NOTA DELL'AUTORE
a Guido Polidoro
Quella che il lettore avrà la pazienza di leggere è, prima di ogni altra cosa, una catarsi. Una purificazione innanzitutto dell'autore al quale, per una serie di circostanze, è toccato in sorte di seguire, come cronista del Messaggero, tutti i passaggi del caso del "Delitto di Balsorano". Sì, dietro il mettere insieme, in una pubblicazione, il nudo e crudo materiale giornalistico c'è soprattutto questo: la sofferenza, umana e professionale, che ha accompagnato chi ha raccontato sulle colonne di un quotidiano una storia maledetta che s'è dipanata per tredici anni. Una storia maledetta che tocca tutto l'arco dei sentimenti e delle sensazioni in un maledetto contrasto tra loro: la vita e la morte, l'amore e l'odio, la genialità e l'imbecillità, il potente ed il poveraccio, il conformista ed il rivoluzionario, la verità e l'inganno e, soprattutto, la giustizia e l'ingiustizia.
Una storia maledetta che si apre con la morte e si chiude con la morte. Una storia maledetta che ha lasciato un campo di croci. E di sconfitte. Tutti, proprio tutti, escono battuti.
In una simile valle di lacrime, è assai difficile ricostruire, analizzare, rivedere, vagliare col senno di poi. La matassa s'è talmente ingarbugliata che, forse, è e sarà impossibile dipanarla: la giustizia non c'è riuscita, nonostante i suoi tanti processi e le sue tante sentenze. E' possibile ed utile, invece, rivederne i passaggi fondamentali, in presa diretta, come fossero "fotografie" in rapida sequenza. Il caso ha voluto che quelle "foto" le facesse, per tredici lunghi anni, lo stesso "fotografo". Non capita spesso che un così rilevante fatto di cronaca (che peraltro ha avuto una costante e quasi morbosa eco sui mass media per tutto l'arco del suo intrecciarsi) sia stato seguito per un periodo così dilatato dalla stessa mano. Un cronista che, da uomo, ha sofferto la vicenda, e, da giornalista, ha cercato disperatamente di obbedire al principale insegnamento del maestro, quello di "stare ai fatti".
Rilette oggi, a volte le "fotografie" sono sfocate, altre volte mostrano contrasti esagerati o tinte troppo forti, altre ancora sembrano proprio indovinate e pertinenti. Ma sempre vere e scattate in buona fede (altro insegnamento cardine del maestro), pur nel soffocarsi degli eventi (c'è anche la "foto" in cui viene accusato del delitto, senza se e senza ma, il figlio minorenne di Perruzza) e pur nello stritolamento di uno schieramento contrapposto (innocentisti e colpevolisti) che non è stato solo dei mass media.
"Foto" vere ed in buona fede. Ecco, una testimonianza vuol essere questa sequenza degli articoli più significativi di una sterminata produzione (molti ne sono stati eliminati anche per non appesantire la narrazione) riferiti ai passaggi- chiave della vicenda, corredati dal titolo principale e dalla data di pubblicazione sull'edizione abruzzese (e a volte su quella "nazionale") del Messaggero sempre con la stessa firma.
L'"album" che ne esce è la cronaca di una tragedia vera che il miglior drammaturgo non sarebbe stato capace di inventare.
L'Aquila, maggio 2003
Angelo De Nicola