Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 77
Un saggio di Angelo De Nicola
77. MAURO NON PARLA, IL NONNO LO CONDANNA
12. 6. 1997
«No, non intendo rispondere». Ancora una volta Mauro Perruzza ha tenuto in scacco tutti. Ma la scelta di opporre il silenzio, grazie ad una scappatoia prevista dal codice, adottata ieri mattina davanti al Tribunale di Sulmona che sta celebrando un processo satellite a quello principale del delitto, potrebbe costare assai cara al figlio di Michele Perruzza.
A quel ragazzo tredicenne all’epoca dell’omicidio, che nell’immaginario popolare continua ad essere il sospettato numero uno dell’omicidio della piccola Cristina nonostante il padre, Michele, sia stato condannato all’ergastolo con sentenza definitiva dopo tre gradi di giudizio.
Potrebbe costare caro non solo perché suo nonno, Pasquale Perruzza, ieri lo ha “condannato” giudicandolo l’autore del delitto della piccola Cristina; non solo perché il presidente del Tribunale, Oreste Bonavitacola, con toni di stizza, lo ha apostrofato «pensavo che lei volesse dire qualcosa»; non solo perché l’assistente sociale che lo ha seguito fino a poco tempo fa ha scelto anche lei il silenzio, aggravando i sospetti.
Non solo per tutte queste ragioni ma perché la difesa di Michele (avvocati Attilio Cecchini, Antonio De Vita e Carlo Maccallini), con questo silenzio, ha incassato due vittorie.
La prima utile per il processo satellite («Ecco chi è Mauro, tira il sasso ma poi nasconde la mano» ha detto l’avvocato Cecchini).
La seconda forse decisiva per tentare la strada della ”revisione” del processo principale per l’omicidio, conclusosi con la condanna al carcere a vita.
Una vittoria per il silenzio del ragazzo ma anche per come questo silenzio è maturato. La questione è tecnica ed assai complicata. In sostanza, ieri mattina, Mauro s’è presentato con due legali (gli avvocati Ferdinando Paone e Stefano Rossi del foro dell’Aquila) i quali hanno sollevato un’eccezione: il ragazzo non può essere ascoltato come se fosse un normale testimone perché è stato indagato (e, poi, scagionato) per un reato connesso a quello per il quale si procede, ovvero per calunnia.
Il padre Michele, sentendosi accusato di averlo istigato ad autoaccusarsi, querelò il figlio ritenendosi calunniato.
Alla persona che è (o è stata) indagata per un reato connesso, il codice offre alcune garanzie (assistenza di un avvocato, possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere e addirittura di dire il falso senza conseguenze) per il comprensibile fatto che potrebbe finire nei guai essa stessa.
E proprio per questo, a chi si trova in questa condizione, la giustizia affibbia una certa inattendibilità perché si presume che il suo primo obiettivo sia quello di salvare se stesso, anche a costo di dire bugie.
Il Tribunale ha accolto la richiesta della difesa di Mauro il quale, in camicia a scacchi celeste e jeans sopra un paio di “Timberland” alla moda, si è seduto dieci secondi davanti ai giudici peligni ed ha dichiarato di avvalersi della facoltà di non rispondere in base all’articolo 210 del codice di procedura penale.
Ma proprio qui sta il punto. Come ha ricordato, nel suo intervento, l’avvocato Cecchini, fu proprio la difesa di Michele a sollevare questa eccezione quando il ragazzo venne interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello.
Cioè quando la testimonianza di aver visto, dal solaio di un capanno, il padre uccidere Cristina, costituì la prova-regina per la condanna del muratore all’ergastolo. «Il ragazzo non può deporre perché è indagato» protestò Cecchini.
La Corte di secondo grado rigettò l’istanza così come fece la Corte di Cassazione, entrambi i giudici motivando con la constatazione che Mauro era stato ”indagato” (sottoposto ad indagini) ma non “imputato” (formalmente incriminato) e quindi non c’era incompatibilità con la veste di testimone. Poco tempo dopo, la Corte Costituzionale ha definitivamente chiarito che le posizioni di indagato e di imputato vanno equiparate.
Sottigliezze giuridiche. La sostanza è che per lo stesso fatto sono stati usati due pesi e due misure. Un elemento che da solo potrebbe bastare a raggiungere lo scopo finale della difesa di Perruzza, ovvero “revisione” del processo principale per il quale sono necessari «fatti in contrasto tra di loro».
Il contrasto, ha fatto notare la difesa del muratore, è evidente. Così come è evidente, ha detto l’avvocato Cecchini, che «l’articolo 210 è il quarto nascondiglio di questo diabolico ragazzino che prima ha inventato di essersi nascosto dietro una cabina Enel-Sip dalla quale non si scorge la scena del delitto; poi dietro un improbabile cespuglio, quindi dietro un capanno dove, all’ora da lui indicata, è ormai notte e non si vede nulla come questa difesa riuscirà a provare. Oggi Mauro - ha concluso Cecchini- ha invocato il diritto di mentire».
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