Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 117
Un saggio di Angelo De Nicola
117. BALSORANO, PERRUZZA MUORE IN CELLA
24. 1. 2003
Un infarto in cella, a Rebibbia. In attesa che l'autopsia, prevista per oggi, fughi i residui dubbi, questa sarebbe la causa della morte di Michele Perruzza.
Dunque il cuore, in un fisico malandato e colpito da un ictus che all'inizio lo aveva pure semiparalizzato, avrebbe tradito il protagonista di un caso giudiziario che ha spaccato l'opinione pubblica alla luce soprattutto dell'iniziale confessione fatta dal figlio, all'epoca tredicenne, che subito dopo il delitto accusò il padre. Finito in carcere all'alba del 26 agosto 1990.
«Gli sono mancate le forze per resistere al supplizio dell'attesa di un altro processo» ha dichiarato l'avvocato Attilio Cecchini, il legale che insieme con i colleghi Antonio De Vita e Carlo Maccallini da anni difende il muratore (gratis, «perché è un impegno civile»).
Per Cecchini non è finita: «Ci batteremo perché la memoria di Perruzza sia riscattata da una sentenza infame. Stiamo preparando un secondo processo “satellite”, davanti al Tribunale di Sulmona, che si terrà tra qualche giornio. Perruzza e la moglie sono accusati di calunnia da alcuni poliziotti nei confronti dei quali, in un precedente processo satellite, Michele sostenne di essere stato percosso in occasione dell'arresto e la moglie di essere stata costretta a sottoscrivere il verbale di accusa nei confronti del marito».
Nonostante la morte, il legale ritiene che la revisione del processo per l'omicidio della bambina sia ancora possibile, attraverso istanze dei congiunti.
Perruzza è morto gridando la sua innocenza. A raccontarlo al cronista è stato un infermiere volontario del 118 di Roma: «Verso mezzanotte di mercoledì -dice l’uomo al telefono presentandosi come Giorgio- sono intervenuto con l'ambulanza presso il carcere di Rebibbia. Un detenuto, un ergastolano ci è stato detto, era morente; pare per problemi al cuore ma non ne so di più. Poco prima di arrivare all'ospedale “Sandro Pertini”, dentro l'ambulanza l'uomo ci ha detto: “Dite a tutti che non sono stato io”. Non ha parlato più e, nemmeno il tempo di arrivare al pronto soccorso, è spirato. Solo l'indomani ho saputo dai telegiornali che si trattava di Michele Perruzza del quale avevo solo sentito parlare. Non potevo tenermi dentro quello che ho sentito: avevo, verso quella persona, un obbligo morale».
Come aveva sempre ripetuto per dodici lunghi anni, dunque, il muratore di Balsorano condannato all'ergastolo con sentenza definitiva per l'omicidio della nipotina Cristina Capoccitti, è rimasto coerente: «'Ggnaje state je», a cui aveva aggiunto, ma solo dopo il processo di primo grado durante il quale scelse invece il silenzio, un allusivo «Non accuserò mai il sangue del mio sangue».
Ultime parole («Dite a tutti che non sono stato io») in punto di morte che appaiono quale il più intricato finale di un mistero che non poteva avere peggiore conclusione: “morte del reo”. E che, a meno di sorprese a questo punto improbabili anche se la difesa ha annunciato di non voler mollare, rischiano di mettere una pietra sul caso nonostante, per molti, il conclamato pedofilo Perruzza sia morto da sospettato innocente.
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