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Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 54

Un saggio di Angelo De Nicola

Presunto innocente



54. UNA TRAGEDIA, UN CASO GIUDIZIARIO
30. 1. 1992



«L'assassino ha 13 anni». Nasce con questo titolo, “sparato” sulla prima pagina di tutti i giornali, il 27 agosto 1990, il caso giudiziario del “mostro di Balsorano”.
Una serie di circostanze e concomitanze, oggettive e non, hanno generato una vicenda che continua a tenere banco non soltanto sui mass media nazionali ma soprattutto nelle discussioni della gente su chi ha ucciso Cristina: il padre o il figlio?
Si diceva di circostanze oggettive e non. E' la fine dell'estate del 90, a qualche giorno dal divampare del “giallo di via Poma” a Roma, vicenda a sfondo sessuale. I mass media riscoprono il morboso interesse dell'opinione pubblica per la cronaca nera.
Su un terreno già “concimato”, si scopre l'assassinio di una bambina di 7 anni, in uno sperduto paesino d'Abruzzo.
Secondo le prime ricostruzioni degli inquirenti la piccola è stata violentata e massacrata a colpi di pietra da un “mostro”. Questi due ultimi particolari risulteranno di lì a poco completamente falsi, ma nessuno li dimenticherà.
Nel frattempo, nella tarda serata del 26 agosto, arriva come un fulmine a ciel sereno la confessione del cuginetto tredicenne della piccola che viene subito e frettolosamente presentata come «la soluzione del caso». Il ragazzino di lì a poche ore ritratterà, ma i giornali sono già in stampa: il disperato appello di uno degli inquirenti («Fermate i giornali») arriva alle tre di notte, troppo tardi.
Alla fretta ed agli errori, in parte giustificabili se si ripensa al clima di indagini a tappeto che non riuscivano a venire a capo di un delitto dalla vastissima eco, si è poi aggiunta la drammatica necessità di sperimentare nella pratica gli strumenti del nuovo codice di procedura penale. Una circostanza oggettiva che ha finito col creare notevoli difficoltà: era il primo dibattimento in Italia di grosso rilievo interamente assoggettato alla nuova normativa. Ed un processo necessariamente “sperimentale”, di fronte ad una possibile tremenda condanna al carcere senza speranza, non poteva che sollevare perplessità, polemiche, dubbi.
Il dubbio, appunto. Il dubbio padre-figlio che nasce quella mattina del 27 agosto, nonostante le indagini e due gradi di giudizio, resta e forse resterà per sempre. Anche perché le circostanze (oggettive e non) hanno generato una situazione processuale paradossale: che cioè esistono due versioni, una “verità” che individua nel padre l'assassino ed una “controverità” che invece individua il figlio, entrambe logiche e addentellate negli atti processuali. Come si è arrivati a creare questo “mostro”?
Molte le cause.
Primo: gli inquirenti si sono subito convinti che il figlio si era autoaccusato rendendosi eroe per salvare il padre; non ci furono così particolari verifiche della sua posizione. In sostanza, si sarebbe dovuto trovare le prove per escludere che l'assassino potesse essere stato il figlio. Invece, il Tribunale per i Minori ha archiviato il procedimento con la considerazione che erano stati raccolti a carico del padre numerosi e convergenti indizi prima tra l'altro che questi passassero al decisivo vaglio del dibattimento d'Assise.
Secondo: a sorpresa Perruzza cambia avvocati difensori. E' questo un punto nodale e che nemmeno lo strascico di un procedimento disciplinare è riuscito a chiarire in pieno. Agli avvocati Maccallini, che adombravano l'ipotesi che fosse stato il figlio ad uccidere la bambina, i Perruzza associano l'avvocato Casciere che poco prima era riuscito a far scagionare completamente il figlio nel procedimento davanti al Tribunale per i minori. I Maccallini, dovendo condividere la difesa con chi aveva «una diversa visione del processo», sono costretti a rimettere il mandato. Chi ha deciso quella « sterzata» alla strategia difensiva?.
Terzo: il processo di primo grado si è perciò rivelato fragile. Perruzza, infatti, non è stato difeso come si poteva perché uno dei suoi due avvocati non poteva percorrere la sola via alternativa per comprensibili ragioni: non poteva, infatti, accusare il figlio di Perruzza che lui stesso aveva in precedenza difeso. La difesa si è quindi “imbarcata” nell'ipotesi di una impraticabile “terza via”, in netto contrasto con la “verità” che «l'assassino è certamente in casa Perruzza» perché altrimenti il ragazzino non aveva motivo di confessare (o è stato lui, o ha visto il padre). E la cosa grave è che nessuno ha sollevato l'incompatibilità, quantomeno morale, del difensore: si sarebbe potuto salvare un grado di giudizio.
La rinnovata difesa, nel giudizio d'Appello, ha tentato di colmare le lacune precedenti trovando giudici attentissimi che non hanno esitato a vivisezionare la sentenza di primo grado, dicendo con un'ordinanza che allo stato degli atti non si poteva affibbiare l'ergastolo ad un uomo con le prove raccolte in primo grado.
Il lavoro paziente e coraggioso della difesa e della Corte, e la disponibilità mostrata dal rappresentante della Pubblica accusa, il sostituto Pg Antonio Palumbo (l'unico che ha ammesso che moralmente l'avvocato Casciere non avrebbe dovuto accettare l'incarico), hanno portato ad un altro risultato paradossale: da una parte sono aumentati i dubbi, dall'altra sono emerse maggiori “prove” processuali contro Perruzza.
Processualmente sono infatti macigni contro Perruzza la testimonianza in aula del figlio, le cui dichiarazioni si sono rivelate compatibili con l'esito del sopralluogo e con la superperizia.
Manca, insomma, la prova ”regina” : la confessione. Perruzza non ha mai voluto saperne di parlare, di raccontare quello che sa, anche se ha accettato che i suoi avvocati parlassero per lui. Ed è stato lui a scegliersi via via avvocati diversi e, certamente, strategie difensive. Dietro il silenzio di quest'uomo è forse seppellita la chiave dell'atroce dubbio sull'identità dell'assassino di Cristina, al di là di ogni verdetto.


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