Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 87
Un saggio di Angelo De Nicola
87. PERRUZZA, LA SPERANZA DI UN NUOVO PROCESSO
22. 1. 19982
«Mi hanno sputato in faccia per sette anni: ecco il mostro. E ora tutti mi coccolano. Lasciatemi in pace: non ci sto con la testa. Una sola cosa voglio dire: Mauro, per favore, ti imploro: dì tutto quello che sai».
Michele Perruzza in lacrime, l’altro ieri sembrava davvero un personaggio siloniano, «del tutto in sintonia -per stare al paragone caro ad uno dei legali del muratore, l’avvocato Attilio Cecchini - con la tradizione marsicana ed abruzzese del cafone che, bistrattato e vilipeso, quasi ”ucciso”, alla fine si prende la sua rivincita».
Come nel “Segreto di Luca”. Ormai Michele ha in tasca la speranza di un nuovo processo: la richiesta di revisione, dopo l’ultimo atto di stamani, appare cosa fatta.
Un'amara rivincita “siloniana”. Vissuta ed intrecciatasi, come nelle storie dello scrittore di Fontamara, su tre particolari apparentemente insignificanti ma che, dopo un’attenta rilettura dei fatti, hanno determinato un cataclisma. Ovvero: un processo-satellite, un’auto ed un paio di slip.
Il processo-satellite. Tale doveva essere il procedimento davanti al Tribunale di Sulmona, rispetto a quello principale. Un processo nato forse per sbaglio e che «per due volte s’è tentato -come accusava la difesa- di ghigliottinare».
Cinque anni fa, la Procura di Avezzano avviò un procedimento contro Perruzza e sua moglie perché durante una testimonianza Mauro raccontò di essersi autoaccusato del delitto in quanto costretto dai genitori. Di qui l’accusa di istigazione all'autocalunnia: un reato.
Ma prima il Tribunale di Avezzano e poi quello dell’Aquila decisero di prosciogliere i coniugi senza dibattimento. Una soluzione che per ben due volte la Cassazione ha bocciato, rinviando infine gli atti al Tribunale di Sulmona, ultima speranza per il muratore. Così è stato. Datagli la possibilità di rivisitare la vicenda, udienza dopo udienza, la difesa ha demolito i pilastri dell’impianto accusatorio contro Perruzza.
Passaggio fondamentale per poter chiedere la “revisione” del processo principale.
Una strada difficilissima, per la quale è necessario un ”giudicato contrastante”, cioè una sentenza con motivazioni contrarie a quelle che sorreggono la condanna all’ergastolo.
L’auto. Mauro, nella testimonianza in Corte d’Assise d’Appello risultata poi decisiva per la condanna all’ergastolo del padre, fornì l’ennesima versione e citò un particolare: aveva visto scendere un’auto lungo la strada che costeggia il luogo del delitto. «Io ho visto una Renault bianca - disse il ragazzo- se vi può aiutare per gli orari; l’auto è di Stefano, il marito di Lorenza, il cognome non lo ricordo».
Quel testimone disse che era davvero passato lungo quei tornanti intorno alle 20,40. La perizia disposta dal Tribunale di Sulmona ha dimostrato che all’ora del delitto (tra le 20,30 e le 20,45) dal capanno descritto da Mauro non si vede né la scena del delitto né la strada perché è buio. «Mauro, dunque, non solo non ha detto la verità - spiega uno degli avvocati di Perruzza, Carlo Maccallini - ma in quella sua testimonianza pilotata ha anche cercato di coprire se stesso. Perché l’auto non si poteva vedere dal capanno ma era ben visibile dal luogo del delitto. Lui era lì e da lì ha visto l’auto».
E proprio il particolare dell’auto ha convinto Michele della colpevolezza del figlio. Il muratore aveva sempre detto: «Non sono stato io, non so nulla», senza mai puntare l’indice sul figlio.
Poi, quando il ragazzo tirò fuori la versione del capanno, Perruzza in carcere confidò ai difensori che allora era stato davvero suo figlio perché anche lui ricordò di aver visto quella sera la stessa Renault mentre, sul balcone di casa, fumava una sigaretta.
Un paio di slip. È il clamoroso colpo di scena arrivato dopo la “roulette russa” della difesa di Perruzza. Nel senso che la difesa poteva evitare questa prova del fuoco ma l’ha fatto, ha detto, «per arrivare alla verità».
Il giorno dopo l’arresto di Michele, durante una perquisizione in casa Perruzza, in un sottotetto corrispondente alla finestra del bagno, venne trovato un paio di slip, come gettato da qualcuno che aveva fretta di cambiarsi. Su quegli slip è stata trovata una macchia di sangue che, ad una perizia sul Dna, è risultato appartenente alla piccola Cristina.
Quegli slip vennero ritenuti appartenenti a Perruzza perché, a distanza di trenta giorni dall’arresto, in una perquisizione in carcere, il muratore ne indossava un paio identico, per marca, tipo e taglia, a quello “incriminato”. Nessuno pensò a chiedere una perizia del Dna anche sulle evidenti tracce di liquido organico presenti sull’indumento.
Dopo sette anni, dall’archivio dei “corpi di reato” della Corte d’Assise, la difesa ha riesumato proprio quello slip, sostenendo che poteva essere di Mauro, che all’epoca era già sviluppato e visto che in casa Perruzza padre e figlio avevano l’abitudine di scambiarsi la biancheria intima prendendo quella pulita dallo stesso cassetto.
Ebbene, due superesperti sono stati categorici. Otto delle nove tracce di liquidi organici utilizzabili danno un risultato univoco: non c’è compatibilità nelle ”sequenze” del Dna, peraltro assai simili come accade tra un padre ed un figlio.
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