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Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 79

Un saggio di Angelo De Nicola

Presunto innocente



79. MINACCIATO E PICCHIATO DAI POLIZIOTTI
13. 6. 1997



Botte a Michele Perruzza, minacce a sua moglie e condizionamenti sul figlio Mauro. È un quadro inquietante quello emerso ieri dai due drammatici interrogatori di Michele Perruzza e di sua moglie Maria Giuseppa Capoccitti davanti al Tribunale di Sulmona che sta processando i due con l’accusa di aver istigato il figlio ad autoaccusarsi del delitto della piccola Cristina.
Un “processo satellite” che rappresenta l’ultima speranza per il muratore di Balsorano per tentare la ”revisione”.
Le botte. Seppure in uno stentatissimo italiano, Michele Perruzza ha risposto in maniera logica a tutte le domande del pubblico ministero Aura Scarsella e degli avvocati. Ricostruendo la “notte dei misteri”, quella durante la quale Mauro prima si autoaccusò del delitto per poi ritrattare ed accusare suo padre, il muratore ha rivelato che quando arrivò negli uffici della Procura di Avezzano, gli investigatori lo accolsero con grida («Tu sei il mostro, getta questa sigaretta che per te sarà l’ultima») e con botte e spintoni («Mi picchiarono a sangue»).
In sostanza, Perruzza ha spiegato che quella sera del 23 agosto 1990, rientrarono a casa in tre: lui, la moglie e Mauro. «Incontrammo nostro figlio- ha detto il muratore- sull’uscio di casa. Era tutto bagnato. Mi disse che s’era andato a lavare al fontanile. Ma che ti sei combinato, gli dissi? Lui non mi rispose e si andò a fare una doccia». Ma non si è insospettito, né prima né dopo, del fatto che suo figlio era zuppo? «Mai e poi mai avrei potuto immaginare- ha risposto Perruzza- che mio figlio avesse potuto combinare una cosa del genere». Dunque, per la prima volta davanti a dei giudici, Perruzza accusa suo figlio, anche se non in maniera diretta «perché- dice il muratore- io non l’ho visto come i miei occhi uccidere Cristina ma le sue bugie non reggono».
Quando si è convinto della colpevolezza di Mauro? «Ci sono voluti sedici mesi. Mi sono convinto dopo che mio figlio, nel processo di secondo grado, ha detto di aver visto l’auto bianca transitare lungo la strada che costeggia il luogo del delitto. Mi sono ricordato di averla vista pure io quell’auto, ma da casa mia. E se Mauro l’ha vista, vuol dire che non era nel posto dove dice lui, da dove la strada non si può scorgere, bensì vicino al luogo dove è stata ammazzata la povera Cristina».
Su una sola domanda, Perruzza ha “zoppicato” vistosamente. Quando il presidente del Tribunale, Oreste Bonavitacola, gli ha domandato come mai siano stati trovati dei capelli, risultati di Cristina, su una sua canottiera rinvenuta in casa sua. «Può darsi- ha risposto l’uomo- che ci siano capitati visto che Cristina veniva spesso a casa mia».
Risposta inverosimile. Ma uno dei legali di Perruzza (l’avvocato Carlo Maccallini) ha gettato un’altra ombra fosca sulla vicenda: «I capelli sono stati rinvenuti dopo che il verbale di perquisizione in casa di Perruzza, al quale io ho assistito, era stato chiuso ed io ero già andato via». Non solo. È emerso anche che prima della perquisizione, la polizia avrebbe eseguito una “visita” nella casa dei Perruzza che non è stata verbalizzata.
Le minacce. Ancora più drammatico è stato il racconto della moglie, combaciante, per quanto riguarda la ricostruzione, con quello del marito. La donna, per la prima volta, ha accettato di farsi interrogare (finora aveva sempre evitato questo esame) ma non ha detto nulla di nuovo. Nel senso che ha cercato di scagionare il marito («Lui stava con me all’ora del delitto») ma senza accusare il figlio («Che sia stato Mauro io non l’ho mai voluto accettare e continuo a non accettarlo nemmeno oggi»).
Ancora una volta, una donna combattuta tra il marito ed il figlio. Tanto decisa a difendere il figlio che, ha spiegato ieri, ha cambiato avvocato del marito non appena questo legale ipotizzava di accusare Mauro del delitto. Più mamma che moglie: «Mi hanno fatto apparire come una madre snaturata. Ma che dovevo fare? Questo figlio me lo hanno rovinato in ogni caso».
Eppure, le è stato chiesto, lei in un primo momento ha accusato suo marito confermando le accuse di suo figlio. È stato a questo punto che la donna ha rivelato un altro particolare inquietante: «Quella notte, negli uffici della Procura di Avezzano- ha raccontato balbettando- mi chiusero in una stanza, sola con venti uomini tra agenti e carabinieri. Mi cominciarono ad urlare nelle orecchie ed a dire che mi avrebbero tolto i miei due figli minori se non avessi firmato un foglio. Ed io lo firmai. Ecco dove ho sbagliato. Ma l’ho detto subito, un’ora dopo, che era tutto falso. Per questo fatto mio marito non ne vuole più sapere di me».
Il presidente Bonavitacola ha sgranato gli occhi. Non è escluso che il Tribunale vada in fondo anche in questa faccenda visto pure che è emerso (e risulta nei verbali) che Mauro, quella notte venne interrogato senza la presenza di un genitore (che doveva esserci in quanto era minore) e che la donna non è stata avvertita della facoltà di non rispondere essendo familiare dell’uno e dell’altro sospettato.
I condizionamenti. Non è finita. Ieri, sono emersi nuovi sospetti a carico dell’assistente sociale Silvia Bianchi che seguì il ragazzo. «Mauro dipendeva in tutto e per tutto dall'assistente sociale, alla cui tutela era sottoposto» : dubbi su possibili condizionamenti subiti dal ragazzo, nella imminenza della sua deposizione al processo di secondo grado, sono emersi dalle testimonianze di Maria Teresa Mossa e di suo figlio Giovanni Pace i quali ebbero in affidamento Mauro dal 29 settembre 1991 al 3 gennaio 1992.
I due hanno confermato l'esistenza di un dattiloscritto recante la ricostruzione di quanto Mauro aveva visto la notte dell'omicidio, mostrato a loro dall'assistente sociale Silvia Bianchi e che la stessa definì il contenuto della deposizione che il ragazzo avrebbe dovuto rendere poi nei giorni successivi dinanzi alla Corte d'Assise d'Appello.
In quelle poche righe si parlava di un capanno, del fatto che il padre Michele la «steva a finì (la stava a finire, uccidere, n. d. r.)» e di una metafora dell’asinello in dialetto: «Se trovi un asino carico, che fai? Gli sgravi la soma».
Un accenno questo che la difesa di Perruzza riconduce all'autocalunnia, quando cioè Mauro si accusò dell'omicidio.
Qualche giorno dopo la sua deposizione, Mauro, ad un accenno di Giovanni Pace a quel foglio, avrebbe detto che quello lo aveva scritto la Bianchi (che l’altro ieri si è avvalsa della facoltà di non rispondere dinanzi al Tribunale).
Ieri, la Bianchi ha fatto pervenire una lettera dal suo avvocato ai giornali in cui smentisce di aver subito sequestri delle sue carte ma «di aver spontaneamente consegnato i documenti richiesti (ben 700 pagine di scritti) dal Tribunale di Sulmona alla polizia giudiziaria di Avezzano».


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