La Missione di Celestino - Capitolo 17
Un romanzo di Angelo De Nicola
«Questo mausoleo è davvero imponente!- esclamò il signor Giacomo appena arrivati nella navata destra della basilica di fronte alla tomba di Celestino V- Mi chiedo perché la lapide funebre sia stata collocata nella parte retrostante. E’ in latino? Che dice?».
«In latino e scritta con l’uso di lettere dentro ad altre lettere. L’ho letta e riletta tante di quelle volte che ormai ricordo la traduzione a memoria:
“E’ riposto in questa tomba di marmo pario, Pietro
che nelle solitudini ebbe nome Celestino.
Visse nell’eremo facendo una vita illibata. E colui
che poté conseguire il trionfo dal triplice nemico;
solo per la sua virtù fu innalzato ai sommi onori.
Onore al Pontefice che disprezzò e depose tanti titoli,
rigettando gli onori delle cose (terrene). Perciò
legato, carcerato, soccombé a crudele morte,
mentre lo spirito tornava al cielo. Qui il suo corpo
è venerato da tutto il popolo.
Al tempo del Priore Fra Maturino.
Opera di Gerolamo, Maestro Vicentino Scultore.
lì 27 agosto 1517”».
«Nelle solitudini... Bello! Un piccolo poema della vita di Celestino con tanto di morte crudele».
«Guardi lì quel dipinto, significativamente nella parte opposta alla lapide funebre, proprio sopra il sepolcro che ospita l’artistica teca contenente le spoglie del Santo. Cosa la colpisce maggiormente?».
«Non ci vuole un critico d’arte per capire che i tre personaggi, tre frati mi sembrano, stanno guardando la croce luminosa che appare sospesa in aria».
«Esatto. È uno degli tredici miracoli, tra i diciassette attribuiti a Pietro dal Morrone, citato anche tra quelli ufficializzati dal processo di canonizzazione che si celebrò nella cattedrale di Avignone, il 5 maggio 1313, su iniziativa di Papa Clemente V, al secolo Bertrand de Got, francese, fratello di quel Bérard de Got, arcivescovo di Lione, che Celestino aveva nominato tra i dodici nuovi cardinali dei quali ben sette erano transalpini e nessuno romano. Celestino in Francia era una star...».
«Non si riperda di nuovo dietro le sue visioni mistiche. Stava parlando del miracolo illustrato nel dipinto: cosa c’entra con i nostri guai?».
«C’entra, c’entra. Se non altro perché il Papa della “cattività avignonese”, Clemente V appunto, fece santo non il papa Celestino V ma l’Eremita Pietro. Tanto che il 19 maggio si celebra San Pietro dal Morrone e non San Celestino».
«Il 19 maggio? Non ha citato la data del 5 maggio».
«Lo vede che non mi sente quando parlo! Il 5 maggio, del 1313, è la data della canonizzazione. Il 19 maggio, del 1296, Celestino muore nella prigione voluta da Bonifacio VIII nella splendida rocca di Fumone presso Ferentino, dopo la sfortunata fuga del Papa dimissionario che dalla Puglia aveva cercato di raggiungere, via mare, la Dalmazia. E il dipinto che abbiamo davanti agli occhi descrive proprio il momento della morte del Papa ormai ultraottantenne, forse ottantasettenne secondo alcune ricostruzioni visto che è incerta la data di nascita: dunque, una sorta di matusalemme dalla sovrumana esperienza in un’epoca in cui a trentacinque anni si era “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Un vecchietto ancor più in odore di santità visto che aveva resistito per dieci mesi in un’angusta prigione, tre metri di lunghezza per un metro e mezzo di larghezza e due metri e mezzo di altezza (al solo pensiero mi viene un senso di claustrofobia), assistito da due fraticelli che, non sopportando quell’eremitaggio forzato, ogni tanto dovevano essere sostituiti. Ebbene, i soldati a guardia della prigione raccontarono di aver visto sulla porta della cella una palla di fuoco che si trasformò in una croce. La “croce di penitenza”».
«Che brutta fine! Un pontefice, un Santo, l’unico Papa dimissionario, che muore in una squallida prigione dove vi è stato rinchiuso dal suo successore passato alla Storia per aver inventato il Giubileo».
«Un altro Papa, poi, cercherà di riabilitare entrambi».
«Ma va? E chi è stato?».
«Paolo VI. Durante il suo pontificato, Papa Giovambattista Montini visitò la prigione di Celestino V, il “piccolo santuario” come lui stesso la definì visto anche che conserva tra le reliquie un pezzetto del cuore ed un dente del Santo del Morrone. Reliquie, peraltro, che furono rubate il 7 ottobre del 1965».
«Ma le reliquie di Celestino non hanno avuto mai pace...».
«A Fumone, Paolo VI fece un bel discorso sul nostro Eremita».
«Che lei, ovviamente, conosce».
«Esatto. Ho trovato il resoconto, dopo affannose ricerche, nel sito del Vaticano».
«Sentiamo...».
«Eccolo qui: “Il principale scopo della visita è quello di rendere onore a San Celestino V perché fu Papa, fu santo e morì a Fumone. Dalla vita di San Celestino il Papa vuol trarre due insegnamenti. Il primo insegnamento ce lo dà la storia, che ci riporta a circa 700 anni or sono, mentre il medioevo si avvia al suo tramonto e fa vedere già l’alba di nuove condizioni di vita per Roma, per l’Italia, per l’Europa intera. La figura di Celestino V, come pontefice, ci richiama alle origini della Chiesa, all’investitura data da Nostro Signore a San Pietro e ai suoi Successori: dobbiamo meditare su questa continuità apostolica, che supera vicende le quali sembrano le meno propizie e si perpetua fino a noi e nei secoli avvenire perché c’è il dito di Dio, una presenza divina nella Chiesa. Ecco il tempo di Pietro di Morrone: ventisette mesi di interregno nella sede apostolica; i cardinali ridotti a dodici e in contrasto tra loro; tempi terribili. E Pietro dal Morrone, il Santo Eremita, è eletto ed è invitato ad ascendere sulla Cattedra di Pietro. Dopo aver esitato, accetta per dovere, e fa ingresso a Collemaggio sopra un asinello, come Nostro Signore, ma trova là due Re ad attenderlo. Ecco l’essenza della Chiesa, ecco il destino di Roma sede del Successore di Pietro: ovunque la decadenza è fatale, ma nella Chiesa c’è un carisma, c’è la promessa e la presenza divina: ‘Io sarò con voi fino alla fine dei secoli’. Questo è il miracolo vivente del cattolicesimo. Il secondo insegnamento è dato dalla santità, dall’intreccio delle virtù cristiane con tutte le miserie e umane debolezze, che ne sono superate. San Celestino V, dopo pochi mesi, comprende che egli è ingannato da quelli che lo circondano, che profittano della Sua inesperienza per strappargli benefici. Ed ecco rifulgere la santità sulle manchevolezze umane: il Papa, come per dovere aveva accettato il Pontificato supremo, così, per dovere, vi rinuncia; non per viltà, come Dante scrisse- se le sue parole si riferiscono veramente a Celestino- ma per eroismo di virtù, per sentimento di dovere. E morì qui, segregato, perché altri non potessero profittare ancora della sua semplicità ed umiltà, e la morte non fu per lui la fine, ma il principio della gloria, oltre che nel paradiso, anche sulla terra”».
«Che inno a Celestino V! Il dovere delle dimissioni. Dunque, caro sovrintendente, qualcuno in Vaticano s’è accorto del mio Eremita».
«In quel pellegrinaggio, avvenuto come si legge in questa mia scheda il primo settembre del 1966, Paolo VI depose di sua mano una croce votiva nella cella che fu dell’Eremita. Venne anche scoperta una targa in cui, ce l’ho davanti agli occhi, si parla di un Celestino V che, “recluso in queste storiche mura”, salvò “con l’eroica rinuncia, con la prigionia e con la morte, l’unità della Chiesa”. Eroica rinuncia, altro che gran rifiuto per viltà».
«Un bel gesto, quello di Papa Montini, dopo un bel discorso».
«Un gesto anche politico».
«Politico?».
«Sì. Quel pellegrinaggio a Fumone, oltre che per onorare la memoria di Celestino V e difendere le nobili finalità di Bonifacio VIII, il Papa del Giubileo, servì a Paolo VI per esternare anche la sua volontà di rendere pensionabili all’età di 75 anni i cardinali ed evitare loro, se troppo vecchi o infermi, di partecipare ai conclavi o di essere eletti Papi. Senta il “suo” Osservatore Romano concluse il resoconto di quel rapido ma assai significativo pellegrinaggio: “Vorremmo aggiungere che in questo tempo in cui i Vescovi sono vivamente invitati a presentare la loro rinunzia, raggiunta che hanno l’età di 75 anni, torna attuale il ricordo della rinunzia al Sommo Pontificato fatta da Celestino V, 700 anni fa, con esempio che rimane ancora ‘mirabile per tutti, imitabile a pochi’...”».
«...”Mirabile per tutti, imitabile a pochi”! Caspita che inno al nostro fraticello. E dall’Osservatore Romano, poi. Stento a crederci che dal Vaticano sia uscito un tale commento».
«Altro che gran rifiuto per viltà...»
«Le dimissioni nella Chiesa non sono, dunque, impossibili. Celestino docet!».
«Esatto».
«Certo, una morte orribile. Potrebbe essere stato questo che viene descritto nel dipinto il momento dell’assassinio? Del chiodo infilzato nella sua testa? E degli esami sul cranio, poi, che s’è saputo?».
«Di recente s’è sollevata una feroce polemica quando tornò alla ribalta la questione del foro nel cranio della quale, per primo, aveva parlato nel XVII secolo Lelio Marino che fu Abate generale, mi pare si chiami così, della Congregazione dei Celestini. L’abate Marini, che viene ritenuto tra i più informati biografi del Santo, cercò di dimostrare che Pietro Angelerio fu ucciso su ordine di Bonifacio VIII. Ma stavo parlando delle polemiche di epoca recente. Ebbene, alla fine ci fu la pubblica ammissione della Arcidiocesi secondo la quale, quando vennero nel 1988 rubate e poi subito ritrovate le sacre spoglie, si approfittò per fare degli esami sia alla Tac sul cranio che chimico-tossicologici sulle ossa. Questi ultimi, in particolare, per valutare il dosaggio del piombo su frammenti ossei. Ebbene, come ammise la Curia, dell’esame eseguito presso il servizio Tac dell’allora ospedale di Santa Maria di Collemaggio, le immagini non furono stampate ed il floppy-disk non s’è più trovato».
«Un mistero, l’ennesimo mistero attorno a questo povero cristiano. Ma del chiodo che s’è saputo?».
«Il chiodo appunto. Il chiodo che non si trova... Soprattutto per questo le ho fatto fare una passeggiata da... bersaglieri fin qui nella basilica di Collemaggio. Venga con me».
«In latino e scritta con l’uso di lettere dentro ad altre lettere. L’ho letta e riletta tante di quelle volte che ormai ricordo la traduzione a memoria:
“E’ riposto in questa tomba di marmo pario, Pietro
che nelle solitudini ebbe nome Celestino.
Visse nell’eremo facendo una vita illibata. E colui
che poté conseguire il trionfo dal triplice nemico;
solo per la sua virtù fu innalzato ai sommi onori.
Onore al Pontefice che disprezzò e depose tanti titoli,
rigettando gli onori delle cose (terrene). Perciò
legato, carcerato, soccombé a crudele morte,
mentre lo spirito tornava al cielo. Qui il suo corpo
è venerato da tutto il popolo.
Al tempo del Priore Fra Maturino.
Opera di Gerolamo, Maestro Vicentino Scultore.
lì 27 agosto 1517”».
«Nelle solitudini... Bello! Un piccolo poema della vita di Celestino con tanto di morte crudele».
«Guardi lì quel dipinto, significativamente nella parte opposta alla lapide funebre, proprio sopra il sepolcro che ospita l’artistica teca contenente le spoglie del Santo. Cosa la colpisce maggiormente?».
«Non ci vuole un critico d’arte per capire che i tre personaggi, tre frati mi sembrano, stanno guardando la croce luminosa che appare sospesa in aria».
«Esatto. È uno degli tredici miracoli, tra i diciassette attribuiti a Pietro dal Morrone, citato anche tra quelli ufficializzati dal processo di canonizzazione che si celebrò nella cattedrale di Avignone, il 5 maggio 1313, su iniziativa di Papa Clemente V, al secolo Bertrand de Got, francese, fratello di quel Bérard de Got, arcivescovo di Lione, che Celestino aveva nominato tra i dodici nuovi cardinali dei quali ben sette erano transalpini e nessuno romano. Celestino in Francia era una star...».
«Non si riperda di nuovo dietro le sue visioni mistiche. Stava parlando del miracolo illustrato nel dipinto: cosa c’entra con i nostri guai?».
«C’entra, c’entra. Se non altro perché il Papa della “cattività avignonese”, Clemente V appunto, fece santo non il papa Celestino V ma l’Eremita Pietro. Tanto che il 19 maggio si celebra San Pietro dal Morrone e non San Celestino».
«Il 19 maggio? Non ha citato la data del 5 maggio».
«Lo vede che non mi sente quando parlo! Il 5 maggio, del 1313, è la data della canonizzazione. Il 19 maggio, del 1296, Celestino muore nella prigione voluta da Bonifacio VIII nella splendida rocca di Fumone presso Ferentino, dopo la sfortunata fuga del Papa dimissionario che dalla Puglia aveva cercato di raggiungere, via mare, la Dalmazia. E il dipinto che abbiamo davanti agli occhi descrive proprio il momento della morte del Papa ormai ultraottantenne, forse ottantasettenne secondo alcune ricostruzioni visto che è incerta la data di nascita: dunque, una sorta di matusalemme dalla sovrumana esperienza in un’epoca in cui a trentacinque anni si era “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Un vecchietto ancor più in odore di santità visto che aveva resistito per dieci mesi in un’angusta prigione, tre metri di lunghezza per un metro e mezzo di larghezza e due metri e mezzo di altezza (al solo pensiero mi viene un senso di claustrofobia), assistito da due fraticelli che, non sopportando quell’eremitaggio forzato, ogni tanto dovevano essere sostituiti. Ebbene, i soldati a guardia della prigione raccontarono di aver visto sulla porta della cella una palla di fuoco che si trasformò in una croce. La “croce di penitenza”».
«Che brutta fine! Un pontefice, un Santo, l’unico Papa dimissionario, che muore in una squallida prigione dove vi è stato rinchiuso dal suo successore passato alla Storia per aver inventato il Giubileo».
«Un altro Papa, poi, cercherà di riabilitare entrambi».
«Ma va? E chi è stato?».
«Paolo VI. Durante il suo pontificato, Papa Giovambattista Montini visitò la prigione di Celestino V, il “piccolo santuario” come lui stesso la definì visto anche che conserva tra le reliquie un pezzetto del cuore ed un dente del Santo del Morrone. Reliquie, peraltro, che furono rubate il 7 ottobre del 1965».
«Ma le reliquie di Celestino non hanno avuto mai pace...».
«A Fumone, Paolo VI fece un bel discorso sul nostro Eremita».
«Che lei, ovviamente, conosce».
«Esatto. Ho trovato il resoconto, dopo affannose ricerche, nel sito del Vaticano».
«Sentiamo...».
«Eccolo qui: “Il principale scopo della visita è quello di rendere onore a San Celestino V perché fu Papa, fu santo e morì a Fumone. Dalla vita di San Celestino il Papa vuol trarre due insegnamenti. Il primo insegnamento ce lo dà la storia, che ci riporta a circa 700 anni or sono, mentre il medioevo si avvia al suo tramonto e fa vedere già l’alba di nuove condizioni di vita per Roma, per l’Italia, per l’Europa intera. La figura di Celestino V, come pontefice, ci richiama alle origini della Chiesa, all’investitura data da Nostro Signore a San Pietro e ai suoi Successori: dobbiamo meditare su questa continuità apostolica, che supera vicende le quali sembrano le meno propizie e si perpetua fino a noi e nei secoli avvenire perché c’è il dito di Dio, una presenza divina nella Chiesa. Ecco il tempo di Pietro di Morrone: ventisette mesi di interregno nella sede apostolica; i cardinali ridotti a dodici e in contrasto tra loro; tempi terribili. E Pietro dal Morrone, il Santo Eremita, è eletto ed è invitato ad ascendere sulla Cattedra di Pietro. Dopo aver esitato, accetta per dovere, e fa ingresso a Collemaggio sopra un asinello, come Nostro Signore, ma trova là due Re ad attenderlo. Ecco l’essenza della Chiesa, ecco il destino di Roma sede del Successore di Pietro: ovunque la decadenza è fatale, ma nella Chiesa c’è un carisma, c’è la promessa e la presenza divina: ‘Io sarò con voi fino alla fine dei secoli’. Questo è il miracolo vivente del cattolicesimo. Il secondo insegnamento è dato dalla santità, dall’intreccio delle virtù cristiane con tutte le miserie e umane debolezze, che ne sono superate. San Celestino V, dopo pochi mesi, comprende che egli è ingannato da quelli che lo circondano, che profittano della Sua inesperienza per strappargli benefici. Ed ecco rifulgere la santità sulle manchevolezze umane: il Papa, come per dovere aveva accettato il Pontificato supremo, così, per dovere, vi rinuncia; non per viltà, come Dante scrisse- se le sue parole si riferiscono veramente a Celestino- ma per eroismo di virtù, per sentimento di dovere. E morì qui, segregato, perché altri non potessero profittare ancora della sua semplicità ed umiltà, e la morte non fu per lui la fine, ma il principio della gloria, oltre che nel paradiso, anche sulla terra”».
«Che inno a Celestino V! Il dovere delle dimissioni. Dunque, caro sovrintendente, qualcuno in Vaticano s’è accorto del mio Eremita».
«In quel pellegrinaggio, avvenuto come si legge in questa mia scheda il primo settembre del 1966, Paolo VI depose di sua mano una croce votiva nella cella che fu dell’Eremita. Venne anche scoperta una targa in cui, ce l’ho davanti agli occhi, si parla di un Celestino V che, “recluso in queste storiche mura”, salvò “con l’eroica rinuncia, con la prigionia e con la morte, l’unità della Chiesa”. Eroica rinuncia, altro che gran rifiuto per viltà».
«Un bel gesto, quello di Papa Montini, dopo un bel discorso».
«Un gesto anche politico».
«Politico?».
«Sì. Quel pellegrinaggio a Fumone, oltre che per onorare la memoria di Celestino V e difendere le nobili finalità di Bonifacio VIII, il Papa del Giubileo, servì a Paolo VI per esternare anche la sua volontà di rendere pensionabili all’età di 75 anni i cardinali ed evitare loro, se troppo vecchi o infermi, di partecipare ai conclavi o di essere eletti Papi. Senta il “suo” Osservatore Romano concluse il resoconto di quel rapido ma assai significativo pellegrinaggio: “Vorremmo aggiungere che in questo tempo in cui i Vescovi sono vivamente invitati a presentare la loro rinunzia, raggiunta che hanno l’età di 75 anni, torna attuale il ricordo della rinunzia al Sommo Pontificato fatta da Celestino V, 700 anni fa, con esempio che rimane ancora ‘mirabile per tutti, imitabile a pochi’...”».
«...”Mirabile per tutti, imitabile a pochi”! Caspita che inno al nostro fraticello. E dall’Osservatore Romano, poi. Stento a crederci che dal Vaticano sia uscito un tale commento».
«Altro che gran rifiuto per viltà...»
«Le dimissioni nella Chiesa non sono, dunque, impossibili. Celestino docet!».
«Esatto».
«Certo, una morte orribile. Potrebbe essere stato questo che viene descritto nel dipinto il momento dell’assassinio? Del chiodo infilzato nella sua testa? E degli esami sul cranio, poi, che s’è saputo?».
«Di recente s’è sollevata una feroce polemica quando tornò alla ribalta la questione del foro nel cranio della quale, per primo, aveva parlato nel XVII secolo Lelio Marino che fu Abate generale, mi pare si chiami così, della Congregazione dei Celestini. L’abate Marini, che viene ritenuto tra i più informati biografi del Santo, cercò di dimostrare che Pietro Angelerio fu ucciso su ordine di Bonifacio VIII. Ma stavo parlando delle polemiche di epoca recente. Ebbene, alla fine ci fu la pubblica ammissione della Arcidiocesi secondo la quale, quando vennero nel 1988 rubate e poi subito ritrovate le sacre spoglie, si approfittò per fare degli esami sia alla Tac sul cranio che chimico-tossicologici sulle ossa. Questi ultimi, in particolare, per valutare il dosaggio del piombo su frammenti ossei. Ebbene, come ammise la Curia, dell’esame eseguito presso il servizio Tac dell’allora ospedale di Santa Maria di Collemaggio, le immagini non furono stampate ed il floppy-disk non s’è più trovato».
«Un mistero, l’ennesimo mistero attorno a questo povero cristiano. Ma del chiodo che s’è saputo?».
«Il chiodo appunto. Il chiodo che non si trova... Soprattutto per questo le ho fatto fare una passeggiata da... bersaglieri fin qui nella basilica di Collemaggio. Venga con me».
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