Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 83
Un saggio di Angelo De Nicola
83. DUE PERIZIE PER RISOLVERE IL GIALLO
2. 7. 1997
Non è un caso, forse, che la definitiva soluzione del giallo del delitto di Balsorano sia affidata ad un paio di mutande. Un paio di slip “sporchi”, rinvenuto in un sottotetto ma soprattutto trovati macchiati di sangue (risultato, alla prova del Dna, appartenente alla piccola vittima Cristina Capoccitti), che sarà riesumato dall’archivio del Tribunale dell’Aquila dove erano destinati a restare per sempre vista la condanna all’ergastolo (diventata definitiva dopo tre gradi di giudizio), subita da Michele Perruzza.
Alla luce della richiesta di acquisire il “reperto n. 27/99”, appare scontato che il Tribunale di Sulmona disporrà una nuova perizia per studiare, con le sofisticate tecniche della ricerca del Dna, le tracce di liquidi organici presenti su quell’indumento intimo e stabilirne l’appartenenza.
Se cioè erano di Michele (come ha sostenuto l’accusa nel processo principale) o di suo figlio Mauro (come sostiene la difesa del muratore).
Il passaggio è nodale.
Ieri, infatti, il Tribunale peligno (Bonavitacola presidente, Conti e Mancini giudici) ha sostanzialmente accolto un’altra richiesta della difesa di Perruzza (avvocati Attilio Cecchini, Antonio De Vita e Carlo Maccallini): verrà fatta una nuova perizia per stabilire se dal luogo ed all’ora indicati da Mauro nella sua testimonianza davanti alla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila (risultata poi decisiva per la condanna del padre) si vedeva la scena del delitto.
Invece che fare un sopralluogo come aveva richiesto la difesa, il Tribunale ha deciso che alla stessa ora e nello stesso giorno (il prossimo 23 agosto) del delitto che avvenne sette anni fa, due esperti probabilmente dell’Aeronautica militare valuteranno se dal famoso capanno indicato da Mauro è visibile il luogo del delitto.
In un analogo esperimento, visionato ieri in aula perché fu registrato da RaiTre e dall’emittente Tvq, fatto da Gennaro De Stefano (il free-lance leader degli innocentisti) il 22 agosto del 1992 («Un giorno prima dell’anniversario, per rispetto alla morte della bambina, ed una settimana prima del mio arresto per possesso di droga» ha commentato ieri il giornalista) dal capanno non si vedeva nulla perché, a quell’ora di fine agosto, è ormai buio.
Facilmente comprensibile è l’importanza delle due perizie. Al di là, dei tanti fatti e fattarelli (alcuni, peraltro, maleodoranti) che la difesa di Perruzza sta facendo emergere in questo processo- satellite, a Perruzza servono prove di segno opposto a che quelle che finora lo hanno fatto condannare all’ergastolo.
Se davvero gli slip non risultato appartenenti al muratore e se davvero nell’ora indicata da Mauro dal capanno non si può vedere la scena del delitto, allora crollerebbe in particolare l’accusa per Perruzza e la moglie di aver istigato il figlio ad autoaccusarsi dell’omicidio (l’accusa per la quale si sta facendo il processo a Sulmona) ma, più in generale, crollerebbe l’attendibilità del teste- chiave contro il padre che è, appunto, il figlio.
Con la conseguenza che la difesa di Perruzza potrebbe tentare la revisione del processo principale.
Dunque, con le decisione di fare due nuove perizie una delle quali, quella sugli slip, non c’entra nulla con l’oggetto della causa (aver istigato il figlio ad autoaccusarsi), quello davanti al Tribunale di Sulmona è ormai diventato un processo al processo.
Tanto è vero che, ieri, sono stati quasi “processati” anche alcuni dei principali investigatori che condussero le indagini sul caso.
Con coraggio, il vicequestore Giuseppe Bartoli (allora dirigente del commissariato di Avezzano) e l’ispettore Salvatore Cossu (capo della sezione di Pg dello stesso Commissariato) pur potendo avvalersi della facoltà di non rispondere, hanno scelto la strada di testimoniare, sottoponendosi al fuoco degli avvocati (definiti, ieri, «inferociti» da Bonavitacola).
Hanno cercato di rispondere a tutte le “inferocite” domande.
Così come hanno cercato di rispondere ad ogni domanda anche il vicequestore Pasqualino Cerasoli (allora Capo della Squadra mobile dell’Aquila) e l’ispettore Pietro Di Giamberardino (attualmente sospeso dopo la condanna in primo grado a 6 anni e 8 mesi con l’accusa di aver fatto mettere della droga nell’auto di De Stefano, il quale venne poi scagionato *).
I quattro, spesso, si sono contraddetti tra loro. Né hanno chiarito perché i nastri delle registrazioni (che s’è scoperto sono addirittura tre) oggi non si trovano. Ma su un punto sono stati tutti concordi e lo hanno ribadito più volte: che loro non agivano autonomamente perché le indagini erano coordinate dal magistrato titolare del caso, il sostituto procuratore Mario Pinelli.
* N. D. A. : la condanna è stata poi confermata dalla Cassazione diventando esecutiva. Di Giamberardino è tornato in libertà nel marzo 2003 con l'affidamento ai servizi sociali. L'ispettore si è sempre dichiarato innocente e spera nella revisione del processo.
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