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Ombre sul Giallo: La Questione del DNA

Presunto Innocente

Il paio di slip

Uno degli aspetti chiave del caso Perruzza è un paio di slip. Il famoso paio di mutande (sicuramente indossato dall'assassino perché risultato macchiato, ad un esame del Dna, del sangue della piccola Cristina) venne trovato dentro casa Perruzza, alle ore 15 del 28 agosto 1990, ovvero due giorni dopo l'arresto di Michele. Durante quella perquisizione, oltre ad alcuni panni sporchi (tra i quali l'altrettanto famosa canottiera sulla quale furono trovati capelli di Cristina risultati "strappati" perché ancora col bulbo) rinvenuti accanto e dentro la lavatrice (a piano terra), fu fatta un'ispezione anche su quella parte di tetto posto fuori la finestra del bagno (al primo piano).

Su quel tetto, come risulta dal verbale di perquisizione, furono trovati tre paia di mutande: il primo che è diventato poi protagonista del caso, un secondo di "ridotte dimensioni" (così recita il verbale) ed un terzo logoro e consumato dalle intemperie. Doveva essere, insomma, abituale che qualcuno, in casa Perruzza, si liberasse infantilmente delle mutande sporche gettandole dalla finestra del bagno. Di quei tre paia di slip, gli inquirenti decisero di "repertarne" soltanto uno. Gli altri due furono scartati. Perché? In base a quali considerazioni? Non solo. Il verbale della perquisizione non chiarisce in quale esatta posizione i tre slip furono trovati.


L'"intreccio" con via Poma

La questione del Dna sul paio di slip è centrale nella vicenda. Una questione, oltretutto, che lega a doppio filo il caso dell'uccisione della giovane segretaria Simonetta Cesaroni di via Poma a Roma e l'assassinio della piccola Cristina a Balsorano, ovvero i due delitti della "calda" estate 1990 che non soltanto hanno maggiormente sconvolto (e morbosamente appassionato) l'opinione pubblica, ma nei quali si sono accavallate e confrontate le applicazioni degli allora nuovissimi metodi e procedure: indagini investigative, incidenti probatori, Gip, Tribunale della Libertà e, soprattutto, l'ormai famoso esame del Dna.

Proprio su quest'ultimo fronte, le inchieste su due omicidi si sono fuse, anche in maniera paradossale; i periti del caso Balsorano si sono ritrovati, infatti, a parti invertite, nel caso di via Poma. Il professor Bruno Dallapiccola, che ha eseguito la perizia d'ufficio per Balsorano, è stato il consulente del pubblico ministero a Roma, mentre il professor Angelo Fiori, consulente della difesa di Perruzza, è stato il perito d'ufficio per via Poma. Situazione paradossale anche perché i due sembrano "nemici" per la pelle dal punto di vista scientifico. Il professor Dallapiccola, esperto in genetica, ha sostenuto la validità di un metodo sperimentale (denominato "Pcr") per l'accertamento del Dna.

Fiori, esperto medico legale, ha contestato che "questo metodo, eccezionale dal punto di vista scientifico, è stato bloccato a livello internazionale perché non dà certezze. Dal momento che è però l'unico utilizzabile di fronte a tracce di sangue molto piccole, sono stato costretto ad usarlo per il caso di via Poma, ma ho premesso alla relazione che, fino ad ora, questo affascinante sistema che "moltiplica" il Dna, può essere usato solo a livello scientifico, non di fronte ad imputati che rischiano l'ergastolo".


Alta percentuale

Nel processo di primo grado, Dallapiccola ha sostenuto che è del 96,93% la percentuale di probabilità che si riferisce alle tracce ("gocce") di sangue trovate sulle mutande rinvenute nel sottotetto fuori la finestra del bagno: quel sangue è di Cristina. È del 99, 94%, invece, l'altissima percentuale di probabilità che si riferisce ai capelli trovati sulla canottiera rinvenuta all'interno della abitazione di Perruzza. Quei capelli, in una percentuale vicinissima alla certezza assoluta, sono della piccola Cristina.

Ma Fiori ha contestato che non si può usare il metodo sperimentale denominato "Pcr", "un portento dal punto di vista scientifico ma internazionalmente riconosciuto come inaffidabile". "Sì, anch'io ho usato il "Pcr" - ha detto Fiori ma solo per escludere non per attribuire che il Dna di un reperto sia quello dell'imputato, come raccomandano sia la Fbi che Scotland Yard ed in particolare il "rapporto Kennedy", una relazione del governo americano". Il consulente della difesa ha fatto notare che a Case Castella gli "incroci" tra paesani hanno prodotto una situazione molto particolare, che il Dna estratto e "sommato" dai quattro capelli trovati sulla canottiera potrebbe essere falsato dal mancato accertamento se quei capelli sono sicuramente della stessa persona; che le probabilità a cui i periti sono arrivati sono una loro presunzione personale. Insomma, Fiori ha posto ai giudici il brutale interrogativo: ve la sentite di mandare all'ergastolo un uomo per i soli risultati di perizie basate su metodi sperimentali?

Sul punto, la Corte d'Assise di primo grado ha creduto nella piena validità del metodo di accertamento del Dna, denominato "Pcr", usato dal perito d'ufficio (professor Dalla piccola) anche perché il Dna "amplificato" del sangue di Cristina è risultato assolutamente identico al Dna amplificato dei capelli prelevati al corpicino. D'altra parte tutte le percentuali delle analisi sono state confermate dagli esami sul sangue, appartenente a Perruzza, trovato su un fazzoletto sequestrato con altri indumenti.


Enclave biologico

Nel processo di secondo grado, l'avvocato difensore De Vita ha contestato il metodo attraverso il quale il perito d'ufficio (il genetista Dallapiccola), ha accertato che il sangue ed i capelli corrispondono all'esame del Dna a quelli di Cristina. In sostanza, De Vita ha risposto ed ampliato le critiche che il perito della difesa (il medico-legale Fiori), aveva già esposto in primo grado. Critiche, che a voler sintetizzare sugli intricatissimi aspetti tecnici, si possono ridurre alla considerazione che "il metodo della Pcr, scientificamente un procedimento geniale e portentoso, è ancora sperimentale e quindi non può servire per individuare l'identità ma soltanto, per ora, ad escluderla". "Ho avuto il professor Fiori - ha detto De Vita - come avversario nel caso di via Poma, ma su certi punti è stato sempre coerente con se stesso: il metodo della Pcr non dà certezze e al massimo può essere usato per escludere, non per identificare. Ed in questo senso, Ridotti di Balsorano è un "enclave biologico" dove le "frequenze" del Dna possono avere affinità sbalorditive".


La "benedizione" della Cassazione

Nel definire il processo principale, la Cassazione ha ritenuto pienamente utilizzabile la prova del Dna per la comparazione dell'impronta genetica compiuta tra il sangue di Cristina e le tracce trovate sul paio di slip: "Se non può disconoscersi- si legge nelle motivazioni- che l'adozione del test sul Dna quale mezzo di prova nell'ambito delle indagini giudiziarie e nei procedimenti penali ha suscitato accesi dibattiti e serrate discussioni, si deve pure riconoscere che, dalla più accreditata letteratura medica, è stato affermato che il proponimento di impiegare a fini medico-legali le indagini proprie del laboratorio di genetica medica, trova ampia giustificazione nella completa affidabilità e riproducibilità dei test e soprattutto nella qualità delle risposte che tali test sono in grado di fornire". Ma la Corte, per rintuzzare le critiche della difesa, precisa anche che "il test sul Dna non è stato ritenuto prova unica ed inconfutabile della colpevolezza, ma è stato valutato in un coacervo di elementi probatori, dei quali è stata individuata ed evidenziata la concordante convergenza verso il giudizio di colpevolezza".


Il colpo di scena

Proprio dalla questione del Dna sul paio di slip arriva il clamoroso colpo di scena nel processo-satellite di Sulmona. Lo slip, secondo la perizia sul Dna disposta dal Tribunale di Sulmona, non fu di certo indossato da Michele in quanto il "codice genetico" dei residui organici che vi sono stati trovati non è compatibile con quello del muratore. Slip che Mauro, nel memoriale inviato ai giudici di Sulmona nega fermamente che sia suo, supportando tale affermazione con una perizia di parte fatta dal professor Dallapiccola secondo la quale la "sequenza" di Dna dei residui organici trovati su quel paio di slip non è la stessa di quella del Dna del ragazzo.

Il colpo di scena arriva quando, in aula a Sulmona, vengono ascoltati i due periti d'ufficio (i professori Carla Vecchiotti e Renato Mariani Costantini). Dopo aver valutato la controperizia di Dallapiccola, i due concludono: "La sequenza del Dna di Mauro fornita dal suo perito è perfettamente compatibile con la quella del Dna da noi estratto dai residui di liquidi organici". Un autogol, dunque. Che cosa è accaduto? Per poter fare la comparazione col Dna di Mauro, a Dallapiccola è stata fatta recapitare (via fax) dai periti d'ufficio soltanto una tabella riassuntiva della ben più corposa perizia d'ufficio. Dallapiccola, quindi, non conosceva le premesse né gli allegati di quella perizia che "sviluppavano" la sequenza del Dna estratto dai residui organici presenti sullo slip. Ebbene, lo "sviluppo" del Dna contenuto nei residui è risultato "perfettamente sovrapponibile" alla sequenza sviluppata da Dallapiccola. Il quale, preso atto del clamoroso schiaffo in faccia, ha balbettato qualche spiegazione ma poi ha dovuto ammettere: "A me è stata consegnata una documentazione parziale. Su quella ho fatto il confronto. Prendo atto di quanto mi stanno contestando i periti d'ufficio".




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