Il terremoto degli aquilani momentaneamente trasferiti
da lupoabruzzese.ilcannocchiale.it
di GIOVANNI PIZZOCCHIA
L’altro ieri, sei ottobre, sono stato a L’Aquila presso l’auditorum della Carispaq, perché invitato a partecipare alla presentazione del libro “Il nostro terremoto”. Si tratta di alcune pagine come diario e, in preponderanza, di una selezione di lettere, saggi, interventi, poesie commoventi, già comparsi nei media e curati dal giornalista scrittore, caporedattore de Il Messaggero, Angelo De Nicola, riferiti al terremoto che ha sconvolto L’Aquila e l’Abruzzo.
Mi sono sentito lusingato nell’apprendere che anche due miei interventi siano stati selezionati e riportati nel libro. Si tratta anche di due post che ho pubblicato su questo blog (in uno parlavo di timore benigno e psicosi da terremoto, nell’altro consideravo L’Aquila capoluogo come la testa di un organismo) e che sono comparsi in varie testate, fra le quali Il Messaggero. L’autore del volume mi aveva chiesto mesi fa l’autorizzazione alla pubblicazione e, giunto il momento della pubblicazione, mi ha invitato alla presentazione.
Pur nel triste tema, fa molto piacere sapere che qualcuno apprezza il tuo operato. Non mi succede spesso ricevere gratifiche, ringrazio pertanto l’autore, anche se penso, valga il detto: “La ricompensa per una cosa ben fatta è di averla fatta” (Ralph Waldo Emerson).
Ciò che mi ha colpito in questo incontro è stata “L’Aquilanitans”, un termine adottato dallo stesso presentatore del libro, un personaggio illustre, un principe del foro chiamato “Don Attilio”. Mi sa che ero l’unico proveniente da Sulmona, anche se il mio paese Castelvecchio è barientrico fra L’Aquila, Avezzano e Sulmona. Mi sono trovato fra tutti aquilani. Ho avvertito una strana sensazione, come se gli aquilani, nel loro irriducibile orgoglio, siano perfino gelosi del loro terremoto, da qui il titolo “I nostro terremoto”. Per Aquilanitas si intende uno spirito forte, unico ed irripetibile nella storia dell’umanità, una quinta dimensione, come l’ha definita il signor Stuard in un suo brano. Il signor Stuard, che proveniva dalla costa, si è trovato a L’Aquila per lavoro, e, sebbene non fosse soddisfatto dell’Aquilanitas e dell’Aquila, poichè la vedeva fredda, non solo per il clima, chiusa e non solo per le mura di cinta, scomoda da raggiungere, proibitiva nei parcheggi, pertanto, pronto a fuggire via nei fini settimana; mano a mano, vivendoci ha subito una metamorfosi, nell’ascoltare il figliolo che ci cresceva e che gli rispondeva in dialetto aquilano, nell’indossare il cappello nelle fredde giornate invernali e nel respirare l’aria frizzante ai piedi del Gran Sasso... Al punto che a causa del trasferimento forzato da sfollato sulla costa fra gli MT (momentaneamente trasferiti) non vedeva l’ora di tornare a L’Aquila.
Ho percepito emotivamente, come un antropologo, entrando in empatia come osservatore partecipante, cosa si possa intendere quando si legge nel libro che L’Aquila non conosce mezze misure: “O la ami o la odi” e come, nell’immenso dolore degli aquilani sia ferma la volontà a proiettasi a quel “Jemo ‘nnanzi” oppure “Terremotosto”. A chiusura è stata letta l’ormai divenuta famosa poesia dialettale “Ju Tarramutu” di Fulvio Giuliani che ha permesso almeno di sorridere.
8 ottobre 2009
di GIOVANNI PIZZOCCHIA
L’altro ieri, sei ottobre, sono stato a L’Aquila presso l’auditorum della Carispaq, perché invitato a partecipare alla presentazione del libro “Il nostro terremoto”. Si tratta di alcune pagine come diario e, in preponderanza, di una selezione di lettere, saggi, interventi, poesie commoventi, già comparsi nei media e curati dal giornalista scrittore, caporedattore de Il Messaggero, Angelo De Nicola, riferiti al terremoto che ha sconvolto L’Aquila e l’Abruzzo.
Mi sono sentito lusingato nell’apprendere che anche due miei interventi siano stati selezionati e riportati nel libro. Si tratta anche di due post che ho pubblicato su questo blog (in uno parlavo di timore benigno e psicosi da terremoto, nell’altro consideravo L’Aquila capoluogo come la testa di un organismo) e che sono comparsi in varie testate, fra le quali Il Messaggero. L’autore del volume mi aveva chiesto mesi fa l’autorizzazione alla pubblicazione e, giunto il momento della pubblicazione, mi ha invitato alla presentazione.
Pur nel triste tema, fa molto piacere sapere che qualcuno apprezza il tuo operato. Non mi succede spesso ricevere gratifiche, ringrazio pertanto l’autore, anche se penso, valga il detto: “La ricompensa per una cosa ben fatta è di averla fatta” (Ralph Waldo Emerson).
Ciò che mi ha colpito in questo incontro è stata “L’Aquilanitans”, un termine adottato dallo stesso presentatore del libro, un personaggio illustre, un principe del foro chiamato “Don Attilio”. Mi sa che ero l’unico proveniente da Sulmona, anche se il mio paese Castelvecchio è barientrico fra L’Aquila, Avezzano e Sulmona. Mi sono trovato fra tutti aquilani. Ho avvertito una strana sensazione, come se gli aquilani, nel loro irriducibile orgoglio, siano perfino gelosi del loro terremoto, da qui il titolo “I nostro terremoto”. Per Aquilanitas si intende uno spirito forte, unico ed irripetibile nella storia dell’umanità, una quinta dimensione, come l’ha definita il signor Stuard in un suo brano. Il signor Stuard, che proveniva dalla costa, si è trovato a L’Aquila per lavoro, e, sebbene non fosse soddisfatto dell’Aquilanitas e dell’Aquila, poichè la vedeva fredda, non solo per il clima, chiusa e non solo per le mura di cinta, scomoda da raggiungere, proibitiva nei parcheggi, pertanto, pronto a fuggire via nei fini settimana; mano a mano, vivendoci ha subito una metamorfosi, nell’ascoltare il figliolo che ci cresceva e che gli rispondeva in dialetto aquilano, nell’indossare il cappello nelle fredde giornate invernali e nel respirare l’aria frizzante ai piedi del Gran Sasso... Al punto che a causa del trasferimento forzato da sfollato sulla costa fra gli MT (momentaneamente trasferiti) non vedeva l’ora di tornare a L’Aquila.
Ho percepito emotivamente, come un antropologo, entrando in empatia come osservatore partecipante, cosa si possa intendere quando si legge nel libro che L’Aquila non conosce mezze misure: “O la ami o la odi” e come, nell’immenso dolore degli aquilani sia ferma la volontà a proiettasi a quel “Jemo ‘nnanzi” oppure “Terremotosto”. A chiusura è stata letta l’ormai divenuta famosa poesia dialettale “Ju Tarramutu” di Fulvio Giuliani che ha permesso almeno di sorridere.
8 ottobre 2009
Giovanni Pizzocchia