Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 52
Un saggio di Angelo De Nicola
52. CHIESTO L’ERGASTOLO-BIS
28. 1. 1992
Verità e controverità a confrontarsi e ad intrecciarsi. Scambi di pesanti accuse tra le controparti. Attacco feroce dell’Accusa alla stampa («E’ stata l’eco della difesa, cavalcando la tesi innocentista»), difesa d'ufficio dell’avvocato Cecchini dei giornalisti («Si sono arrovellati come noi, su questo caso con grande senso di responsabilità»).
Anche l’ottava udienza dell’estenuante processo d’Appello a Michele Perruzza davanti alla Corte d’Assise dell’Aquila, apertosi oltre due mesi fa, è stata intensissima. E non solo perché il Sostituto procuratore generale (Pg), Antonio Palumbo, ha concluso la sua requisitoria con la richiesta della conferma dell’ergastolo (con l’appoggio dei due legali di parte civile Paris e Milo), o perché il Pg ha chiesto la trasmissione degli atti per incriminare la moglie del muratore d’aver istigato il figlio ad autocalunniarsi, cioè ad autoaccusarsi del delitto.
L’udienza di ieri è stata la fotografia di tutto il dramma del caso Perruzza: esiste una verità processuale logica e addentellata negli atti di causa che individua nel muratore l’assassino, ma esiste anche una controverità, altrettanto logica, che individua il figlio.
Al dubbio che aleggiava già in primo grado, si sono poi aggiunti due fattori fondamentali: la testimonianza in aula del figlio Mauro avvalorata dal sopralluogo della Corte a Case Castella che supportano la “verità”; il salto mortale riuscito alla difesa Cecchini-De Vita.
Sulla testimonianza di Mauro in aula, ieri hanno puntato tutto il loro intervento sia il Pg che la parte civile.
Il “teorema Palumbo” è questo: Mauro ha detto la verità, anzi è risultato un teste attendibile: sia alla luce della successiva superperizia Merli che ha confermato il particolare fornito dal ragazzino dell’uccisione con due mani, una sulla bocca ed una a stringere sul collo; sia alla luce del sopralluogo della Corte la quale ha potuto rendersi conto coi propri occhi, che dal capanno descritto da Mauro si poteva vedere il ciglio del muricciolo dove, secondo il minore, il padre uccise Cristina.
Questi due atti, «e la Giustizia si fa sugli atti- ha detto Palumbo- e non sui giornali», secondo il Pg vanno a sommarsi alla sentenza di primo grado che è «fondatissima, anche se presenta una sbavatura ed una pecca di fondo»: la prima, per aver sostenuto che il capo della bambina è stato sbattuto contro la pietra poi sequestrata (ipotesi smentita dalla superperizia); la seconda per non aver disposto subito, fin dal 27 agosto ’90, l’allontanamento dalla madre del minore.
In sostanza: le motivazioni di primo grado (la superteste Rosa Perruzza che quella sera sentì il muratore rientrare a casa e dire «Cristina è morta», le mutande trovate macchiate di sangue, la canottiera con i capelli strappati della bambina, i segni di una mano destra sul collo, le tendenze pedofiliache del muratore e la mancanza di alibi) più i dati obiettivi del processo d'Appello (testimonianza di Mauro, sopralluogo e superperizia) fanno la conferma dell’ergastolo.
«L’unica condanna che merita Perruzza- ha concluso Palumbo- e che può riabilitare il povero Mauro il quale, per cercare di salvare il padre, istigato dalla madre, è stato ripagato col marchio, forse a vita, dell’infamia... Perruzza ha ucciso due volte: una volta materialmente Cristina, una seconda moralmente suo figlio utilizzandolo per salvare se stesso».
La difesa ha subito tentato di smontare il “teorema Palumbo”. L’avvocato Attilio Cecchini ha contestato al Pg che la sentenza di primo grado non può essere un addendo.
«Siamo oggi in primo grado- ha urlato Cecchini- perché la prima sentenza è stata cancellata da questa Corte quando, con ordinanza, ha detto “di non poter decidere allo stato degli atti”».
Cecchini prima ha dimostrato la caduta di tutti i pilastri della prima sentenza: la mano sul collo non può essere identificata, le mutande di padre e figlio sequestrate sono della stessa misura, i colpi con la pietra al capo che non sono stati vibrati dopo la morte ma prima.
Successivamente “don Attilio” ha ribattuto punto per punto la ricostruzione della difesa: la superteste (sulla quale anche il presidente della Corte, Tarquini, ha mostrato con alcune ficcanti domande di avere seri dubbi) è inattendibile e, contrariamente a quanto ha sostenuto il Pg, contraddice invece di integrarsi con la testimonianza di Mauro; le dichiarazioni del minore rappresentano l’ennesima versione dei fatti e sono contraddittorie (non ha udito urlare la bambina ma ha sentito, a sessanta metri, il tonfo della pietra che cadeva); il sopralluogo non è veritiero; la mancanza di alibi deve essere provata dall’accusa visto che non c'è prova che Perruzza quella sera non fosse rimasto a casa.
In sostanza: la prima sentenza non fa fede e Mauro è inattendibile anche perché, ha detto Cecchini sfruttando un autogol del dottor Palumbo che aveva accennato alla sua passata esperienza di Pm minorile, «è vero che i minori confessano sempre...».
Per oggi è stata decisa una pausa (un giudice popolare non sta troppo bene: stress?).
Domani finirà di parlare Cecchini, quindi De Vita. Poi, la camera di consiglio in cui la Corte esaminerà anche la richiesta di incostituzionalità di una norma e/o di nullità del processo.
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