Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 44
Un saggio di Angelo De Nicola
44. SMANTELLATA L'ACCUSA
24. 11. 1991
Altre “picconate” alle fondamenta del “castello” di prove della sentenza di primo grado hanno caratterizzato la terza udienza, ieri, del processo Perruzza davanti alla Corte d'Assise d'Appello dell'Aquila.
Le ultime, decisive, picconate che hanno concluso il suggestivo “piano” distruttivo dei due difensori che hanno puntato a ribaltare i ragionamenti logici con i quali la Corte di primo grado aveva motivato la condanna all'ergastolo. In una parola, ad ogni ragionamento della sentenza, la difesa ha fornito una versione dei fatti opposta, anch'essa apparentemente logica e supportata da numerosi elementi oggettivi.
Come se, nel processo ma anche nella vicenda, ci sia una versione logica che individua il colpevole in Michele Perruzza, ed un'altra versione altrettanto logica che invece lo individua nel figlio tredicenne del muratore.
Resta da chiedersi, di fronte alla inconfutabile “verità storica” che l'assassino o è l'uno o è l'altro, quale delle due versioni sia ancorata alla “verità sostanziale» e quale alla “verità processuale”.
Il secondo difensore del muratore, l'avvocato Antonio De Vita, ha cercato con la sua pacata arringa di smontare le perizie su Dna sulle macchie di sangue trovate sulle mutande ed i capelli rinvenuti sulla canottiera.
De Vita ha contestato, in particolare, il metodo attraverso il quale il perito d'ufficio (il genetista Bruno Dallapiccola), ha accertato che il sangue ed i capelli corrispondono all'esame del Dna a quelli di Cristina.
In sostanza, De Vita ha risposto ed ampliato (con una nuova “memoria”) le critiche che il perito della difesa, il medico legale Angelo Fiori, aveva già esposto in primo grado. Critiche, che a voler sintetizzare sugli intricatissimi aspetti tecnici, si possono ridurre alla considerazione che «il metodo della Pcr, scientificamente un procedimento geniale e portentoso, è ancora sperimentale e quindi non può servire per individuare l'identità ma soltanto, per ora, ad escluderla».
Su questo tema, il caso del delitto di Balsorano s'è andato ancora più intrecciando col “giallo di via Poma”. Due omicidi avvenuti a distanza di pochi giorni, in circostanze così diverse ma con la stessa difficoltà di ricorrere alla comparazione dei Dna.
Infatti il professor Fiori, è consulente della difesa nel caso Perruzza, d'ufficio nel caso di via Poma. E guarda caso l'avvocato De Vita è il legale che ha assistito e fatto scagionare il portiere Pietrino Vanacore, che era il principale sospettato di aver ucciso la segretaria Simonetta Cesaroni nell'ufficio di via Poma.
«Ho avuto il professor Fiori - ha detto De Vita - come avversario nel caso di via Poma, ma su certi punti è stato sempre coerente con se stesso: il metodo della Pcr non dà certezze e al massimo può essere usato per escludere, non per identificare. Ed in questo senso, Ridotti di Balsorano è un “enclave biologico” dove le “frequenze” del Dna possono avere affinità sbalorditive... Occorre risentire i periti su questi dubbi».
De Vita, insistendo sulla necessità che i giudici dovevano recarsi sul luogo del delitto per rendersi conto delle numerose incongruità nelle ricostruzione del delitto, ha concluso sostenendo che finora «si è assistito ad un'ordalia, non ad un giudizio. Un “linciaggio” selvaggio e pagano contro Michele Perruzza come avveniva in altri tempi».
La prova sarebbero stati i fuochi d'artificio: «Quale oscura violenza repressa può portare un'intera popolazione a celebrare la condanna a morte di un uomo?».
Ma “le picconate” più potenti, ieri l'ha tirate proprio il rappresentante della Pubblica accusa. Il Sostituto procuratore generale della Repubblica Antonio Palumbo, facendo appello ad una corretta morale (non sembra emersa in questa vicenda) dell'Accusa, nella sua breve “replica” ha fatto tre importantissime ammissioni.
La prima: «Sono rimasto lì per lì sconcertato - ha detto - dalla perfetta sovrapposizione delle tre mutande sotto sequestro». Un'ammissione che ha comunque cercato di smorzare arrampicandosi sugli specchi: «I ragazzi, oggi giorno, portano capi firmati. Guardate quelle mutande super usate, sgualcite, scucite. E' credibile che appartengano ad un ragazzo dei nostri tempi?».
La seconda: «Quando quella sera la piccola disse al padre “non ci cercate”, Cristina voleva sicuramente riferirsi a lei e agli altri ragazzini che giocavano con lei». E' un “autogol” che conferma la logicità della interpretazione della difesa secondo la quale dietro quel “ci” c'è una sorta di appuntamento tra la bambina ed il cuginetto, il figlio di Perruzza, col quale era stata a giocare fino a poco prima.
La terza: «Non mi oppongo a riascoltare il minore. Anzi che si faccia, finalmente. Che ci venga a dire questo ragazzo se è stato lui o è stato il padre e si chiariscano tutti i dubbi. Ebbene, giudici, solo se avete dei dubbi, l'unico mezzo per scongiurarli è riascoltare questo ragazzo». Ammissioni “amplificate” dalla considerazione che «l'assassino è certamente in casa Perruzza» ma smorzata dall'affermazione che «è comunque sospetto il fatto che Perruzza non ha mai avuto il coraggio di dire la verità, di indicare il responsabile».
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