Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 95
Un saggio di Angelo De Nicola
95.«LA MIA BATTAGLIA PER PERRUZZA»
27. 2. 1998
«Il sistema deve avere il coraggio di ammettere l’errore giudiziario che, d'altra parte, è connaturato nel processo penale che è un procedimento lungo, fatto dagli uomini che, appunto, sbagliano. Michele Perruzza, un innocente condannato all’ergastolo, non chiede vendette. Chiede che la giustizia, dal suo interno, ammettendo l’errore, faccia giustizia».
L’avvocato Attilio Cecchini, leader del collegio difensivo che assiste (gratis ed autotassandosi) Michele, scandisce le parole con gli occhi socchiusi seduto sulla poltrona del salotto della sua casa nel centro dell’Aquila dove sta lottando contro l’influenza.
Strano destino il suo. Da giovane, in Venezuela, combattè, come giornalista, per difendere gli oppressi. Oggi, al culmine di una carriera di avvocato che gli ha garantito il titolo di “maestro”, combatte per difendere dall’ergastolo un muratore di Balsorano: «Salvare Perruzza ormai è la sua vita» dicono di lui i colleghi e gli amici.
Avvocato, davvero il caso Perruzza è diventata la sua vita?
«Sì. È una battaglia di civiltà».
Lei dice di essere sicuro della innocenza del muratore. Quando se ne è convinto?
«Il collega e amico Mario Maccallini, padre del mio co-difensore Carlo, quando a principio assisteva Perruzza mi parlò del caso e della sua convinzione che l’autore del delitto fosse il figlio di Perruzza. Mi incuriosii, ma la cosa finì lì. Anni dopo, furono gli stessi avvocati Maccallini ad avvertirmi che Perruzza aveva intenzione di nominarmi difensore insieme con collega Antonio De Vita. Non volevo accettare».
Perché?
«Mi ripugnava difendere il mostro di Balsorano, ovvero una persona accusata e condannata in primo grado all'ergastolo di un reato così turpe. Chiesi tempo. Per un mese feci uno studio profondo degli atti. E più andavo avanti e più mi sorprendevo e mi insospettivo che la situazione, sia nelle indagini che nel processo, fosse stata forzata. Che si fosse, in sostanza, scatenata una sorta di caccia alle streghe contro Michele. Alla fine, accettai».
S’era, dunque, convinto della innocenza di Perruzza?
«Non ancora. Avevo però intravisto quegli spiragli di dubbio che impongono ad un avvocato di battersi. Dubbi che mi venivano tutti dalla ricostruzione di quella maledetta notte tra il 26 ed il 27 agosto 1990. La verità è tutta in quella notte: nel tardo pomeriggio, l’allora capo della Squadra mobile dell’Aquila, Pasqualino Cerasoli, al quale va dato atto di una grande intuizione, capì che Mauro aveva come voglia di parlare. Il ragazzo fu accompagnato alla caserma di Balsorano dove rese piena confessione. Il magistrato disse: il caso è chiuso. Sottratto il ragazzo al linciaggio della folla, lo si portò ad Avezzano, negli uffici della Procura, per ”consegnarlo” al magistrato minorile diventato competente. Ma il ragazzo cambia versione ed accusa il padre. Eccolo lo snodo di tutta la vicenda».
Lo snodo?
«Perché si decide di concentrare le indagini tutte su Michele chiudendo di fatto l'indagine che la magistratura minorile poteva portare avanti, autonomamente? Perché ci si è accontentati della “deduzione” di un ragazzo di tredici anni che pure aveva reso piena confessione, terrorizzato dalla minaccia addirittura di essere lapidato dalla folla? Perché non s’è voluta sondare questa strada alternativa, parallelamente, arrivando all’archiviazione del procedimento contro Mauro soltanto sulla base delle risultanze dell’inchiesta contro il padre? Perché? Perdiana, perché? Ecco il peccato originale del caso Perruzza».
Sì, ma quando s’è convinto dell’innocenza di Michele?
«Accettato l'incarico, col collega De Vita decidemmo di andare in carcere “a conoscere questo mostro”. Lungo il viaggio per raggiungere il carcere di Spoleto, fatta la conoscenza dello squisito collega De Vita, ci scambiammo le nostre opinioni. Lui era riuscito a far assolvere il famoso portiere Pietrino Vanacore accusato del delitto di via Poma ed era diventato un superesperto sul Dna. De Vita insisteva sulla inconsistenza delle perizie di primo grado. Entrammo nel corridoio del parlatoio. Ci venne incontro un ometto sventolando le sue mani per aria: “Queste mani- ci disse- non hanno ucciso Cristina. Io ho le mani piccole. Non posso essere stato io”. Questa scena mi torna spesso in mente nelle mie notti insonni e, tutt’oggi, mi viene il magone nel raccontarla».
Una semplice frase per convincerla. Un po’ poco...
«Non un frase, ma un atteggiamento che ha finito col provocare anche un duro scontro con Perruzza del quale, oggi, debbo chiedergli scusa. Lui ha sempre detto di non essere stato. Non ha mai voluto accusare il figlio. In una pausa del processo di secondo grado persi le staffe ed alzai la voce contro di lui: “Lo vede, è stato suo figlio, signor Perruzza parli”. Mi rispose imperturbabile: “Non accuserò mai il sangue del mio sangue. Io non sono stato, ma nemmeno ho visto Mauro uccidere Cristina”».
Di fronte a questo coerente atteggiamento di Michele, come si spiega lei questo accanimento contro di lui? Come si spiega lei i fuochi d’artificio a Case Castella dopo la condanna all’ergastolo?
«Quei fuochi d’artificio, come in un rito dal sapore ancestrale, rappresentano la liberazione di un borgo che s’è sentito macchiato, violentato nell’onore. Un concetto non evoluto, non modernizzato, di onore dentro una comunità del profondo sud per la promiscuità del sangue, le faide tra le famiglie, il vivere chiuso, riservati. Ecco: un mondo medioevale. Bisognava “obbiettivizzare” questa vicenda. Bisognava guardarla, per capirla, con un altro paio di occhiali. Fin dall’inizio».
È troppo tardi per “obbiettivizzare” la vicenda?
«Forse no. Ma solo se la Giustizia ed i suoi palazzi vorranno ammettere di aver inforcato gli occhiali sbagliati».
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