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Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 42

Un saggio di Angelo De Nicola

Presunto innocente



42. LE PICCONATE DELLA DIFESA
23. 11. 1991



Dopo quanto s'è sentito ieri nell'aula della Corte d'Assise d'Appello dell'Aquila, in quel “cimitero” che è diventato Ridotti di Balsorano ora ci sono quattro croci. Una croce sulla piccola Cristina, la “Biancaneve” di 7 anni uccisa prima che potesse scoprire la vita; una croce su Michele Perruzza, il muratore condannato all'ergastolo il cui nome è già diventato per molti il sinonimo dell'”orco libidinoso”; una croce sul figlio tredicenne del muratore che comunque andranno le cose resterà sempre sospettato di essere il vero omicida ed una croce su un « sistema» che, pur vicinissimo alla soluzione, non riesce a sgomberare il campo dai dubbi.
E' questa la riflessione terribile suggerita dall'arringa del primo dei due difensori di Perruzza, l'avvocato Attilio Cecchini. Col suo intervento di complessive 6 ore, “don Attilio” è riuscito ad ipnotizzare il folto pubblico: ha disorientato la “truppa” dei giornalisti i quali, stavolta, per non disturbare hanno spento i telefonini; ha carpito la benevolenza del presidente della Corte Tarquini, notoriamente un “osso duro” («avvocato, quando parla lei il tempo passa velocemente»); ha fatto fare brutta figura ai legali di parte civile azzittendoli, su un particolare episodio, con un secco «documentatevi prima di interrompermi»; ha soprattutto smantellato i pilastri del “castello” delle prove contro l'imputato con la minuziosa “lettura degli atti”.
Un avvocato mostratosi affranto e amareggiato dal dover sollecitare di «mettere una pezza» alle «nefandezze di questo processo» chiedendo, se non l'imbarazzante annullamento, almeno la rinnovazione parziale del dibattimento, ovvero di riascoltare il figlio e metterlo “a confronto” col padre nel «disperato tentativo di arrivare a quella verità - ha urlato Cecchini - che emergerà e che dovrà certamente emergere per soddisfare tutti, soprattutto i genitori della bimba di cui noi siamo amici e non nemici, ma anche l'opinione pubblica che soffre arrovellandosi nel maledetto dubbio». Quel dubbio per Cecchini non c'è: «Quella sera, in direzione della morte, con Cristina andò il cuginetto e non lo zio».
Una demolizione “a picconate” come l'ha definita con una battuta in piena udienza il presidente Tarquini che, è figlia, ha spiegato Cecchini, «di quegli scrupoli che altri non si sono fatti», «della sofferenza che ha distrutto noi avvocati difensori», «della maledetta circostanza» che Perruzza in primo grado ha avuto una “diminuita difesa” per la nota questione dell'incompatibilità.
I due grandi “pilastri”. Il ragionamento “distruttivo” di Cecchini è partito dall'esame di altre due eccezioni di nullità che inficerebbero la sentenza di primo grado.
Primo: non poteva essere utilizzato ai fini della motivazione il decreto di archiviazione del Gip presso il Tribunale dei Minori del procedimento a carico del figlio di Perruzza. «Con un provvedimento provvisorio quale l'archiviazione - ha detto Cecchini -, suscettibile di riapertura oggi e nel futuro, è stata data la patente di estraneità proprio a chi si era autoaccusato del delitto. Lo stesso Pg Palumbo ha escluso l'utilizzabilità di questo atto, ma la Corte d'Assise lo ha pedissequamente fatto rifluire in sentenza».
Secondo: non poteva essere utilizzato il verbale di comparazione tra le mutande trovate macchiate di sangue, quelle prelevate in carcere (50 giorni dopo il fatto) a Perruzza e quelle del figlio minore. «In quel verbale, sarebbe stato espresso un giudizio d'identità dopo un confronto a cui è stata esclusa la presenza del difensore. E sull'appartenenza delle mutande a Perruzza, la sentenza fonda la condanna».
A questo punto, con un colpo di teatro, Cecchini ha mostrato alla Corte le tre mutande sotto sequestro: «Sono identiche, anche perché il numero della taglia varia da marca a marca. Eppoi, i due figli maggiori di Perruzza sono due giganti in confronto al padre: la taglia più piccola attribuita al minore sarebbe semmai del padre... ». Nulli questi atti, dovrebbe essere nulla anche la sentenza che su essi si fonda, ha concluso l'avvocato.
Le altre quattro prove. Anche senza questi due atti, avevano messo le mani avanti la Pubblica accusa e la parte civile, la sentenza resta sufficientemente motivata per altre quattro prove. Partendo da questo assunto, Cecchini ha cercato di smontare tali prove.
In sintesi.
La “superteste” : non è credibile Rosa Perruzza perché ha testimoniato dopo cinque mesi di aver sentito rientrare a casa Perruzza dicendo «Cristina e morta, Cristina è morta». «Ma come, Rosa Perruzza era la madre del primo sospettato e non dice subito quello che sa per far allontanare i sospetti dal suo ragazzo?».
Il movente: i due episodi raccolti dalla Accusa che dimostravano particolari attenzioni di Perruzza verso due quattordicenni, ha sostenuto l'avvocato, non dimostrano che Perruzza, sia pedofilo. «La sentenza parla di “tendenze pedofiliache”: tendenza non significa malattia».
L'alibi: non è vero che sia inconsistente. «Non si può dire che Perruzza è l'assassino perché non sia stato visto fino alle 22. E' una mera deduzione anche questa, non è una prova».
I capelli sulla canottiera del muratore: non ci sono elementi sicuri per affermare che le mutande macchiate di sangue vadano per forza collegate alla canottiera con sopra i capelli della bambina.
Il sasso. L'altro colpo di teatro Cecchini l'ha messo a segno mostrando il sasso di 13 chili sotto sequestro per sbugiardare le perizie e sostenere che non poteva essere usato per colpire, quattro volte, Cristina al capo. «Ma come è possibile, mi chiedo: si aveva il sasso a portata di mano come pure le mutande e nessuno ha pensato di vederli, per rendersi conto che quelle che si andavano dicendo erano fesserie?».
Perciò la richiesta di una nuova perizia. Oggi parlerà l'altro avvocato difensore, De Vita, quindi repliche e controrepliche e poi la Corte entrerà in camera di consiglio.


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