Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 34
Un saggio di Angelo De Nicola
34. LA SENTENZA: DAL DNA LA PROVA DELL'ERGASTOLO
12. 4. 1991
Il test sul Dna è stata la prova “regina” nel processo di primo grado per l'”omicidio di Balsorano”. Le analisi di laboratorio sulle tracce di sangue e su alcuni capelli sono state infatti decisive per giustificare la condanna all'ergastolo di Michele Perruzza.
Sono queste le “motivazioni” della sentenza di condanna al carcere a vita, emessa il 15 marzo scorso dalla Corte d'Assise dell'Aquila.
Nelle 35 pagine depositate in cancelleria l'altro giorno il presidente Antonio Villani ha spiegato perché la Corte ha fatto proprie le tesi dell'accusa. Il Pm Mario Pinelli aveva basato le sue accuse sulla perizia d'ufficio secondo la quale sugli indumenti dell'imputato erano stati trovati capelli (su una canottiera) e tracce di sangue (su un paio di mutande) appartenenti alla vittima.
Poiché «non possono sussistere dubbi sull'appartenenza all'imputato dei due indumenti», nelle motivazioni si legge che «la presenza dei capelli e del sangue della vittima su indumenti dell'imputato, non può significare altro che la sua implicazione, in termini di colpevolezza piena, nei delitti in cui si procede». Tanto più che i capelli rinvenuti sono risultati “strappati” e che la macchia sulle mutande non può che correlarsi ad un delitto a sfondo sessuale.
Ma il passaggio fondamentale è quello in cui la Corte dà piena validità al metodo di accertamento del Dna, denominato “Pcr”, usato dal perito d'ufficio (professor Dallapiccola).
Tale metodo che amplifica il Dna per poter eseguire i vari testi, è stato contestato dal consulente della difesa (professor Fiori consulente dell'accusa nel “caso di via Poma”) perché giudicato a livello internazionale «inaffidabile». Andrebbe usato, sostenne Fiori nel processo, per escludere la colpevolezza di un imputato non per provarla. Ed invece la Corte aquilana ha ritenuto il “Pcr” affidabile anche perché il Dna “amplificato” del sangue di Cristina è risultato assolutamente identico al Dna amplificato dei capelli prelevati al corpicino.
D'altra parte tutte le percentuali delle analisi sono state confermate dagli esami sul sangue, appartenente a Perruzza, trovato su un fazzoletto sequestrato con altri indumenti.
A tali analisi, definiti «gravissimi elementi di colpevolezza», la Corte ha poi collegato il fatto che Perruzza non ha un alibi all'ora del delitto; che sono inattendibili le testimonianze di sua moglie Maria Giuseppa Capoccitti e del figlio tredicenne perché i due non hanno saputo spiegare le contraddizioni tra le prime dichiarazioni di accusa rese al Pm e la ritrattazione in aula; che è invece credibile la “superteste” Rosa Perruzza, la quale seppure a distanza di cinque mesi dal fatto ha raccontato di aver visto il muratore rientrare quella sera a casa e dire «Cristina è morta»; che alcuni episodi precedenti hanno documentato le tendenze pedofile dell'imputato e che, infine, il processo ha decisamente escluso le “strade” alternative ipotizzate dalla difesa, ed in particolare quella lanciava dubbi sulla posizione di Dino Capoccitti, in un primo momento tra i sospettati.
E va esclusa anche l'ipotesi che possa esser stato il figlio tredicenne che a principio si autoaccusò: «Dalle deposizioni dei numerosi testi escussi, dall'esame delle parti e dalle altre risultanze processuali non sono emersi elementi che possano, in qualche modo, collegare il minore col delitto».
Tanto più che per il minore venne disposta dal Gip del Tribunale dei Minori l'archiviazione del processo aperto a suo carico dopo l'autoaccusa, per non aver commesso il fatto.
Anche nel processo d'Appello, dunque, lo scontro fondamentale si preannuncia sulle perizie.
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