tutti gli imputati limitatamente al reati di abuso loro ascritti ai capi A/1 e C dell'imputazione", e rinviò per nuovo giudizio alla Corte d'Appello di Roma.
2) È necessario, a questo punto, leggere alcuni passi della motivazione contenuta nella sentenza della Suprema Corte, e precisamente le sue pagine 84, 85 e 86. Orbene, la Corte d'Appello dell'Aquila, ha opportunamente e convincentemente sottolineato- sulla base del copioso materiale probatorio rappresentato dalla documentazione acquisita, dagli accertamenti tecnico-peritali espletati, dalle ammissioni degli imputati, dalle dichiarazioni di testimoni (diversi dal Costantino )- come violazione di legge ed eccesso di potere avessero connotato l'intera vicenda: per esser state le domande selezionate in base a "segnalazioni" e non a "criteri tecnico-giuridici"; per esser state apportate riduzioni di costi non consentite; per esser stati sistematicamente disattesi i "criteri guida" previsti dalla normativa vigente; per essersi svolta la seduta di Giunta con modalità tali da rendere evidente la violazione del regolamento interno ma anche della prassi; per essere state ispirate a mere "logiche di spartizione clientelare" da prima la predisposizione e approvazione (seduta 14-7-92) e quindi le modifiche (sedute delle Commissioni congiunte) degli elenchi da presentare al Consiglio regionale circa le iniziative da finanziare con i fondi Pop.
Tutto ciò la Cassazione ha ritenuto per dimostrare la fondatezza di quanto aveva affermato a pag. 83, e cioè: "La sussistenza dell'elemento materiale del reato di abuso di ufficio, nonostante gli argomenti addotti da alcuni ricorrenti, appare nel caso di specie fuori discussione". (...)
3) Ma allora perché la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte aquilana? La risposta è che "le argomentazioni della sentenza impugnata appaiono gravemente carenti, e sono perciò da disattendere, per quanto concerne l'elemento soggettivo dei reati di abuso d'ufficio contestati". (Ma ciò solo perché la sentenza di secondo grado aveva fondato la convinzione della sussistenza del dolo su una deposizione testimoniale, di cui la Cassazione dichiarò la nullità per motivi esclusivamente di rito). Infatti "per la sussistenza dei delitti previsti dall'art.323 c.p., sono necessari sia il dolo generico che il dolo specifico: il primo, consistente nella coscienza e volontà di esercitare una pubblica funzione o un pubblico servizio, e di consumare un abuso (cioè un atto o un fatto illegittimo); il secondo, consistente nella finalizzazione della condotta ("al fine" o "per" procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale)".
Ora senza addentrarsi nelle complesse argomentazioni giuridiche svolte dalla Corte di Cassazione sull'elemento soggettivo (dolo generico e specifico) del reato di abuso di ufficio, deve concludersi che il giudice di legittimità ritenne di disporre il rinvio per un nuovo giudizio "in proposito" (cioè sull'elemento soggettivo) alla Corte d'Appello di Roma, la quale avrebbe dovuto "provvedere uniformandosi ai principi enunciati da questa Corte".
4) Sennonché avvenne che la Legge 16 Luglio 1997, n.234 (successiva di venti giorni alla sentenza della Cassazione) rivoluzionò il contenuto dell'art. 323 c.p., trasformando il delitto di abuso di ufficio da reato di pericolo a reato di danno. Ciò significa, molto schematicamente, che l'"ingiusto vantaggio patrimoniale" oppure "il danno ingiusto" non costituiscono più quella che la Corte di Cassazione ha chiamato la "finalizzazione della condotta", vale a dire il dolo specifico del delitto in esame, ma sono stati inclusi nella condotta del reo, vale a dire che sono entrati a far parte dell'elemento oggettivo. Ciò comporta che, ora, per ritenere realizzato il delitto di abuso di ufficio è necessario che il pubblico ufficiale, violando norme di legge, intenzionalmente procuri a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, oppure arrechi ad altri un danno ingiusto; occorre, cioè, che il vantaggio e/o il danno, che prima erano solo il fine da raggiungere, ora debbano essere concretamente realizzati dalla condotta del pubblico ufficiale.
5) Naturalmente la Corte d'Appello di Roma ha dovuto, (almeno si ritiene) applicare in favore degli imputati la nuova formulazione dell'art.323 c.p., in attuazione dell'art.2, comma 3, del codice penale, secondo il quale se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo. E non v'è dubbio che l'art.323 c.p., come formulato con la Legge 234 del 1997, sia sicuramente più favorevole per gli imputati di quello vigente al momento dei fatti.
6) Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza della Corte d'Appello di Roma, potendosi solo intuire che sia pervenuta all'assoluzione "perché il fatto non sussiste" invece che a quella "perché il fatto non costituisce reato" (come avrebbe dovuto se, applicati i criteri direttivi enunciati dalla Cassazione, avesse ritenuto insussistente l'elemento soggettivo) per aver ritenuto non realizzato l'intero elemento oggettivo del reato, vale a dire anche l'ingiusto vantaggio patrimoniale di altri introdotto dalla Legge 234. Quindi, non possono nemmeno immaginarsi i motivi che hanno impedito, per esempio, di ravvisare nei fatti, se non l'abuso consumato, almeno il suo tentativo. Ma in ogni caso non c'è alcun dubbio che restano definitivamente fermi tutti gli abusi elencati dalla Corte di Cassazione, sui quali ormai non può operarsi alcuna revisione in sede giudiziaria.
Tutto questo significa che, nel caso in questione, non è stato commesso alcun errore giudiziario, perché tutti i fatti contestati sono rimasti giudizialmente ed oggettivamente provati: solo sotto il profilo del dolo si sarebbe dovuto accertare, dal giudice del rinvio, se gli assessori della Giunta regionale avessero avuto coscienza e volontà di esercitare una pubblica funzione e di consumare un abuso, e se avessero finalizzato la propria condotta a procurare ad alcuni (persone o imprese) un vantaggio ingiusto e/o ad altri un corrispondente danno altrettanto ingiusto.
Ma la sopravvenuta legge del 1997 ha impedito questo tipo di accertamento ed ha, invece, necessariamente indirizzato il giudice del rinvio ad accertare la insussistenza dell'ingiusto vantaggio patrimoniale (o del danno ingiusto). Se così è, si potrebbe ipotizzare che l'abuso oggettivamente compiuto dagli imputati non abbia fatto in tempo a procurare ingiusti vantaggi e/o danni a persone e/o ad imprese proprio in virtù del tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria. Il cittadino comune può, poi, valutare da sé chi, in tutta questa vicenda, abbia veramente danneggiato gli interessi dell'Abruzzo.
Di certo, non la magistratura". (14)
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"Nessun errore giudiziario"? Certo, nessuno si sarebbe aspettato che proprio quella contestatissima sentenza finale (e ormai definitiva dopo che la Cassazione la confermò nel dicembre del 1999) avrebbe segnato il destino dell'Abruzzo anche a distanza di quasi dieci anni. Sì, perché prendendo alla lettera la profezia di Gaspari ("L'inchiesta diventerà un certificato di buona condotta per tutti noi"), "il medico condotto di Castilenti" si ributta in politica, per le Regionali del 2000, dopo un periodo di purgatorio. È corteggiato per una candidatura dal centrosinistra visto che è un esponente dei Popolari ma, un mese prima delle elezioni, Salini sceglie la Casa delle Libertà, Forza Italia per la precisione. E con oltre tredicimila preferenze fa pendere la bilancia, in maniera decisiva, dalla parte di Giovanni Pace che prevale di meno di 4.000 voti su Antonio Falconio. Così Claudio Valente "dipinge" quella candidatura contesa:
Il "FATTORE S", dove S sta per Salini Rocco, ex presidente Dc della Giunta abruzzese, fresco di trionfale ritorno all'Emiciclo su una strada lastricata da 13 mila preferenze, sta spazzando come un gelido vento di tramontana le truppe del centrosinistra sconfitto. Nessuno, tra i leader di Abruzzo democratico, vuole assumersi la responsabilità d'aver caricato a bordo Salini, e poi d'averlo scaricato consegnando al Polo le chiavi del successo elettorale di Giovanni Pace. La ricerca di un colpevole sta aprendo profonde ferite tra i Ds, cui la conquista del primato tra i partiti serve solo a far bruciare di più la sconfitta di Falconio, e sta creando seri imbarazzi in casa Popolare, dove ci sono personaggi delusi dal voto di domenica che potrebbero portare i loro comunque cospicui consensi sul carro dell'amico ritrovato, appunto Salini. È dunque un falso bersaglio Maurizio Acerbo, il segretario di Rifondazione comunista che pronunciando il "no" all'ex presidente aprì la strada alla sua cancellazione dalla lista del Ppi di Teramo, dov'era già inserito: in realtà la presenza di Salini creava problemi di spazio e di posti pregiati in Giunta ad altri candidati, che colsero al balzo la palla del "no" scagliata da Acerbo. Ora che non ci sono più né spazi e né posti pregiati in Giunta, nel centrosinistra è iniziata la caccia al responsabile. Che s'annuncia spietata. (15)
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Il centrosinistra non ci sta ed attiva una battaglia giudiziaria a tutti i livelli in cui si sostiene la ineleggibilità di Salini proprio per quella sua condanna ad un anno e 4 mesi di reclusione per il reato di falso. La battaglia, dopo ricorsi e controricorsi produce un clamoroso effetto: il Tar dell'Aquila, il 9 gennaio del 2002, annulla le elezioni regionali. Secondo il Tar, Salini (che nel frattempo ha lasciato la poltrona di assessore alla Sanità perché eletto senatore nel collegio Teramo-Giulianova), incandidabile ed ineleggibile, ha di fatto "inquinato" il risultato elettorale. L'Abruzzo, un'altra volta, è in ginocchio. Come in quella notte di San Michele. E ancora una volta per un "colpo" della magistratura. "Sono dell'avviso - dichiara a Giancarlo De Risio il Governatore abruzzese Giovanni Pace - di andare subito alle elezioni senza il ricorso al Consiglio di Stato. Non conosco gli elementi che hanno ispirato i giudici nella loro sentenza. Personalmente spero che gli amici della maggioranza non consiglino un ricorso". (16)
Il ricorso, invece, viene presentato. E il Consiglio di Stato, il 19 febbraio 2002, sospende la sentenza con la quale il Tar dell'Aquila, quaranta giorni prima, aveva annullato le elezioni del 2000 lasciando di fatto l'Abruzzo senza un governo. I giudici della quinta sezione hanno accolto il ricorso presentato, per conto della Regione, dall'Avvocatura dello Stato, reintegrando così, nelle piene funzioni Giunta e Consiglio regionali. Forse con un sospiro di sollievo un po' di tutti, opposizione compresa, per nulla contenta di dover tornare alle urne avendo, oltretutto, nel frattempo perduto il proprio leader, Antonio Falconio, passato al centrodestra.
Esattamente due anni dopo, nel gennaio del 2004, così commenterà la retata l'ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, in un'intervista a Marco Patricelli in occasione della sua partecipazione all'Aquila al convegno, ironia della sorte, sul "Pianeta maldicenza":
"Quel che è accaduto ricade nella totale responsabilità del Pubblico ministero. Sua e non di altri, senza tirare in ballo la magistratura nel suo complesso". (17)
Note al testo
(1) Il Messaggero, Cronaca d'Abruzzo, 1 ottobre 1992 (torna al testo)
(2) Il Centro, Speciale "Scandalo Pop", 21 settembre 1993 (torna al testo)
(3) Il Messaggero, Cronaca d'Abruzzo, 30 settembre 1992 (torna al testo)
(4) Atti del processo, Proc. Pen. 969/92 R.G.N.R, fogli 2-4 (torna al testo)
(5) In realtà il Pm può solo chiedere gli arresti al Gip che decide se accoglierli o meno (torna al testo)
(6) La Stampa, 2 ottobre 1992 (torna al testo)
(7) All'epoca segretario regionale del Pds (torna al testo)
(8) Il Messaggero, Cronaca d'Abruzzo, 10 aprile 1994 (torna al testo)
(9) Il Messaggero, Cronaca d'Abruzzo, 14 ottobre 1992 (torna al testo)
(10) Il Messaggero, Cronaca d'Abruzzo, 8 novembre 1998 (torna al testo)
(11) Stralcio dalla relazione tenuta da Domenico Tenaglia nel convegno dal tema "Giustizia e politica, la legge è uguale per tutti?", L'Aquila, palazzo dell'Emiciclo, 30 settembre 1994 (torna al testo)
(12) Dispaccio Agenzia Ansa, Roma, 2 luglio 1997 (torna al testo)
(13) Il riferimento è al dirigente regionale Giancarlo Costantino, il cosiddetto superteste del "Processo Pop" (torna al testo)
(14) Comunicato stampa, 24 novembre 1998 (torna al testo)
(15) Il Messaggero, Cronaca d'Abruzzo, 19 aprile 2000 (torna al testo)
(16) Il Messaggero, Cronaca d'Abruzzo, 10 gennaio 2002 (torna al testo)
(17) Il Tempo, Prima pagina d'Abruzzo, 11 gennaio 2004 (torna al testo)