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Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 93

Un saggio di Angelo De Nicola

Presunto innocente



93. «IL DNA, LA PROVA CHE MI SCAGIONA»
25. 2. 1998



Manco a dirlo, il finimondo è scoppiato in un momento decisivo. Come è ormai tradizione, il caso del delitto di Balsorano, proprio alla vigilia di una svolta (l’attesa sentenza di dopodomani del Tribunale di Sulmona) fa registrare un clamoroso colpo di scena.
Un colpo di scena in quella sorta di “processo” sui mass-media che ha sempre proceduto parallelamente alla vicenda giudiziaria. E extra- giudiziaria, anche se potrebbe apparire il contrario, è la mossa (« Una manovra disperata» come l’ha bollata la difesa di Michele Perruzza) dei difensori del figlio del muratore, Mauro, che ieri hanno diffuso contemporaneamente l’esito di una singolare controperizia e di un “raffinato” memoriale del ragazzo stesso.

La controperizia. Al centro della questione c’è il paio di slip, quegli slip sicuramente indossati dall’assassino perché risultati macchiati del sangue della piccola Cristina. Ebbene, nel processo-satellite a Sulmona, s’è finalmente fatta una perizia per accertare a chi appartenessero i residui organici presenti sull’indumento.
La perizia d’ufficio ha detto che il Dna dei residui non è compatibile col Dna di Michele Perruzza. Dunque, gli slip dell’assassino non potevano essere indossati dal muratore. Pur accusando del delitto Mauro, la difesa di Michele non s’è azzardata a dire che quel Dna era del ragazzo. In una sorta di “excusatio non petita... ”, i legali di Mauro chiedono al professor Bruno Dallapiccola (che fu perito d’ufficio nel processo principale contro Michele) di comparare il Dna di Mauro con quello trovato sui residui presenti sugli slip. Non è lo stesso, sostiene Dallapiccola.
Chi ha dato l’esito della perizia di Sulmona ai legali di Mauro che non si sono costituiti parte civile? E perché, Mauro, nel suo memoriale, chiede solo ora di avere “voce” in questo processo-satellite dopo esserne “fuggito” e dopo essersi “nascosto” dietro la scappatoia giuridica dell’avvalersi della facoltà di non rispondere?

Il memoriale. Più che la lettera di un ragazzo ventenne, sembra un trattatello giuridico con citazioni addirittura di articoli del codice di procedura penale. In cinque pagine scritte a mano, Mauro ripercorre in pratica la sua deposizione nel processo d’Assise d’Appello che fu decisiva per far condannare il padre all’ergastolo. Ebbene, quella deposizione è stata spazzata via. La pietra con cui Michele avrebbe colpito Cristina pesava 13 chili: avrebbe sfondato la piccola testolina risultata invece solo leggermente ferita.
Dal capanno, all’ora indicata da Mauro, una perizia d’ufficio ha dimostrato che non si vedeva la scena del delitto perché era buio. Non solo. Se Mauro ora dice di parlare senza pressioni, vuol dire che qualcuno prima gliene ha fatte? E se dice che si è preferito non farlo parlare in questo processo- satellite, chi è stato a ”consigliarlo”?

Ecco il testo del memoriale:
«Sono Mauro Perruzza figlio di Michele Perruzza e di Maria Capoccitti entrambi imputati nel processo di Sulmona. Mi sono deciso a parlare, visto la piega che ha preso questo processo dove anziché parte lesa quale sono, mi si vorrebbe far passare addirittura come l'assassino di mia cugina Cristina.
So bene che era meglio parlare all'inizio del processo, quando sono stato convocato, purtroppo si è preferito farmi avvalere della facoltà di non rispondere. Oggi, so che è stato un errore, considerando che non avevo e non ho assolutamente nulla da nascondere.
Per questo motivo voglio adesso parlare. Lo faccio attraverso questo memoriale ma se mi si dà un'altra occasione, sono pronto a farlo davanti a chiunque, a giudici e avvocati.
Con questo mio scritto colgo anche l'occasione per rispondere all'invito di mio padre e dei suoi avvocati i quali, attraverso la televisione, mi invitano a dire la verità che ho già rivelato davanti ai giudici nel processo del 1991 all'Aquila, quando ho risposto a un'infinità di domande da parte degli avvocati.
Verità, che sia pure col cuore in gola, voglio di nuovo raccontare, riguardando mentalmente le fasi cruciali di quella tragica sera del 23 agosto 1990 e che non potrò mai dimenticare. Avevamo lavorato tutto il giorno sulla casa in costruzione. La sera decidemmo di cenare lì, sul posto come era nostra abitudine d'estate.
Ad un certo punto arrivò qualcuno ad annunciare che Daniele (allora militare) era al telefono da nonno Pasquale. Di ritorno dalla telefonata i miei genitori si rimisero a cucinare la cena, nel frattempo arrivò mia zia Dina (nonna di Cristina) anche lei con delle bistecche da cucinare.
A quel punto io mi diressi verso la piazzetta sottostante la mia abitazione, in attesa dei miei compagni di gioco. Dopo un certo periodo di tempo, ho visto mio padre che teneva per mano Cristina. Li ho visti scendere le scale e prendere il sentiero che divide la casa in costruzione e la casa di Vozza. Incuriosito di tanta confidenza, che lui non aveva mai manifestato in precedenza verso Cristina, ho deciso di seguirli per vedere dove stavano andando.
Decisi a quel punto di fare un percorso che consente di arrivare su quel famoso solaio per assistere a delle atroci scene che ancora oggi non riesco a cancellare dalla mia mente e penso che non riuscirò a cancellare. Ho visto mio padre che stava in ginocchio sopra Cristina che si trovava in posizione supina.
Mio padre le teneva una mano sulla bocca e l'altra sul collo e siccome Cristina continuava a strillare ha preso una pietra e l'ha colpita più volte sulla testa. Purtroppo non sono intervenuto perché la scena che era davanti a me era così atroce da lasciarmi letteralmente impietrito: ripresomi dallo stupore sono andato via e passando verso la fontana del paese sono tornato a casa.
Rientrando, ho sentito mio padre che diceva a mia madre che “Cristina era morta”, e lei chiedendogli spiegazioni rispondeva che bisognava nascondere tutto e fare finta di non sapere niente. Accortosi della mia presenza, mi hanno mandato a letto.
Ricordo perfettamente che mi sono cambiato le mutande insieme alla maglietta e alle calze le ho depositate nel cesto dei panni sporchi situato prima del bagno. Per evitare che qualcuno dica che questa sia l'ennesima versione dei fatti voglio dire che oggi, ventenne e lontano da qualsiasi pressione, posso finalmente dire tutta la verità.
Mi sono inizialmente autoaccusato soprattutto per due motivi: 1) perché come ho già avuto modo di dire cercavo di togliere un peso di dosso a mio padre; 2) soprattutto perché era mia madre a suggerirmi di volta in volta come dovevo comportarmi.
Era sempre lei che mi diceva di addossarmi la colpa dell'omicidio, facendo credere che si fosse trattato di una disgrazia di cui io dovevo essere partecipe. Mi diceva di addossarmi la colpa perché essendo minorenne non ero imputabile e che bisognava salvare a tutti i costi l'onore della famiglia, e che quando tutto si sarebbe concluso saremmo andati via dal paese per poter vivere una nuova vita in un altro posto.
Ecco cosa sono stati e cosa sono i miei genitori. Con amarezza devo purtroppo constatare che hanno cercato di buttarmi la croce addosso. A Cristina io ero molto legato perché sono cresciuto insieme a lei, come un fratello e mai e poi mai l'avrei sfiorata con un dito. Dichiaro che mi sono sottoposto volontariamente al prelievo di sangue affinché si potesse effettuare su di esso il mio Dna mitocondriale, questo in quanto consapevole del fatto che le mutande trovate sul tetto di casa non mi appartengono. Allego l'esito di questa perizia di Dna mitocondriale effettuata da un grande perito, che dimostra in modo chiaro che quelle mutande difatti non sono le mie. Questo risultato lo si è avuto confrontando le risultanze delle due perizie (quella sulle mutande con il mio Dna). Sono convinto che i periti di allora siano a conoscenza del mio Dna in quanto nel 1990 o '91 sono stato sottoposto a un prelievo di sangue. Chiedo al Tribunale di Sulmona che questo memoriale entri a far parte del fascicolo processuale insieme alla perizia che è parte integrante ai sensi dell'art. 90 cpp. e che venga letto integralmente alla ripresa del processo».


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