Recensione di Giacomo D'Angelo
Da Tragnone a Fidel Castro
1992-2003: gli Eventi che Sconvolsero L'Aquila.
"Rivista Abruzzese" Anno LVII- 2004- N.4 Ottobre-Dicembre
Giacomo D'Angelo
Negli anni di Mani Pulite, sui video e sulle prime pagine dei quotidiani erano divenute cronache d'apertura, quasi rubriche fisse, i reati di Tangentopoli, le raffiche di arresti promosse dall'angelo giustiziere Anto- nio Di Pietro, ribattezzato "Padre Pio", che invocava più celle ("È mejo der Duce", dichiarò uno dei suoi fan, Maurizio Gasparri, che poi avrebbe raffreddato il suo trasporto, come tanti altri di opposti fronti...), i nefasti di politici e di industriali che avevano confuso politica e affari ("Dc, Psi e Pci avevano bisogno almeno di 7-800 miliardi per ogni legislatura. Gli industriali lo sapevano e pagavano spontaneamente", ha raccontato Paolo Cirino Pomicino). Quando i cronisti giudiziari soprattutto milanesi vivevano questi momenti di gloria mediatica, i loro colleghi abruzzesi si rodevano il fegato.
Che iella vivere in una regione dove la corruzione non allignava, che noia quell'odore di bucato che emanava dai Palazzi del potere. Poi, all'improvviso o quasi, nella notte di San Michele del 29 settembre 1992, il vento di Milano produsse da noi un uragano e un fin'allora umbratile PM, Fabrizio Tragnone, oscurò la ruspante fama dell'asintattico collega molisano con una grandinata di richieste di arresti eccellenti, eseguiti con la rudezza riservata ad una retata di prostitute. Tra le tenebre solcate dall'Arcangelo che abbatte il diavolo e il richiamo spontaneo del Costa Gravas, regista di Zeta-L'orgia del potere, si ebbe l'impressione che l'apocalisse avesse posto le tende sotto i portici aquilani. L'Italia era finalmente uguale dappertutto, nella città dei Visconti come in quella di Federico, l'Abruzzo vomitava lordure e nequizie per la disperazione di Remo Gaspari, mitografo dell'insula felix, padre e paladino di una classe politica incorrotta, che vedeva accasciarsi le sue marmoree certezze per l'interventismo inatteso di uno "sceriffo con la toga", secondo la definizione che Pannella dette di Tragnone.
Di queste vicende, delle trame e dei personaggi coinvolti, dell'epilogo all'italiana si è fatto puntuale narratore un giornalista aquilano, Angelo De Nicola, capocronaca de "Il Messaggero", che in un suo gremitissimo libro (Da Tragnone a Fidel Castro. Gli eventi che sconvolsero L'Aquila) ha travasato le sue esperienze di reduce dalla bufera giustizialista della sua città, vissuta rincorrendo avvisi giudiziari, strepiti del foro, tripli salti delle quaglie voltagabbana, cadute di semidei e di angeli, polemiche roventi, e, immancabili, come in un buon copione di commedia nostrana, i tarallucci e vini. Ma al cronista onusto di memorie non solo giudiziarie si è sovrapposto l'epigono di Buccio di Ranallo e le sue fittissime cronache sono divenute la microstoria di una città, la rivisitazione documentata di fatti e di comportamenti umani attraverso lo scrutinio di articoli di quotidiani e di gazzette varie, su cui anche lo storico di domani potrà ricavare elementi di conoscenza.
Chi vorrà srotolare questi palinsesti delle memorie, troverà di tutto e di tutti: la "folla eccitata e vociante" dinanzi al carcere di "Minicuccio" simile a quella berciante e monetin- lapidante per Craxi all'uscita del Saint Raphael, il suo albergo-tana, il volto terreo di Rocco Salmi "più vecchio di dieci anni", il "pitale" -un "vaso da notte in porcellana bianca" -agitato come una bandiera irridente da Giuseppe Tagliente, allora esagitato consigliere regionale missino, oggi ingessato presidente forzista dell'assemblea regionale, l'intervista fuori dei gangheri (e della grazia di dio) di Remo Gaspari ad Augusto Minzolini della "Stampa" che strilla contro i "metodi nazisti, da Gestapo" dei magistrati e, a proposito di onestà, dichiara: "Ancora oggi, quando vado in giro per la mia regione, trovo i vescovi sul palco, i frati e i parroci che vogliono stringermi la mano. Questa è gente che ha naso, se sente puzza di tangenti starebbero alla larga". Ma la memoria del potentissimo zio Remo in questo caso fa cilecca. Ci sarebbe da chiedergli: e Michele Sindona, il Banco Ambrosiano popolarmente noto come "Banca dei Preti", il vescovo Marcinkus dello Ior, l'arcitruffatore Giuffrè "banchiere di Dio", tanta finanza cattolica coinvolta in pasticciacci di ruberie come sono sfuggiti ad un olfatto così avvertito? Ah, sospirava Gaspari, dove sono i magistrati d'antan, pronti ad archiviare misfatti per carità dì patria (e della DC) o a dedicarsi come il non dimenticato Procuratore Generale Donato Massimo Bartolomei ad un'incruenta e comica crociata contro la pornografia?
Ma Angelo De Nicola parte dal terremoto di Tragnone per scoperchiare il vaso di Pandora e fa sfilare per quasi un decennio, dal 1992 al 2003, l'intero teatrino di pupi e pupari, le figurette d'Epinal della politica cittadina, gli eroi di princisbecco che assurgono ad effimeri Walhalla. È un frullato il suo di tutti i veleni di una città in cui giovani magistrati rompono una tradizione di collateralismo insabbiante dei Tribunali con i politici governanti soprattutto diccì (come ricorda il magistrato Giuseppe Di Lello) ma montano polveroni scandalistici che si sgonfiano l'uno dopo l'altro, usando teoremi senza avere prove o mimando il "rito ambrosiano" del ti arre sto e ti faccio cantare. I loro eccessi nel "ricorso abnorme alla custodia cautelare" generano reazioni di difesa dei politici, con teatrali colpi di scena. Il conflitto tra i due poteri è oro colato per cronisti (e per avvocati), che stentano a seguire il precipitare degli accadimenti.
Il De Nicola, armato dei suoi taccuini e della sua "puttana" (la rubrica telefonica personale), li squaderna tutti nel suo enchiridio-bestiario, spesso mesto come un mattinale di questura. Le pantagrueliche cene elettorali in cui rimangono impigliati Romeo Ricciuti ed altri, il trapassato Ignazio Silone arruolato da un ex deputato socialista tra gli idealisti di Forza Italia (da Fontamara ad Arcore, che carriera per il povero cristiano), il beau geste pannellian-dannunziano del senatore Enzo Lombardi che s'incatena nel giorno di San Valentino alla cancellata del Palazzo di Giustizia e riceve l'abbraccio solidale di una processione di inquisiti, lo stacanovismo dell'algido Fabrizio Tragnone con le sue 33 inchieste e 192 indagini sul malaffare dei politici che gli procurano insulti di Vittorio Sgarbi in affollati comizi ("Perché non arrestate Tragnone?", chiede il Club Pannella alla Procura di Perugia) e l'elogio dell'avvocato Cecchini che è stata sua controparte in epici scontri, le manette per Aldo Irti della potente holding di costruttori aquilani con strascico per il recidivo Ricciuti, ecc.
Ma c'è dell'altro: la brutta, incredibile storia, quasi un raggriciante feuilleton dell'arcivescovo Mario Peressin, un Mastro Don Gesualdo in panni curiali attaccato al danaro in modo "irrefrenabile, immorale e patologico" (secondo la denuncia inutile di 27 parroci della sua diocesi), autoritario e nepotista, antiabortista, che disereda la chiesa aquilana e lascia i suoi averi da nababbo, nazionali e d'oltreoceano, a parenti e compari. Che sollievo per i cattolici aquilani la dipartita di questo Gobseck da incubo. Confesso che avendo seguito distrattamente le imprese del Peressin, nel rileggerle mi chiedo come mai, non dico il papa, ma una qualche autorità del clero, non abbia mai chiesto scusa ai cittadini aquilani, fedeli e no. Un'estensione corriva della Perdonanza? L'impossibilità politica che si trasformi nella Castiganza, come disse un politico aquilano, ricordato nel libro?
Il libro di De Nicola non è un noir perché chi delinque è noto dall'inizio, ma ha il ritmo serrato e i meccanismi d'un romanzo nel quale ritroviamo lacerti del tempo perduto, come avviene al suo autore che i fatti narrati li ha vissuti professionalmente, li racconta con la passione del giornalista innamorato del suo lavoro e che, se non affonda la lama dell'indagine fino al cuore delle cose, è perché in quelle tranches de vie, in quelle cronache tempestose, in quel diario di scossoni giudiziari politici e religiosi (non indegni dei Borgia), c'è anche la sua vita trascorsa, gli anni consumati dietro gli attori di un teatro che sdipana la condizione umana, la sua sindrome di Stoccolma che mitiga l'odiosità di alcuni dei personaggi descritti.
E le tappe importanti o ricorrenti del suo cammino professionale: i "pesci d'aprile" giocati ai sindaci Centi e Tempesta, che li accolgono con ironica bonomia, il ricordo commosso di un "Maestro", il bravo e rimpianto Guido Polidoro (ma che infortunio da principiante quel bisettimanale "AB"...), la macchina bruciata di Peppe Vespa e il processo per tentata corruzione da parte di amministratori locali, la libertà di pensiero dello storico Raffaele Colapietra, genius loci e voce critica fuori dal coro in un arengo di sordi (legga anche chi non ne ha voglia il suo recente, drammatico scritto autobiografico, più istruttivo di tanti celebrati testi storiografici), la batracomiomachia strapaesana intorno al nome di Adelchi Serena con le ruggini e le impietosità di una memoria non condivisa, con l'esilarante coda del commento di uno storico, passato trionfalmente dal PCI a FI dopo l'ineluttabile tributo al craxismo trionfante, senza mai mostrare la sofferenza di un dubbio o il tarlo di un pensiero, che si ricorda dei crimini stalinisti, avendoli sottaciuti o ignora- ti per una vita. Curioso che proprio per gli storici l'historia non sia magistra vitae. Di girella saltafossi e altre animulae vagulae il libro è pieno, ma si incontra anche qualche persona con la schiena diritta (almeno, così lo rappresenta un giornalista milanese, citato dal De Nicola) come l'avvocato Paolo Scopano, assessore all'urbanistica per anni, che si dimette scoprendo che il Piano Regolatore si stava facendo negli studi privati: "sono delle mezzecalzette che si occupano di tutto tranne che dei cittadini", è il suo commiato amaro e sprezzante dalla politica.
L'ultimo capitolo potrebbe costituire un libro a parte (da questo versante il De Nicola è davvero uno sciupone-dissipatore delle sue storie, perché con i suoi materiali avrebbe potuto ricavare altri due libri), per la singolarità del personaggio trattato, aquilanissimo eppure remoto dall'oggi, quasi un uomo d'altri tempi, un cavaliere dei "tempi antiqui": l'avvocato Attilio Cecchini. Partigiano con Democrazia liberale, inizia l'avvocatura ma giovanissimo abbandona studio e città, va in Venezuela e fonda con Gaetano Bafile il giornale "La Voce d'Italia" a sostegno degli emigranti italiani, conduce battaglie civili, conosce il grande scrittore colombiano Gabriel Garcfa Màrquez che lo cita in un suo libro, "sfiora" l'intervista con Fidel Castro che nella prima fase rivoluzionaria lo entusiasma, invia corrispondenze a "Paese-Sera", insegue il suo sogno di libertà e di liberazione, poi, deluso dalle dure repliche della storia e colpito duramente negli affetti familiari, amareggiato per le censure dei suoi reportages, riprende a fare l'avvocato nella sua Aquila, legando il suo nome alla difesa gratuita di Michele Perruzza, il cosiddetto "mostro di Balsorano".
Uomo libero, appartenente a quella pianta umana che già Stendhal indicava sempre più rara, inquieto come tutti gli utopisti, la sua vicenda esistenziale somiglia a quella degli anarchici Camillo Di Sciullo e Severino Di Giovanni, del socialista Carlo Trezza, di tanti "cavalieri erranti" dell'anarchia o di sogni consimili. Sulla sua città ha scritto pagine bellissime, riprodotte in parte nel libro, dove si parla (o si sogna?) di un "umile popolano, caustico, testimone di un'epoca che declina; altero, signore, diffidente e maestro di arguzia, ospitale e aperto quant'altri mai, sempre però con misura e senza piaggeria, snobbatore per eccellenza di vivi e di morti, leale ma tignoso, fulmineo alla protesta ed alla sobillazione contro chiunque osi fare torto all'"Aquila bella sé" (la sua Aquila bella)".
Il ritratto di un aquilano che non c'è più, se mai è esistito, o l'autoritratto di Attilio Cecchini, inguaribile romantico?
Vale la pena, al termine della lettura di questa puntigliosa ricostruzione di anni non di piombo né formidabili come quelli di Capanna ma certamente attraversati da eventi sconvolgenti, se e come sia cambiata L'Aquila (e l'Abruzzo), in che misura quei fatti abbiano prodotto cambiamenti sul piano del costume, dell'etica, del modo di fare politica, dell'antropologia degli abitanti di una città che vive un isolamento e un declino quasi inarrestabili. A giudicare da quanto accade oggi (valga come esempio la difesa della Corte d'Appello in modi polverosi, arcaici, ipermunicipali) tutto è come prima del diluvio: i magistrati hanno ripreso il loro dormiveglia, i politici non hanno dismesso la retorica di un finto impegno per risolvere problemi sempre più incancreniti, per occuparsi di Laudomia Bonanni si è dovuto attendere che morisse, la città del magico 99 ha ritrovato i suoi 99 modus vivendi di una rasserenante e necrofila mediocrità. Il fescennino di Bartolomei, il torquemadismo di Peressin, lo zelo di Tragnone potrebbero tornare, ma nessuno se ne accorgerebbe e forse il febbrile taccuino di Angelo De Nicola questa volta resterebbe inoperoso.
Giacomo D'Angelo
Negli anni di Mani Pulite, sui video e sulle prime pagine dei quotidiani erano divenute cronache d'apertura, quasi rubriche fisse, i reati di Tangentopoli, le raffiche di arresti promosse dall'angelo giustiziere Anto- nio Di Pietro, ribattezzato "Padre Pio", che invocava più celle ("È mejo der Duce", dichiarò uno dei suoi fan, Maurizio Gasparri, che poi avrebbe raffreddato il suo trasporto, come tanti altri di opposti fronti...), i nefasti di politici e di industriali che avevano confuso politica e affari ("Dc, Psi e Pci avevano bisogno almeno di 7-800 miliardi per ogni legislatura. Gli industriali lo sapevano e pagavano spontaneamente", ha raccontato Paolo Cirino Pomicino). Quando i cronisti giudiziari soprattutto milanesi vivevano questi momenti di gloria mediatica, i loro colleghi abruzzesi si rodevano il fegato.
Che iella vivere in una regione dove la corruzione non allignava, che noia quell'odore di bucato che emanava dai Palazzi del potere. Poi, all'improvviso o quasi, nella notte di San Michele del 29 settembre 1992, il vento di Milano produsse da noi un uragano e un fin'allora umbratile PM, Fabrizio Tragnone, oscurò la ruspante fama dell'asintattico collega molisano con una grandinata di richieste di arresti eccellenti, eseguiti con la rudezza riservata ad una retata di prostitute. Tra le tenebre solcate dall'Arcangelo che abbatte il diavolo e il richiamo spontaneo del Costa Gravas, regista di Zeta-L'orgia del potere, si ebbe l'impressione che l'apocalisse avesse posto le tende sotto i portici aquilani. L'Italia era finalmente uguale dappertutto, nella città dei Visconti come in quella di Federico, l'Abruzzo vomitava lordure e nequizie per la disperazione di Remo Gaspari, mitografo dell'insula felix, padre e paladino di una classe politica incorrotta, che vedeva accasciarsi le sue marmoree certezze per l'interventismo inatteso di uno "sceriffo con la toga", secondo la definizione che Pannella dette di Tragnone.
Di queste vicende, delle trame e dei personaggi coinvolti, dell'epilogo all'italiana si è fatto puntuale narratore un giornalista aquilano, Angelo De Nicola, capocronaca de "Il Messaggero", che in un suo gremitissimo libro (Da Tragnone a Fidel Castro. Gli eventi che sconvolsero L'Aquila) ha travasato le sue esperienze di reduce dalla bufera giustizialista della sua città, vissuta rincorrendo avvisi giudiziari, strepiti del foro, tripli salti delle quaglie voltagabbana, cadute di semidei e di angeli, polemiche roventi, e, immancabili, come in un buon copione di commedia nostrana, i tarallucci e vini. Ma al cronista onusto di memorie non solo giudiziarie si è sovrapposto l'epigono di Buccio di Ranallo e le sue fittissime cronache sono divenute la microstoria di una città, la rivisitazione documentata di fatti e di comportamenti umani attraverso lo scrutinio di articoli di quotidiani e di gazzette varie, su cui anche lo storico di domani potrà ricavare elementi di conoscenza.
Chi vorrà srotolare questi palinsesti delle memorie, troverà di tutto e di tutti: la "folla eccitata e vociante" dinanzi al carcere di "Minicuccio" simile a quella berciante e monetin- lapidante per Craxi all'uscita del Saint Raphael, il suo albergo-tana, il volto terreo di Rocco Salmi "più vecchio di dieci anni", il "pitale" -un "vaso da notte in porcellana bianca" -agitato come una bandiera irridente da Giuseppe Tagliente, allora esagitato consigliere regionale missino, oggi ingessato presidente forzista dell'assemblea regionale, l'intervista fuori dei gangheri (e della grazia di dio) di Remo Gaspari ad Augusto Minzolini della "Stampa" che strilla contro i "metodi nazisti, da Gestapo" dei magistrati e, a proposito di onestà, dichiara: "Ancora oggi, quando vado in giro per la mia regione, trovo i vescovi sul palco, i frati e i parroci che vogliono stringermi la mano. Questa è gente che ha naso, se sente puzza di tangenti starebbero alla larga". Ma la memoria del potentissimo zio Remo in questo caso fa cilecca. Ci sarebbe da chiedergli: e Michele Sindona, il Banco Ambrosiano popolarmente noto come "Banca dei Preti", il vescovo Marcinkus dello Ior, l'arcitruffatore Giuffrè "banchiere di Dio", tanta finanza cattolica coinvolta in pasticciacci di ruberie come sono sfuggiti ad un olfatto così avvertito? Ah, sospirava Gaspari, dove sono i magistrati d'antan, pronti ad archiviare misfatti per carità dì patria (e della DC) o a dedicarsi come il non dimenticato Procuratore Generale Donato Massimo Bartolomei ad un'incruenta e comica crociata contro la pornografia?
Ma Angelo De Nicola parte dal terremoto di Tragnone per scoperchiare il vaso di Pandora e fa sfilare per quasi un decennio, dal 1992 al 2003, l'intero teatrino di pupi e pupari, le figurette d'Epinal della politica cittadina, gli eroi di princisbecco che assurgono ad effimeri Walhalla. È un frullato il suo di tutti i veleni di una città in cui giovani magistrati rompono una tradizione di collateralismo insabbiante dei Tribunali con i politici governanti soprattutto diccì (come ricorda il magistrato Giuseppe Di Lello) ma montano polveroni scandalistici che si sgonfiano l'uno dopo l'altro, usando teoremi senza avere prove o mimando il "rito ambrosiano" del ti arre sto e ti faccio cantare. I loro eccessi nel "ricorso abnorme alla custodia cautelare" generano reazioni di difesa dei politici, con teatrali colpi di scena. Il conflitto tra i due poteri è oro colato per cronisti (e per avvocati), che stentano a seguire il precipitare degli accadimenti.
Il De Nicola, armato dei suoi taccuini e della sua "puttana" (la rubrica telefonica personale), li squaderna tutti nel suo enchiridio-bestiario, spesso mesto come un mattinale di questura. Le pantagrueliche cene elettorali in cui rimangono impigliati Romeo Ricciuti ed altri, il trapassato Ignazio Silone arruolato da un ex deputato socialista tra gli idealisti di Forza Italia (da Fontamara ad Arcore, che carriera per il povero cristiano), il beau geste pannellian-dannunziano del senatore Enzo Lombardi che s'incatena nel giorno di San Valentino alla cancellata del Palazzo di Giustizia e riceve l'abbraccio solidale di una processione di inquisiti, lo stacanovismo dell'algido Fabrizio Tragnone con le sue 33 inchieste e 192 indagini sul malaffare dei politici che gli procurano insulti di Vittorio Sgarbi in affollati comizi ("Perché non arrestate Tragnone?", chiede il Club Pannella alla Procura di Perugia) e l'elogio dell'avvocato Cecchini che è stata sua controparte in epici scontri, le manette per Aldo Irti della potente holding di costruttori aquilani con strascico per il recidivo Ricciuti, ecc.
Ma c'è dell'altro: la brutta, incredibile storia, quasi un raggriciante feuilleton dell'arcivescovo Mario Peressin, un Mastro Don Gesualdo in panni curiali attaccato al danaro in modo "irrefrenabile, immorale e patologico" (secondo la denuncia inutile di 27 parroci della sua diocesi), autoritario e nepotista, antiabortista, che disereda la chiesa aquilana e lascia i suoi averi da nababbo, nazionali e d'oltreoceano, a parenti e compari. Che sollievo per i cattolici aquilani la dipartita di questo Gobseck da incubo. Confesso che avendo seguito distrattamente le imprese del Peressin, nel rileggerle mi chiedo come mai, non dico il papa, ma una qualche autorità del clero, non abbia mai chiesto scusa ai cittadini aquilani, fedeli e no. Un'estensione corriva della Perdonanza? L'impossibilità politica che si trasformi nella Castiganza, come disse un politico aquilano, ricordato nel libro?
Il libro di De Nicola non è un noir perché chi delinque è noto dall'inizio, ma ha il ritmo serrato e i meccanismi d'un romanzo nel quale ritroviamo lacerti del tempo perduto, come avviene al suo autore che i fatti narrati li ha vissuti professionalmente, li racconta con la passione del giornalista innamorato del suo lavoro e che, se non affonda la lama dell'indagine fino al cuore delle cose, è perché in quelle tranches de vie, in quelle cronache tempestose, in quel diario di scossoni giudiziari politici e religiosi (non indegni dei Borgia), c'è anche la sua vita trascorsa, gli anni consumati dietro gli attori di un teatro che sdipana la condizione umana, la sua sindrome di Stoccolma che mitiga l'odiosità di alcuni dei personaggi descritti.
E le tappe importanti o ricorrenti del suo cammino professionale: i "pesci d'aprile" giocati ai sindaci Centi e Tempesta, che li accolgono con ironica bonomia, il ricordo commosso di un "Maestro", il bravo e rimpianto Guido Polidoro (ma che infortunio da principiante quel bisettimanale "AB"...), la macchina bruciata di Peppe Vespa e il processo per tentata corruzione da parte di amministratori locali, la libertà di pensiero dello storico Raffaele Colapietra, genius loci e voce critica fuori dal coro in un arengo di sordi (legga anche chi non ne ha voglia il suo recente, drammatico scritto autobiografico, più istruttivo di tanti celebrati testi storiografici), la batracomiomachia strapaesana intorno al nome di Adelchi Serena con le ruggini e le impietosità di una memoria non condivisa, con l'esilarante coda del commento di uno storico, passato trionfalmente dal PCI a FI dopo l'ineluttabile tributo al craxismo trionfante, senza mai mostrare la sofferenza di un dubbio o il tarlo di un pensiero, che si ricorda dei crimini stalinisti, avendoli sottaciuti o ignora- ti per una vita. Curioso che proprio per gli storici l'historia non sia magistra vitae. Di girella saltafossi e altre animulae vagulae il libro è pieno, ma si incontra anche qualche persona con la schiena diritta (almeno, così lo rappresenta un giornalista milanese, citato dal De Nicola) come l'avvocato Paolo Scopano, assessore all'urbanistica per anni, che si dimette scoprendo che il Piano Regolatore si stava facendo negli studi privati: "sono delle mezzecalzette che si occupano di tutto tranne che dei cittadini", è il suo commiato amaro e sprezzante dalla politica.
L'ultimo capitolo potrebbe costituire un libro a parte (da questo versante il De Nicola è davvero uno sciupone-dissipatore delle sue storie, perché con i suoi materiali avrebbe potuto ricavare altri due libri), per la singolarità del personaggio trattato, aquilanissimo eppure remoto dall'oggi, quasi un uomo d'altri tempi, un cavaliere dei "tempi antiqui": l'avvocato Attilio Cecchini. Partigiano con Democrazia liberale, inizia l'avvocatura ma giovanissimo abbandona studio e città, va in Venezuela e fonda con Gaetano Bafile il giornale "La Voce d'Italia" a sostegno degli emigranti italiani, conduce battaglie civili, conosce il grande scrittore colombiano Gabriel Garcfa Màrquez che lo cita in un suo libro, "sfiora" l'intervista con Fidel Castro che nella prima fase rivoluzionaria lo entusiasma, invia corrispondenze a "Paese-Sera", insegue il suo sogno di libertà e di liberazione, poi, deluso dalle dure repliche della storia e colpito duramente negli affetti familiari, amareggiato per le censure dei suoi reportages, riprende a fare l'avvocato nella sua Aquila, legando il suo nome alla difesa gratuita di Michele Perruzza, il cosiddetto "mostro di Balsorano".
Uomo libero, appartenente a quella pianta umana che già Stendhal indicava sempre più rara, inquieto come tutti gli utopisti, la sua vicenda esistenziale somiglia a quella degli anarchici Camillo Di Sciullo e Severino Di Giovanni, del socialista Carlo Trezza, di tanti "cavalieri erranti" dell'anarchia o di sogni consimili. Sulla sua città ha scritto pagine bellissime, riprodotte in parte nel libro, dove si parla (o si sogna?) di un "umile popolano, caustico, testimone di un'epoca che declina; altero, signore, diffidente e maestro di arguzia, ospitale e aperto quant'altri mai, sempre però con misura e senza piaggeria, snobbatore per eccellenza di vivi e di morti, leale ma tignoso, fulmineo alla protesta ed alla sobillazione contro chiunque osi fare torto all'"Aquila bella sé" (la sua Aquila bella)".
Il ritratto di un aquilano che non c'è più, se mai è esistito, o l'autoritratto di Attilio Cecchini, inguaribile romantico?
Vale la pena, al termine della lettura di questa puntigliosa ricostruzione di anni non di piombo né formidabili come quelli di Capanna ma certamente attraversati da eventi sconvolgenti, se e come sia cambiata L'Aquila (e l'Abruzzo), in che misura quei fatti abbiano prodotto cambiamenti sul piano del costume, dell'etica, del modo di fare politica, dell'antropologia degli abitanti di una città che vive un isolamento e un declino quasi inarrestabili. A giudicare da quanto accade oggi (valga come esempio la difesa della Corte d'Appello in modi polverosi, arcaici, ipermunicipali) tutto è come prima del diluvio: i magistrati hanno ripreso il loro dormiveglia, i politici non hanno dismesso la retorica di un finto impegno per risolvere problemi sempre più incancreniti, per occuparsi di Laudomia Bonanni si è dovuto attendere che morisse, la città del magico 99 ha ritrovato i suoi 99 modus vivendi di una rasserenante e necrofila mediocrità. Il fescennino di Bartolomei, il torquemadismo di Peressin, lo zelo di Tragnone potrebbero tornare, ma nessuno se ne accorgerebbe e forse il febbrile taccuino di Angelo De Nicola questa volta resterebbe inoperoso.
Giacomo D'Angelo