La prefazione di Dacia Maraini a "La maschera di Celestino"
L’Abruzzo è una terra ricca di personaggi le cui vicende storiche si confondono con la leggenda.
Figure come quella di Celestino V hanno attraversato i secoli grazie anche alle parole dei poeti e degli scrittori che ne hanno fatto l’emblema di una cristianità “diversa”, intrisa della forza innovativa delle origini.
Tutti ricordano il ritratto incisivo e lapidario che Dante ci ha consegnato, così come l’appassionato racconto che Ignazio Silone ha voluto dedicare al ”povero cristiano” suo conterraneo. Ma le suggestioni che derivano dal personaggio di Celestino non sembrano esaurite nemmeno ora. Sia che lo si voglia indagare nella sua realtà storica sia che ci si abbandoni al mistero che si accompagna alla sua immagine letteraria, il Santo Eremita del Morrone risulta ancora oggi ”vivo” non solamente nella memoria e nell’immaginario degli abruzzesi.
Nel romanzo di Angelo De Nicola l’annuale cerimonia della Perdonanza Celestiniana è assunta a pretesto di un intreccio che si tinge di giallo e si apre ai drammi dell’attualità. In una città blindata che attende l’arrivo del Pontefice e teme gli attacchi del terrorismo internazionale, due personaggi giocano una partita a scacchi con un nemico invisibile e minaccioso.
Secondo le regole classiche dell’indagine investigativa tutta la vicenda procede per soluzioni di piccoli enigmi, ciascuno dei quali va a comporre un mosaico che solo lentamente prende forma. E la narrazione fantapolitica si intreccia, pagina dopo pagina, con la puntuale, persino volutamente pedante, rievocazione di personaggi ed eventi storici remoti.
Il modello ”alto” dell’invenzione letteraria di De Nicola è, forse, Umberto Eco che nel suo ”Il nome della rosa” rivela la trama razionale di ciò che a tutta prima appare arcano e misterioso. Ma qui siamo lontani dalla ricostruzione dell’ambiente e delle atmosfere medioevali ed è piuttosto l’oggi, con i suoi lati oscuri e le sue piccole e grandi miserie a fare da sfondo ad una storia che ha il sapore della commedia e dove due sole voci hanno il compito di raccontare una città e una leggenda che affonda le sue radici nel passato mitico dell’Europa cristiana.
Appare singolare la scelta dell’autore di affidare ai dialoghi l’intero sviluppo dell’intreccio. Alle parole, quelle del teatro o della sceneggiatura cinematografica, deve avere pensato Angelo De Nicola quando ha scelto di costruire il suo giallo aquilano a partire da ciò che i personaggi dicono di essere, di vedere, di sapere e di scoprire. A noi lettori, quindi, non rimane altro che credere oppure dubitare di ciò che i personaggi vogliono farci intendere, in attesa, come prevedibile, del colpo di scena finale.
Figure come quella di Celestino V hanno attraversato i secoli grazie anche alle parole dei poeti e degli scrittori che ne hanno fatto l’emblema di una cristianità “diversa”, intrisa della forza innovativa delle origini.
Tutti ricordano il ritratto incisivo e lapidario che Dante ci ha consegnato, così come l’appassionato racconto che Ignazio Silone ha voluto dedicare al ”povero cristiano” suo conterraneo. Ma le suggestioni che derivano dal personaggio di Celestino non sembrano esaurite nemmeno ora. Sia che lo si voglia indagare nella sua realtà storica sia che ci si abbandoni al mistero che si accompagna alla sua immagine letteraria, il Santo Eremita del Morrone risulta ancora oggi ”vivo” non solamente nella memoria e nell’immaginario degli abruzzesi.
Nel romanzo di Angelo De Nicola l’annuale cerimonia della Perdonanza Celestiniana è assunta a pretesto di un intreccio che si tinge di giallo e si apre ai drammi dell’attualità. In una città blindata che attende l’arrivo del Pontefice e teme gli attacchi del terrorismo internazionale, due personaggi giocano una partita a scacchi con un nemico invisibile e minaccioso.
Secondo le regole classiche dell’indagine investigativa tutta la vicenda procede per soluzioni di piccoli enigmi, ciascuno dei quali va a comporre un mosaico che solo lentamente prende forma. E la narrazione fantapolitica si intreccia, pagina dopo pagina, con la puntuale, persino volutamente pedante, rievocazione di personaggi ed eventi storici remoti.
Il modello ”alto” dell’invenzione letteraria di De Nicola è, forse, Umberto Eco che nel suo ”Il nome della rosa” rivela la trama razionale di ciò che a tutta prima appare arcano e misterioso. Ma qui siamo lontani dalla ricostruzione dell’ambiente e delle atmosfere medioevali ed è piuttosto l’oggi, con i suoi lati oscuri e le sue piccole e grandi miserie a fare da sfondo ad una storia che ha il sapore della commedia e dove due sole voci hanno il compito di raccontare una città e una leggenda che affonda le sue radici nel passato mitico dell’Europa cristiana.
Appare singolare la scelta dell’autore di affidare ai dialoghi l’intero sviluppo dell’intreccio. Alle parole, quelle del teatro o della sceneggiatura cinematografica, deve avere pensato Angelo De Nicola quando ha scelto di costruire il suo giallo aquilano a partire da ciò che i personaggi dicono di essere, di vedere, di sapere e di scoprire. A noi lettori, quindi, non rimane altro che credere oppure dubitare di ciò che i personaggi vogliono farci intendere, in attesa, come prevedibile, del colpo di scena finale.
Dacia Maraini