Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 63
Un saggio di Angelo De Nicola
63. PERRUZZA, ULTIMA SPERANZA
27. 9. 1992
A volte anche un'intervista mancata può diventare una notizia, importante e significativa. «Il detenuto Perruzza Michele condannato all'ergastolo non è idoneo per sostenere un colloquio in carcere con un giornalista»: questa, nel freddo linguaggio ministeriale dell’”Ufficio centrale detenuti”, è stata la risposta alla richiesta ufficiale del cronista di poter intervistare il presunto “mostro” di Balsorano. Di potergli rivolgere alcune domande. Di invitarlo ad uscire dal suo coerente, testardo, mutismo. Di spiegare cosa veramente accadde quella sera del 23 agosto 1990 in quel boschetto di more a Case Castella lì dove oggi c’è un tempietto a ricordo di Cristina Capoccitti. Di sfogarsi alla vigilia del decisivo processo davanti alla Corte di Cassazione che domani deciderà se concedergli ancora speranze.
No, non è possibile. Il detenuto «non partecipa alle attività riabilitative del carcere di Spoleto - ha spiegato al telefono una gentile funzionaria del ministero di Grazia e Giustizia-, è in isolamento volontario, refrattario a qualsiasi sollecitazione. Questo aspetto emerso dalla nostra istruttoria avviata dalla richiesta del cronista, osta in maniera decisiva all'accoglimento».
Niente da fare. Uno “scoop” mancato? Può darsi. Ma forse sarebbe stato molto più utile dei tanti scoop (o presunti tali) che hanno costellato la vicenda legata al “delitto di Balsorano” a volte trasformandola per forza in un giallo, in una telenovela, in una piccola “Twin Peaks”. In barba, spesso, ai due bambini che ne sono stati sfortunati protagonisti. Una vicenda che per motivi ancora da studiare, è “stata” sui mass media forse più di ogni altro fatto: soltanto sulle edizioni abruzzesi dei quotidiani (senza contare settimanali, periodici, servizi televisivi, ecc.) il delitto di Balsorano ha finora occupato, quasi sempre le prime pagine, per ben 131 giorni. Ossia una media di un articolo ogni sei giorni per due anni. Un record forse dovuto a questo drammatico dubbio («L'assassino è il padre o il figlio?») che a tutt'oggi, nonostante due processi e due ergastoli, non è stato ancora fugato.
Se questa vicenda guadagnerà ancora le prime pagine, lo deciderà la Corte di Cassazione ed il suo presidente, il notissimo giudice “ammazzasentenze” Corrado Carnevale, davanti al quale si terrà il terzo, ultimo, grado di giudizio previsto dal codice.
Domani, a Roma, la prima sezione penale discuterà otto cause, tra cui quella di Perruzza. Niente imputato; niente testimoni; niente parenti; il rappresentante dell'Accusa e gli avvocati di parte civile e difesa invitati a restringere i loro interventi in poco più di un quarto d'ora.
Detto così sembrerebbe un pro-forma. Ed invece è il momento più sacro della Giustizia: quello nel quale si valuta se è stato applicato o meno correttamente in tutti i vari passaggi del procedimento, il diritto.
Per la difesa del muratore, gli avvocati Attilio Cecchini ed Antonio De Vita, il procedimento è stato costellato da varie «nullità insanabili» che giustificano la richiesta di “cassare” (cioè cancellare) la condanna. Nulla sarebbe secondo i due legali addirittura la sentenza di primo grado. Da qui, da questo primo processo si dovrebbe ripartire secondo i legali per garantire «un processo giusto e non un'ordalia» a Perruzza.
Semplificando i complicati “motivi di ricorso in Cassazione” (111 fittissime pagine), la difesa sostiene che Perruzza in primo grado non è stato difeso a dovere. Il muratore fu assistito dall'avvocato Leonardo Casciere che oltre a tentare di seguire un'impossibile “terza via”» («l'assassino di Cristina è fuori da casa Perruzza») si sarebbe trovato in una posizione di insanabile incompatibilità.
Casciere, in precedenza, aveva assistito e fatto prosciogliere il figlio tredicenne del muratore nel procedimento aperto dalla Procura per i Minori. Successivamente, la moglie di Perruzza, lo sfuggente personaggio-chiave di tutta la vicenda, Maria Giuseppa Capoccitti, decise di affiancare agli avvocati Maccallini, nella difesa del marito, lo stesso Casciere. La scelta provocò la rinuncia dei Maccallini, la cui linea difensiva tendeva a gettare le responsabilità sul figlio.
In questo momento, secondo la nuova difesa, la sorte di Perruzza era già segnata perché, si legge nei motivi, in particolare nell'interrogatorio in aula del minore, «il doveroso impegno in difesa di Michele di conseguire da Mauro la verità, fu neutralizzato dall'altrettanto impellente dovere giuridico di tutelare Mauro dal pericolo del suo coinvolgimento nella vicenda. Sicché dovette abdicare al dovere di difesa del patrocinato, il quale rimase carente di presidio nella circostanza più drammatica del processo».
Difesa minorata, procedimento ingiusto, processo da rifare, vicenda da riaprire per poter sondare l'unica alternativa: Mauro.
Quella dell'incompatibilità appare la miglior carta della difesa che insiste anche su tutti gli altri, controversi, aspetti del processo. In particolare la scomparsa di un'audiocassetta con le accuse di Mauro; la nullità delle dichiarazioni della superteste Rosa Perruzza; l'inutilizzabilità di alcuni interrogatori, i dubbi sulla posizione giuridica del minore (testimone o co-indagato per lo stesso fatto?).
«Non ho paura di niente» ha detto Perruzza alla vigilia del momento più difficile.
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