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La Missione di Celestino - Capitolo 10

Un romanzo di Angelo De Nicola

La missione di Celestino


Il Codice celestiniano non si trovava più negli scaffali della Biblioteca del Museo nazionale. Visto l’interesse che aveva suscitato negli studiosi, era stato esposto nella nuova sezione denominata “Oreficeria e tessuti”. Una sistemazione, comunque, provvisoria (visto che la Curia aveva presentato una richiesta affinché le venisse restituito l’oggetto che, d’altra parte, le apparteneva) ricavata all’interno della galleria dedicata all’arte sacra. Da questa, situata al secondo piano del Museo, attraverso una scala si raggiungeva il locale dove, in bella evidenza, s’era deciso di collocare il manoscritto non solo per la preziosità artistica e storica del tessuto, appunto, col quale era stata rivestita la copertina in legno, ma anche per la possibilità di sfruttare un’esposizione più moderna.
Un funzionario diede l’ordine al tecnico specializzato di aprire la teca sprovvista, come è prassi nei musei, di serrature. Con un attrezzo simile ad una cloche e dotato di due ventose indispensabili per aprire il vetro anteriore della teca, dopo non pochi tentativi andati a vuoto e accompagnati da imprecazioni a bassa voce, il tecnico riuscì a innescare lo speciale marchingegno del tutto invisibile agli occhi di un inesperto.
«Fermo! – ordinò il signor Giacomo – Tutti fuori!».
«Ragioni di sicurezza ci impongono...» provò a replicare il funzionario.
«Qui la sicurezza sono io».
«Veramente non si potrebbe...Il manoscritto è delicatissimo e non può essere toccato da estranei senza la nostra supervisione» insisté il funzionario.
«Qui comando io! Chiuso il discorso – tagliò corto il signor Giacomo. Che, dopo un attimo, sembrò ripensarci richiamando il funzionario - Aspetti. Mi dica prima una cosa. Anzi, due. Si può aprire la teca senza questo attrezzo?».
«Impossibile, che io sappia. E l’altra cosa?».
«Dove porta quell’uscita di sicurezza che si trova proprio alla base della scala che sale in questo locale?».
«È una via di fuga che porta all’esterno, sui terrazzi del Castello».
«Già, via di fuga. Grazie. Ora tutti fuori. Anche lei sovrintendente».
«Come, anch’io?».
«Sì, anche lei».
Rimasto solo, il signor Giacomo aprì il vetro, senza alcuna esitazione, tirando verso di sé la “cloche”. Quel piccolo Codice, sul momento, gli ispirò tenerezza. Ed ancora di più lo colpì quella che era stata per secoli la copertina: un tessuto sdrucito, applicato su un pannello esposto all’interno della teca per mostrarne tutto l’antico splendore. Per due volte fece per prendere quel piccolo libro dalle pagine color avorio. Per due volte ritrasse le mani dalla teca. Non era paura, la sua. Ma rispetto. Gli sembrava di profanare quell’oggetto. L’oggetto più amato dal Santo che nella sua vita eremitica aveva rinunciato a tutto ma non al suo libro delle orazioni. Si fece forza. E prima di andare all’ultima pagina, lo sfogliò senza leggere nemmeno un rigo, nemmeno una parola, ma soltanto per sentire sulla faccia lo spostarsi dell’aria e del pulviscolo della Storia. Furono secondi di piacere. Tornò al dovere. E aprì l’ultima pagina.
«Maledetti!».
Un foglietto, del tutto simile a quello trovato nascosto dietro quella targa stradale nei pressi della Porta Santa, si trovava piegato in due come fosse un segnalibro dimenticato da chissà chi, nell’ultima pagina del Codice. Quella appunto contrassegnata col numero romano “CLXXI”.
«Maledetti! Ci hanno beffato tutti, di nuovo» disse sottovoce al sovrintendente (dopo aver liquidato il funzionario del Museo con un poco credibile «È tutto a posto») che lo aspettava passeggiando nervosamente lungo il corridoio della galleria dell’arte sacra.
«Mi preme innanzitutto dirle – sbottò il sovrintendente – che questa sua mancanza di fiducia mi offende. Che mi ritenga, magari, complice? O addirittura il Gran Capo di questa banda di mascalzoni, di mascalzoni con la laurea? In effetti, a pensarci bene, ho una vaga somiglianza con Osama...».
«“Russe vedremo virus” e “129.42.99”. Vede, è un altro anagramma con un’altra sequenza numerica. Andiamo in Municipio, presto!».
«Si dà il caso che, ora, io abbia da fare».
«In questo maledetto gioco ho come l’impressione che, ora, siamo arrivati alla casella finale. Lei che pensa?».
«Non penso. Non sono pagato per pensare».
«Dove può condurci questa terza casella, forse ancora a Collemaggio?».
«Sì, allo Psichiatrico di Collemaggio...».
«Senta, sovrintendente, non faccia il bambino. Non è stata una questione di mancanza di fiducia. Io e lei siamo sulla stessa barca e mi pare di averglielo già detto. Ho soltanto valutato il rischio di qualche pericolo. Qualcuno poteva aver piazzato, magari, dell’antrace in quella teca che, chissà come, è riuscito ad aprire. L’obiettivo di questi signori, mascalzoni con la laurea come dice lei, è di imporre una strategia della tensione. Prima ti mostro in tv, poi lancio una serie di ultimatum, quindi sollecito un riscatto, infine ti sgozzo lo stesso. Questo hanno fatto e faranno. Nel nostro caso, apparentemente, c’è un cambio di strategia che deve pur avere una spiegazione. Ma io non mi fido. Se chi sta giocando con noi sono loro, proprio loro, l’obiettivo è sicuramente gettarci nel caos. E se lei ci pensa bene, in questo gioco dell’oca, come lei lo ha con molto acume dipinto, noi siamo le pedine. E loro ci stanno spostando a piacimento: avanti, indietro, avanti, indietro. Ci stanno portando per mano dove loro hanno deciso di portarci. Noi stiamo soltanto facendo il loro gioco».
«Le chiedo scusa. Solo che...».
«Tensione?».
«Appunto».
«Vede, strategia della tensione».


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