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Ombre sul Giallo: Le Sentenze

Presunto Innocente

Primo grado Corte d'Assise dell'Aquila (processo principale)

Il test sul Dna è stata la prova "regina" nel processo di primo grado per l'"omicidio di Balsorano". Le analisi di laboratorio sulle tracce di sangue e su alcuni capelli sono state decisive per giustificare la condanna all'ergastolo di Michele Perruzza. Sono queste le "motivazioni" della sentenza di condanna al carcere a vita emessa il 15 marzo 1991 dalla Corte d'Assise dell'Aquila.

In 35 pagine il presidente Antonio Villani ha spiegato perché la Corte ha fatto proprie le tesi dell'accusa. Il Pm Mario Pinelli aveva basato le sue accuse sulla perizia d'ufficio secondo la quale sugli indumenti dell'imputato erano stati trovati capelli (su una canottiera) e tracce di sangue (su un paio di mutande "addebitate" a Michele) appartenenti alla vittima. Poiché "non possono sussistere dubbi sull'appartenenza all'imputato dei due indumenti", nelle motivazioni si legge che "la presenza dei capelli e del sangue della vittima su indumenti dell'imputato, non può significare altro che la sua implicazione, in termini di colpevolezza piena, nei delitti in cui si procede". Tanto più che i capelli rinvenuti sono risultati "strappati" e che la macchia sulle mutande non può che correlarsi ad un delitto a sfondo sessuale.

A tali analisi, definiti "gravissimi elementi di colpevolezza", la Corte ha poi collegato il fatto che Perruzza non ha un alibi all'ora del delitto; che sono inattendibili le testimonianze di sua moglie Maria Giuseppa Capoccitti e del figlio tredicenne perché i due non hanno saputo spiegare le contraddizioni tra le prime dichiarazioni di accusa rese al Pm e la ritrattazione in aula; che è invece credibile la "superteste" Rosa Perruzza, la quale seppure a distanza di cinque mesi dal fatto ha raccontato di aver visto il muratore rientrare quella sera a casa e sentirgli dire "Cristina è morta"; che alcuni episodi precedenti hanno documentato le tendenze pedofile dell'imputato e che, infine, il processo ha decisamente escluso le "strade" alternative ipotizzate dalla difesa, ed in particolare quella che lanciava dubbi sulla posizione di Dino Capoccitti (figlio di Rosa Perruzza), in un primo momento tra i sospettati.


Secondo grado Corte d'Assise d'Appello dell'Aquila (processo principale)

L'intera vicenda dell'omicidio di Balsorano è come un "film" di cui si ha a disposizione solo spezzoni. Quegli spezzoni "riuscendo però a svelare i momenti più importanti, consentono di conoscere la trama e di affermare perciò la colpevolezza di Michele Perruzza". E le zone buie del film? Ce ne sono, ma "sugli spezzoni del film, che, nonostante lo sviluppo delle indagini, sono rimasti oscuri, la difesa dell'imputato ha ritenuto di poter fare leva per contrastare i successi della tesi accusatoria per infondere il dubbio sugli eventi e sui suoi autori. Ma di fronte alla chiarezza ed alla decisività delle circostanze accertate le considerazioni della difesa appaiono, nella loro marginalità, del tutto irrilevanti ai fini del giudizio". La suggestiva immagine del "film" intermittente riassume le lunghissime motivazioni (ben 103 pagine, il triplo della sentenza di primo grado) della conferma dell'ergastolo per il muratore di Balsorano depositate, nel febbraio del 1992, dal presidente della Corte d'Assise d'Appello dell'Aquila, Bruno Tarquini. Ecco il "teorema Tarquini": il quadro della vicenda emerso dal processo di primo grado si è arricchito di "contributi decisivi" e univoci contro Michele. Cioè, nel processo di secondo grado è emerso un testimone del fatto, il figlio minore di Perruzza, Mauro, che ha accusato il padre asserendo di averlo visto uccidere la piccola Cristina dal tetto di un capanno, una posizione da dove poteva vedere come la Corte ha accertato in un sopralluogo. Le dichiarazioni del ragazzo sono state poi confermate dalla superperizia, successiva, del professor Merli.

Le prove di merito contro Perruzza secondo Tarquini sono quattro. Primo: la testimonianza di Mauro. "Questa deposizione - si legge nelle motivazioni - è stata resa da un ragazzo che ha dato prova di notevole fermezza, consapevole della gravità e della rilevanza delle parole che stava pronunciando e del pregiudizio che esse arrecavano alla linea difensiva del padre, verso il quale ha manifestato sentimenti di amore; da un ragazzo che sottratto alla negativa influenza della madre, ha dato dimostrazione di aver ritrovato un sufficiente equilibrio interno dopo la tragedia abbattutasi anche sulla sua famiglia e sulla sua stessa persona, rapido, sicuro e tranquillo nelle risposte alle domande della Corte, capace di rispondere con grande disinvoltura alle contestazioni dei difensori dal padre". Secondo: le dichiarazioni della superteste Rosa Perruzza a cui anche la Corte di secondo grado ha voluto credere. Terzo: la perizia d'ufficio sul Dna del professor Bruno Dallapiccola è pienamente credibile: il sangue sul paio di mutande (che la Corte ha attribuito a Perruzza e non al figlio) ed i capelli strappati trovati sulla canottiera del muratore sono sicuramente della vittima. Quarto: il comportamento dopo il fattaccio dell'imputato che ha cercato in tutti i modi di crearsi un alibi morale, facendosi per esempio trovare a letto al momento dell'allarme per la scomparsa di Cristina e mettendo in scena altri strani comportamenti come quello di andare di persona ad avvertire i carabinieri a Balsorano già allertati dal padre della piccola. Un comportamento che, secondo la Corte, è stato attuato anzi spesso ispirato dalla moglie del muratore la quale ha avuto un ruolo nella vicenda niente affatto secondario.

Alla personalità dell'imputato viene dedicata una lunga analisi. In particolare le motivazioni danno fondamentale importanza alle accertate tendenze pedofile di Perruzza: "Se quelle tendenze non possono assurgere da sole a rango di prova dell'omicidio nei confronti di Perruzza, tuttavia sono tali da costituire una rilevante prova della sua causale e finiscono per rappresentare un efficace collante tra tutte le numerose prove che le risultanze processuali hanno consentito di raccogliere sulla colpevolezza dell'imputato". Ma soprattutto Tarquini, mette in evidenza il silenzio di Perruzza, atteggiamento che spinge inevitabilmente verso un giudizio di colpevolezza "perché se veramente fosse stato solo testimone della morte della nipotina, non si vede per quale motivo, di fronte al rischio di una pena gravissima, dovrebbe tacere, anche a costo di accusare il non imputabile figlio, cosa che né lui né la moglie hanno mai fatto, lasciando tale incarico, invece, agli avvocati difensori e solo in questo grado del giudizio".


Cassazione (processo principale)

Nelle 45 pagine firmate dal giudice Corrado Carnevale, la Cassazione da un lato esalta il lavoro di verifica delle prove svolto dalla Corte d'Assise d'Appello dell'Aquila, dall'altro critica le riserve apportate dalla difesa. S'era detto che la vicenda potesse avere due letture: quella che individua l'assassino di Cristina in Michele (portata avanti dall'accusa e recepita dai giudici) e quella che invece getta la croce addosso al figlio minore del muratore, Mauro (sostenuta dalla difesa con l'appoggio di gran parte dell'opinione pubblica). Questa seconda "verità", ha sostenuto la difesa, appare logica quanto la prima. Potrà essere anche logica, sembra invece rispondere la Cassazione, ma non è supportata da prove come lo è la prima lettura: "La correttezza - si legge nelle motivazioni -, sia sotto il profilo logico che sotto quello tecnico-giudiziario del ragionamento, svolto dai giudici a giustificare il giudizio espresso, rifiuta censure di legittimità, tanto più che, dal ricorrente, non sono indicati precisi e sicuri elementi di contrasto al detto ragionamento ma sono solo prospettate ipotesi diverse, non di rado, ancorate a supposizioni od asserzioni assiomatiche".

Uno ad uno, la sentenza rigetta tutti i numerosi "motivi" di ricorso presentati dalla difesa. Tra i motivi tecnici, la Corte non ha dato credito né alla tesi secondo la quale l'avvocato (Casciere) che difese Perruzza in primo grado era in posizione di incompatibilità poiché aveva in precedenza assistito (e fatto assolvere) Mauro; né alla violazione dei diritti della difesa per la scomparsa, asserita dalla difesa, del nastro su cui era registrata la prima accusa al padre fatta dal ragazzo; né alla inutilizzabilità delle dichiarazioni della "superteste" Rosa Perruzza che quella sera disse di aver sentito il muratore rientrare in casa dicendo "Cristina è morta"; né che erano nulle le dichiarazioni rese da Mauro perché il ragazzo, essendo co-indagato per lo stesso reato, non poteva essere contemporaneamente anche testimone.

Tra i motivi di merito, una lunga analisi viene dedicata per dimostrare l'attendibilità della fondamentale testimonianza di Mauro davanti alla Corte in secondo grado. Spiegando il contrasto tra le dichiarazioni in difesa del padre in primo grado e quelle di accusa in Appello con l'influenza che aveva avuto sul minore la madre dalla quale fu poi allontanato, la Suprema Corte osserva che i giudici di secondo grado "hanno fornito un apparato critico delle testimonianze del minore e del suo contrastante comportamento nello svolgersi del procedimento, certamente idoneo, per correttezza logico, giuridico ed adeguato a dimostrarne la credibilità. Quei giudici, infatti, hanno anzitutto sottoposto a vaglio critico il costituito accusatorio del minore, per dedurne, con proposizioni argomentative logiche ed ancorate alle risultanze del processo, una coerenza con le circostanze di fatto acquisite al processo e, soprattutto, con quelle emerse a seguito dell'ispezione dei luoghi effettuata nel corso del dibattimento di Appello e delle considerazioni svolte dal perito, professor Merli, giustamente evidenziano che, a queste ultime, il ragazzo non aveva potuto ispirarsi con malizia, al fine di dare alla sua dichiarazione perché il deposito della perizia era avvenuto in epoca successiva a quella della deposizione".


Primo grado Tribunale di Sulmona (processo satellite)

Con un sforzo ciclopico (raro è il coraggio di "processare" processi già chiusi), il presidente del Tribunale di Sulmona, Oreste Bonavitacola, nelle 41 pagine di motivazioni depositate nell'aprile del 1998 della sentenza del processo-satellite (al termine del quale Michele e sua moglie sono stati assolti dall'accusa di aver istigato il figlio Mauro ad autoaccusarsi del delitto della piccola Cristina), ribalta le verità processuali del delitto di Balsorano. Fino ad affermare che Mauro è totalmente inaffidabile ed incoerente quando accusa il padre, mentre è attendibile e coerente quando si autoaccusa. Anzi, "l'autoaccusa di Mauro, lungi dall'apparire una costruzione fantasiosa, si pone, al contrario, su un piano generale, come un'esposizione credibile di una vicenda vera". Insomma, l'assassino della piccola Cristina potrebbe essere il ragazzo, dove il condizionale, spiega Bonavitacola, è solo per rispetto ai giudici che dovranno ora ristabilire la verità, alla luce delle nuove prove emerse nel processo di Sulmona.

Le nuove prove, appunto. Dopo aver spiegato che è stata la Cassazione ad imporre al Tribunale di Sulmona "non solo di valutare liberamente le risultanze del processo principale per omicidio ma anche di sviluppare l'indagine istruttoria fino ad estendere gli accertamenti a fatti diversi da quelli già accertati e valutati in quella sede", Bonavitacola dedica gran parte delle motivazioni ai due punti fondamentali. Da un lato se Mauro poteva vedere, nascosto dietro il famoso capanno, la scena del delitto; dall'altro, l'appartenenza del paio di slip, sicuramente indossato dall'assassino perché risultato macchiato del sangue di Cristina. Ebbene, per Bonavitacola le due perizie d'ufficio parlano chiaro. Quella del generale dell'Aeronautica, Natale Giacobello, ha concluso che dopo le 20,35 dal capanno non si vede la scena del delitto perché è buio pesto. Il presidente va anche al di là perché sposta, sulla base delle varie testimonianze e soprattutto dopo quanto raccontato da Mauro, l'ora del delitto dalle 20,30 alle 20,45. "Orbene, una volta collocato l'orario di avvistamento intorno alle ore 20,45, non c'è dubbio che Mauro mente platealmente". Tanto più che, scrive Bonavitacola, "appare legittimo il sospetto che la versione del capanno resa da Mauro davanti alla Corte d'Assise d'Appello fosse stata pilotata e predisposta ad arte, ad oltre 15 mesi di distanza dalla prima costruzione accusatoria, da parte di chi aveva interesse a presentare alla Corte d'Assise una versione definitiva, ben costruita, più sicura e credibile e meno vulnerabile, mettendo ordine nelle precedenti contrastanti e contraddittorie versioni. Versione pilotata- insiste il presidente-, dall'assistente sociale (Silvia Bianchi) che si occupò di Mauro".

Chiara, secondo il presidente, è anche la perizia del Dna sul paio di slip. Una perizia che Bonavitacola giudica "sorprendente" perché, partita per accertare se l'indumento apparteneva o meno a Michele, ha poi finito con l'"incastrare" Mauro, peraltro dopo un'iniziativa processuale dello stesso ragazzo, perché il Dna è risultato perfettamente compatibile con quello del figlio e non del genitore. E la credibilità di Mauro "riceve un colpo fatale quando si affronta il tema del Dna".


Secondo grado Corte d'Appello dell'Aquila (processo satellite)

È vero che il Tribunale di Sulmona, in un processo- satellite, ha smontato alcuni cardini delle tremende accuse contro Michele Perruzza ma non basta: occorre un nuovo processo che faccia definitivamente chiarezza sul delitto di Balsorano. È questo il ragionamento di fondo che fa la Corte d'Appello dell'Aquila. Le 40 pagine di motivazioni della sentenza (che aveva deciso il non doversi procedere nei confronti di Perruzza e di sua moglie, per intervenuta prescrizione del reato, per l'accusa di aver istigato il figlio Mauro ad autoaccusarsi del delitto) paiono aprire una vera e propria "autostrada" alla difesa del muratore per avviare il processo di revisione del processo principale chiusosi con la definitiva condanna all'ergastolo. E' la stessa Corte di secondo grado a parlare di revisione. Concludendo il suo ragionamento, la Corte spiega che "non sono condivisibili le conclusioni alle quali il Tribunale di Sulmona è pervenuto. Il Tribunale ha assolto i due imputati nel convincimento di aver accertato una verità alternativa in ordine all'omicidio di Cristina, senza tuttavia risolvere alcuni dubbi". Ma "gli accertamenti istruttori prospettati, in considerazione delle prove costituite dal memoriale prima dell'audizione di Mauro dinanzi alla Corte d'Assise d'Appello, della perizia ambientale e dalla perizia sul Dna, potranno trovare eventuale approfondimento, se ed in quanto ne ricorrano i presupposti in sede di revisione".


Cassazione (processo satellite)

Il verdetto della Suprema Corte, nel novembre 2000, rigetta il ricorso presentato dalla Procura generale dell'Aquila nel quale si sosteneva, in sostanza, che i giudici non possono permettersi di andare alla ricerca della verità, magari trovando nuove prove, quando un caso è ormai chiuso da una sentenza definitiva passata in giudicato. Il caso è ufficialmente riaperto. Avendo convalidato la sentenza d'Appello e le sue motivazioni (in primis quella secondo la quale Mauro è un testimone inattendibile), la Cassazione ha dunque confermato il contrasto di giudicati (tra quello principale e quello del processo-satellite), condizione indispensabile per proporre l'istanza di revisione. Nel ricorso della Procura generale aquilana, l'Avvocato Generale Gaetano Dragotto aveva sostenuto che, sia i giudici di primo grado del Tribunale di Sulmona, sia quelli della Corte d'Appello dell'Aquila si sarebbero resi protagonisti di "uno straripamento del potere istruttorio" andando oltre le loro competenze ed i limiti "entro i quali la motivazione di una sentenza deve restare per essere tale e non trasformarsi in strumento per operazioni metagiuridiche". Il Pg aveva "bacchettato" sia il Tribunale di Sulmona ("che ha svolto una specie di controprocesso") che la Corte d'Appello ("che si è permessa di indicare nuovi temi di indagine peritale e, addirittura, nuove perizie tecniche").


Istanza processo di revisione

"Mauro Perruzza studiò con altri "a tavolino" le dichiarazioni che avrebbe reso in giudizio... Mauro non poteva vedere nulla dal luogo dove indicò di aver assistito al delitto... Mauro indossava un paio di slip macchiati del sangue della piccola Cristina". Anche "ammettendo tutto questo", il delitto di Balsorano non merita un nuovo processo. A questa conclusione è arrivata la Corte d'Appello di Campobasso (competente sui casi del Distretto giudiziario abruzzese) che ha depositato l'ordinanza con la quale ha rigettato la richiesta di revisione del processo. Nelle 18 pagine di motivazioni, depositate in soli tre giorni dopo l'udienza in camera di consiglio, la Corte molisana liquida la questione sulla base di tre ragionamenti.

Primo: il "contrasto tra giudicati" (una delle due condizioni indispensabili per ammettere la revisione) va fatto tra due sentenze passate, appunto, "in giudicato", cioè definitive. Dunque, l'unico confronto possibile è tra la sentenza di condanna all'ergastolo e la sentenza del "processo-satellite" davanti alla Corte d'Appello dell'Aquila che ha di parecchio ridimensionato (dopo un ricorso tra mille polemiche della Procura generale dell'Aquila retta all'epoca dal Pg Tarquini che era stato il presidente della Corte che aveva condannato Michele al carcere a vita) quella dirompente del Tribunale di Sulmona che aveva, al contrario, riaperto il caso.

Secondo: i nuovi elementi che la difesa ha raccolto finora nel "processo-satellite", non sono "fatti ma mere valutazioni, sicché quelle intervenute, in quanto appunto interpretazioni e non fatti anche se contrastanti, non appaiono idonee ai fini delle revisione ad inficiare le valutazioni precedenti". I giudici molisani, quindi, hanno ritenuto essere "valutazioni" le tre "nuove prove" su cui la difesa ha basato la richiesta di revisione, ovvero: la non credibilità di Mauro; la perizia secondo la quale dal famoso capanno Mauro non poteva vedere nulla perché era buio all'ora indicata del delitto e la perizia che ha accertato, dopo un esame del Dna, che gli slip trovati macchiati del sangue di Cristina non appartengono al padre ma al figlio. "Del resto la sentenza della Corte d'Appello dell'Aquila afferma che le dichiarazioni accusatorie di Mauro sono "inattendibili" non che sono false": così viene valutata la decisiva questione della testimonianza di Mauro.

Terzo: "Anche ammesse e dimostrate le tre nuove prove, non seguirebbe tuttavia il proscioglimento del condannato". Ovvero, sostengono i giudici molisani, non si verificherebbe l'altra condizione indispensabile: che cioè "gli elementi in base ai quali si chiede la revisione, appaiano, in base ad un giudizio prognostico ed astratto, idonei a sostituire alla condanna una pronuncia di proscioglimento". Le tre "nuove prove", in sostanza, sarebbero neutralizzate dalle prove a carico (tre, anche in questo caso) di Michele Perruzza e che, secondo la Corte molisana, "non risulta che si contestino con la richiesta di revisione". Tre prove che sono: i capelli di Cristina "strappati" trovati sulla canottiera di Michele; le ammissioni della moglie di Michele, Maria Giuseppa Capoccitti, la quale dichiarò a caldo al Pm che suo marito, quella sera, era rientrato a casa piangendo raccontandole che poco prima era stato con Cristina dopo averla portata in un luogo isolato e che la bambina era morta, e le dichiarazioni di un testimone (Ermanno Tuzi) che nella notte in cui Mauro prima si autoaccusò e poi indicò nel padre l'autore del delitto, assistè al colloquio tra la moglie del muratore ed il figlio all'uscita della Procura, colloquio che venne valutato sospetto in quanto la donna si sarebbe mostrata sorpresa che il figlio avesse ritrattato "come se ella si aspettasse la "confessione" di Mauro... quale impegno preciso e concordato per coprire il padre".


Cassazione (istanza di revisione)

La Cassazione ha respinto, nel febbraio del 2002, dichiarandolo "inammissibile", il ricorso proposto contro il no della Corte d'Appello di Campobasso all'istanza di revisione del processo. La Suprema Corte, dunque, ha "benedetto" le scelta fatta dalla Corte di Campobasso che, in sostanza, aveva stabilito che i nuovi indizi emersi in un procedimento "satellite" (davanti al Tribunale di Sulmona) non hanno il crisma della prova e, anche se lo fossero, non bastano a neutralizzare gli elementi a carico dell'ergastolano.




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