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Ombre sul Giallo: Analisi di un Caso Giudiziario

Presunto Innocente
"L'assassino ha 13 anni". Nasce con questo titolo, "sparato" sulla prima pagina di tutti i giornali, il 27 agosto 1990, il caso giudiziario del "mostro di Balsorano". Una serie di circostanze e concomitanze, oggettive e non, hanno generato una vicenda che ha tenuto banco non solo sui mass media ma soprattutto nelle discussioni della gente su chi ha ucciso Cristina: il padre o il figlio? Si diceva di circostanze oggettive e non.

È la fine dell'estate del '90, a qualche giorno dal divampare del "giallo di via Poma" a Roma, vicenda a sfondo sessuale. I mass media riscoprono il morboso interesse dell'opinione pubblica per la cronaca nera. Su un terreno già "concimato", si scopre l'assassinio di una bambina di 7 anni, in uno sperduto paesino d'Abruzzo. Secondo le prime ricostruzioni degli inquirenti (avallate da lanci, forse troppo frettolosi, delle agenzie) la piccola è stata violentata e massacrata a colpi di pietra da un "mostro". Questi due ultimi particolari (violenza carnale e colpi di pietra) risultano di lì a poco completamente infondati ma, ormai "in circolo", diventeranno "verità". Nel frattempo, nella tarda serata del 26 agosto arriva come un fulmine a ciel sereno la confessione del cuginetto tredicenne della piccola che viene subito, e troppo frettolosamente presentata come "la soluzione del caso".

Il ragazzino di lì a poche ore ritratterà, ma i giornali sono già in stampa: il disperato appello di uno degli inquirenti ("Fermate i giornali") arriva alle tre di notte, troppo tardi. Alla fretta ed agli errori, in parte giustificabili se si riflette sul clima di indagini a tappeto che non riuscivano a venire a capo di un delitto che stava suscitando una vastissima eco, si è poi aggiunta la drammatica necessità di sperimentare nella pratica gli strumenti dell'allora nuovo codice di procedura penale. Una circostanza oggettiva che ha finito col creare notevoli difficoltà: era sostanzialmente il primo dibattimento in tutto il Paese di grosso rilievo interamente assoggettato alla nuova normativa. Ed un processo necessariamente "sperimentale", di fronte ad una possibile tremenda condanna al carcere senza speranza, non poteva che sollevare perplessità, polemiche, dubbi.


Verità e controverità

I dubbi, appunto. Il dubbio padre-figlio che nasce quella mattina del 27 agosto, nonostante le indagini, i tre gradi di giudizio del processo principale ed i tre del processo-satellite, resta e forse resterà per sempre. Anche perché le circostanze (oggettive e non) hanno generato una situazione processuale paradossale: che cioè esistono due versioni, una "verità" che individua nel padre l'assassino ed una "controverità" che invece individua il figlio, entrambe logiche e addentellate negli atti processuali. Come si è arrivati a creare questo "mostro" giudiziario? Molte le cause. Eccone una sintesi.


L'eroe

Gli inquirenti si sono subito convinti che il figlio si era autoaccusato facendo l'eroe per salvare il padre; non ci furono così particolari verifiche della sua posizione. In sostanza, si sarebbe dovuto trovare le prove per escludere che l'assassino potesse essere stato il figlio. Invece, il Tribunale per i Minori ha archiviato il procedimento con la considerazione che erano stati raccolti a carico del padre numerosi e convergenti indizi prima, tra l'altro, che questi passassero al decisivo vaglio del dibattimento in Assise.


Il cambio degli avvocati

A sorpresa Perruzza cambia avvocati difensori. È questo un punto nodale e che nemmeno lo strascico di un procedimento disciplinare è riuscito a chiarire in pieno. Agli avvocati Maccallini, che adombravano l'ipotesi che fosse stato il figlio ad uccidere la bambina, la moglie di Perruzza associa l'avvocato Casciere che poco prima era riuscito a far scagionare completamente, con un'archiviazione, il figlio Mauro nel procedimento davanti al Tribunale per i minori. I Maccallini, dovendo condividere la difesa con chi aveva "una diversa visione del processo", sono costretti a rimettere il mandato. Chi ha deciso quella "sterzata" alla strategia difensiva?


Processo farsa

Il processo di primo grado si è perciò rivelato fragile. Perruzza, infatti, non è stato difeso come si doveva perché uno dei suoi due avvocati non poteva percorrere la sola via alternativa per comprensibili ragioni: non poteva, infatti, accusare il figlio di Perruzza che lui stesso aveva in precedenza difeso. La difesa si è quindi "imbarcata" nell'ipotesi di una impraticabile "terza via", in netto contrasto con la "verità" che "l'assassino è certamente in casa Perruzza" in quanto, altrimenti, il ragazzino non aveva motivo di confessare (o è stato lui o ha visto il padre). E la cosa grave è che nessuno ha sollevato l'incompatibilità, quantomeno morale, del difensore: si sarebbe potuto salvare un grado di giudizio.


Le "picconate" della difesa

Ad un primo grado simile ad una farsa, quindi, è seguito un processo d'appello ben diverso. La rinnovata difesa (gli avvocati Cecchini e De Vita) smontano a "picconate" gran parte della costruzione accusatoria e recuperano il terreno perduto. Addirittura scoprono che era rimasta imballata, dal giorno del fattaccio, in una scatola di cartone la famosa pietra, con la quale Perruzza avrebbe colpito per tre volte al capo la povera Cristina. Tra lo stupore generale, in aula si scopre che quella pietra pesa almeno 13 chili e che un solo colpo avrebbe spappolato il cranio anche di un adulto: nessuno l'aveva mai visionata. Ma, a sorpresa, il figlio Mauro fornisce l'ennesima versione (la decima) ed accusa il padre sostenendo di averlo visto, da sopra un capanno, uccidere Cristina. La difesa riesce ad ottenere che la Corte si rechi sul posto a constatare se da quel capanno si vede o meno la scena del delitto. Il 21 gennaio, di pomeriggio e mentre nevica, la Corte accerta che da lì si poteva vedere.

Nel giudizio d'Appello, nel tentativo di colmare le lacune precedenti, giudici attentissimi non hanno esitato a vivisezionare la sentenza di primo grado, dicendo con un'ordinanza che allo stato degli atti non si poteva affibbiare l'ergastolo ad un uomo alla luce delle prove raccolte in primo grado. Il lavoro paziente e coraggioso della difesa e della Corte, e la disponibilità mostrata dal rappresentante della Pubblica accusa, il sostituto Procuratore generale Antonio Palumbo (l'unico che ha ammesso che moralmente l'avvocato Casciere non avrebbe dovuto accettare l'incarico), hanno portato ad un altro risultato paradossale: da una parte sono aumentati i dubbi, dall'altra sono emerse maggiori "prove" processuali contro Perruzza.

Processualmente sono stati infatti macigni contro Perruzza la testimonianza in aula del figlio, le cui dichiarazioni si sono rivelate compatibili con l'esito del sopralluogo e con la superperizia.
Nel processo manca, insomma, la prova "regina": la confessione. Perruzza non ha mai voluto saperne di parlare, di raccontare quello che sa, anche se ha accettato che i suoi avvocati parlassero per lui. Ed è stato lui (o, comunque, sua moglie) a scegliersi via via avvocati diversi e, certamente, strategie difensive. Dietro il silenzio di quest'uomo è seppellita forse la chiave dell'atroce dubbio sull'identità dell'assassino di Cristina, al di là di ogni verdetto. "Non accuserò mai il sangue del mio sangue": questo riuscirono a strappare a Perruzza gli avvocati difensori.


Il processo al processo

La situazione processuale cambia radicalmente, facendo esplodere i dubbi, davanti al Tribunale di Sulmona che, nella forma, celebra un "processo-satellite" rispetto a quello principale per l'omicidio ma, nella sostanza, "rivisita" l'intera vicenda.
Un processo giusto. Sì, perché secondo quanto è emerso dalla "rivisitazione" nell'aula di Sulmona, Michele Perruzza non ha avuto finora processi giusti. Per una serie di ragioni, a volte anche per colpa degli stessi Perruzza e di sua moglie in particolare. "In questa intricata vicenda processuale- ha sempre ripetuto Attilio Cecchini-, siamo indietro di un grado di giudizio" riferendosi al processo di primo grado. Al quale Perruzza arrivò già "condannato" dalle indagini preliminari e, per giunta, non si difese vista la posizione del suo legale (l'avvocato Casciere) scelse di ipotizzare un'improponibile "terza via" (né il padre né il figlio).

Come vennero condotte le indagini e perché venne scelta quella linea difensiva, lo si è scoperto davanti al Tribunale di Sulmona, ad oltre sei anni di distanza. Quanto alle indagini è emerso: che è stranamente sparita l'audiocassetta con la registrazione della prima autoaccusa di Mauro; che il ragazzo venne ascoltato dagli investigatori senza la presenza dei genitori come la procedura impone in caso di minori; che la moglie di Perruzza firmò un verbale in cui accusava il marito perché minacciata. Quanto alla difesa suicida di Casciere, la moglie del muratore ha ammesso, durante un drammatico interrogatorio, che impose a quell'avvocato di non accusare suo figlio e "quando quel legale si convinse- ha detto la donna durante la testimonianza-, alla fine del processo, che Mauro era l'assassino, gli ho revocato il mandato". Così come la donna aveva già fatto con Carlo Maccallini il quale voleva sostenere l'ipotesi che fosse stato il ragazzo.

Nell'aula di Sulmona emerge che la "testimonianza del capanno" di Mauro potrebbe essere stata pesantemente condizionata dal momento che all'assistente sociale che seguì il minore, il Tribunale ha disposto il sequestro (su istanza della difesa) di due fogli scritti a macchina sui quali c'è, pari pari, la versione poi fornita davanti ai giudici del ragazzo. Non solo. Davanti ai giudici sulmonesi, l'assistente si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Così come aveva fatto Mauro. Perché i due non hanno voluto testimoniare? Che cosa avevano da nascondere?


Un processo oltre i limiti

La a portata del "teorema Bonavitacola" viene narcotizzata dai già accennati ricorsi della Procura generale dell'Aquila la quale, in sostanza, sostiene che non si può processare un processo già chiuso e che, dunque, il Tribunale di Sulmona è andato oltre i compiti assegnatigli e consentitigli.


La "bella" negata

Alla luce dei clamorosi esiti del processo-satellite (che sia o meno andato oltre i compiti previsti dalla procedura), Perruzza aveva diritto al processo di revisione. Ad una "bella", per usare un improprio quanto efficace termine calcistico, che avrebbe potuto fare definitivamente chiarezza sulla vicenda. La morte di Perruzza, se da un lato chiude la questione sotto il profilo giudiziario (difficile la strada di andare avanti "in memoria" del defunto che la difesa vorrebbe perseguire su delega dei familiari), dall'altro rilancia ed amplifica tutti i dubbi. Che cioè possa essere stato condannato un innocente e che una persona con evidenti problemi (se davvero è stato il figlio) goda di impunità. Una persona che era un ragazzo di tredici anni e che, oggi, è un uomo.




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