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Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 46

Un saggio di Angelo De Nicola

Presunto innocente



46. ALLA RICERCA DELLA VERITA'
25. 11. 1991



«L'assassino è in casa Perruzza: o il padre o il figlio». Resta questa l'unica “verità storica” del delitto di Balsorano. Dopo quanto è emerso durante le tre intensissime udienze davanti all Corte d'Assise d'Appello, per spiegare la tragica fine di Cristina Capoccitti ci si trova infatti di fronte a due “verità giudiziarie”.
La prima individua il “mostro” in Michele Perruzza e trova le sue spiegazioni logiche nelle motivazioni con la quali la Corte d'Assise d'Appello dell'Aquila ha condannato all'ergastolo il muratore.
In sintesi, i giudici di primo grado accogliendo in toto le tesi della Pubblica accusa (il sostituto procuratore della Repubblica di Avezzano Mario Pinelli che aveva condotto fin dalle prime ore le indagini sul caso) hanno fatto questo ragionamento: poiché le mutande trovate macchiate di sangue sono di Michele Perruzza e non del figlio che comunque è stato scagionato dal Gip del Tribunale dei Minori; poiché il muratore è un tendenziale pedofilo e non ha un alibi consistente nel momento del delitto ma anzi è stato sentito dalla dirimpettaia Rosa Perruzza rientrare a casa a quell'ora dicendo la compromettente frase «Cristina è morta»; e poiché, infine, è stato accusato dal figlio e dalla moglie le cui ritrattazioni non convincono, per questi motivi l'assassino e lui, Michele.
La seconda “verità giudiziaria” individua il colpevole nel figlio tredicenne del muratore, e trova le sue spiegazioni, anche'esse logiche, nelle tesi prospettate dalla difesa che non solo ha smantellato i principali pilastri della sentenza di primo grado ma è anche arrivata a prospettare una ricostruzione ancorata a dati oggettivi.
In sintesi, i difensori (avvocati Attilio Cecchini e Antonio De Vita) hanno fatto questo ragionamento: poiché non è dimostrabile che le mutande sono di Michele; poiché non è utilizzabile proceduralmente l'archiviazione del Gip dei Minori; poiché il muratore non è un pedofilo ed un alibi inconsistente non significa non averlo; poiché la dirimpettaia Rosa Perruzza è mendace, per questi motivi il colpevole è l'altro, Mauro. Conclusione alla quale i difensori sono arrivati mettendo insieme, con gli atti stessi del processo, una ricostruzione del fatto verosimile tanto quanto quella della Corte d'Assise.
Posti in mezzo tra le due “verità” e di fronte ad una condanna al carcere a vita che si presume fondata sul massimo del convincimento, i giudici di secondo grado hanno avuto il coraggio di porsi il dubbio.
Ma ora tocca arrivare alla “verità sostanziale” ed in tale senso preoccupa la tesi di alcuni operatori del diritto (tra cui il sostituto Procuratore generale Antonio Palumbo) secondo la quale «il nuovo processo spesso finisce più del vecchio con l'impedire il raggiungimento della sostanza perché è troppo attento alla forma».
Un esempio: l'atto dell'iniziale confessione del minore è stato visto e valutato dai due giudici della Corte d'Assise Villani e Como quando fecero parte del Tribunale della Libertà che giudicò sull'istanza di scarcerazione di Perruzza: quello stesso atto non potrà, anzi non dovrà, essere letto e quindi valutato dai giudici di secondo grado perché è stato compiuto dal Pubblico ministero e quindi nel dibattimento non può entrare. Un controsenso.
«Per cercare di far emergere la verità- diceva ieri l'avvocato Cecchini- abbiamo rischiato. Sì, abbiamo rischiato dicendo che si vedessero finalmente i corpi di reato sotto sequestro, ovvero le tre paia di mutande ed il famoso sasso. E' stato un rischio ma noi eravamo convinti, in base a quello che ci continuava a ripetere il nostro assistito, che erano state fatte alcune valutazioni al buio. I fatti ci hanno dato ragione: le tre mutande sono uguali e il sasso non è né “manovrabile” con una mano né può essere stato usato per colpire quattro volte al capo la povera Cristina. Eppure i primi avvocati, i Maccallini, avevano già individuato la via sollevando perplessità sul sasso e chiedendo un incidente probatorio per poter valutare l'esatta natura delle ferite al capo della bambina. Ma la richiesta venne negata. Non vedere prima quei fondamentali reperti, non valutarli, è stato un errore gravissimo».
Come pure, insiste Cecchini, un errore è stato non verificare la compatibilità della mano di Perruzza con le impronte delle dita lasciate sul collo della bambina, accertamento che è stato invece disposto dalla Corte d'Assise d'Appello nell'ordinanza: «Quando accettai l'incarico di difendere Perruzza- dice “don Attilio”- mi recai al carcere di Pesaro. Non conoscevo Perruzza. Quando ci si parò dinanzi la prima cosa che ci disse agitando la sua mano destra fu: “Questa mano non ha ucciso mia nipote”.
E' stato proprio Perruzza a suggerirci di insistere nel chiedere questo accertamento. Lo abbiamo chiesto a nostro rischio: se l'impronta corrisponde, Perruzza si è fregato con le sue stesse mani. Altrimenti emergerà l'errore di chi non ha sollecitato subito tale esame».
Gli errori, appunto. Ne sono stati commessi tanti. Un errore è stato quello di non far procedere parallelamente il procedimento contro il padre e quello contro il figlio (quest'ultimo davanti al Tribunale per i Minori che l'iniziale autoaccusa aveva fatto aprire): due inchieste avrebbero fatto meglio di una sola. Un errore è stato quello di non sollevare l'incompatibilità, se non tecnica, quantomeno morale del precedente avvocato di Perruzza ed impedire che non ci fosse un vero processo in primo grado. Un errore è stato addossare pubblicamente la colpa sul minore e successivamente definirlo, invece, un eroe.
Tanti, troppi errori, che rischiano di ingarbugliare per sempre la verità sostanziale negando giustizia, in primis, all'uccisione di una bambina di 7 anni.


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