La Aquilanitas Applicata al Terremoto - di Attilio M. Cecchini
Il terremoto del 6 aprile 2009 in ventitrè secondi ha ridotto alla impotenza L'Aquila, ma non ha fatto i conti con la Aquilanitas.
Ha disintegrato le case, la materia con la quale sono fatte, ma non lo spirito delle case.
Ha prostrato gli aquilani, li ha umiliati e dispersi ma non domati, li ha ridotti sul lastrico, ma non al silenzio.
Il crollo del tetto può travolgere il cavallo ma non la cavallinità, che è un'altra cosa come sosteneva Platone. Questa cavallinità è l'essenza del quadrupede, la ragione per la quale egli nitrisce. E se il sommo pensatore non la vedeva fisicamente, poco importa perché anche lui non potrà non ammettere che la sostanza delle cose non muore con le cose, ma continua oltre le cose. La similitudine consente di dare per scontato che il sisma ha convertito in cenere L'Aquila, ma non ha tappato la bocca all'aquilanità che, come vedremo, risorgerà dalle ceneri con un nitrito degno del campo di Agramante in cui esse si sono trasformate.
Le cose sono andate così.
A capo piazza, uno o due giorni prima, ero rimasto immobile a lungo, quasi stregato dalla squillante cupola delle Anime Sante, appena rimessa a nuovo e dipinta di giallo, con gli occhi alla lanterna sulla ritrovata palla di rame, di cui anni fa un amico mi aveva fatto notare la misteriosa scomparsa.
Era un presentimento, o, forse, più realisticamente il sussurro del diavolo a non perdere l'occasione.
Qualche giorno dopo, infatti, una protesi gigantesca, il "ragno", volteggiava nell'azzurro per andare a ricomporre i mozziconi del capolavoro neoclassico di Giuseppe Valadier.
Addio tamburo delle Anime Sante, non gusterò più la tua musica. Addio Via Roma, Via XX Settembre, Via Cascina, Via Fortebraccio e tante altre ancora, crivellate e cosparse di calcinacci.
Trecento vittime e più.
Era tornato il castigamatti.
Fin da bambini avevamo imparato a misurarne la cattiveria dalle oscillazioni del lampadario della stanza da pranzo.
Il terremoto qui è di casa, è il convitato di pietra, il terzo incomodo, il morto a tressette. E quando si sveglia sul serio sono dolori.
Basta guardare le bende sugli sfregi e sulle mutilazioni dei campanili e delle facciate, le stampelle che aiutano i palazzi a stare ancora in piedi, le colonne dei portici fasciate come fantolini.
Ma non si è ancora placato lo sciame di brividi, di angoscia e di panico che ha travolto i dormienti quella esecranda e nefasta notte, che già serpeggia la rivolta.
È ferito il corpo della città ma non l'anima, e tanto meno l'anima dell'anima degli aquilani.
E prepotente, incontenibile è scoppiato il nitrito, e cioè la Aquilanitas.
Quando vibra questa corda si sprigionano effetti che travalicano i confini della logica, del senso comune e della misura, e dilagano negli orizzonti del surreale e dell'assurdo.
Dalle rovine giacenti ed ancora da rimuovere schizza il "genius loci": chiamate alle armi, trombe e gonfaloni, proclami, protagonismi, presenzialismi, isterismi, strategie taumaturgiche, bollettini di guerra.
Invade il palcoscenico del disastro un brulicare di Comitati, il cui frastuono è peggio del terremoto.
L'Aquila ha perso le ali, ma essi ugualmente spiccano il volo.
Reclamano tavoli tecnici e sfruttano tutte le risorse dell'armamentario barricadiero, conferenze stampa, megafoni, presidi, slogan, sit in, marce, cortei e persino un girotondo.
Addirittura viene indetto uno sciopero della fame per il quale è consentita una dieta ridotta di tre cappuccini al giorno, sospeso dopo una settimana dai centonove proseliti e nessun risultato utile.
Si esige perentoriamente una "consulta urbanistica con i migliori esperti nazionali" come dire una torre di Babele attesa la sofisticata opinabilità della disciplina.
Si sollecita la indizione degli "Stati Generali della Ricostruzione" sulla falsariga della pallacorda, quella della Rivoluzione Francese. I Comitati intendono imporre "con fermezza al Consiglio Comunale l'approvazione di un Regolamento di Partecipazione che permetta ai cittadini di determinare le scelte fondamentali per il futuro della città". Pretendono la "condivisione di un progetto di ricostruzione ecosostenibile per favorire la ripresa sociale, economica e culturale". Il Regolamento di partecipazione dei cittadini alla elaborazione del Progetto di Ricostruzione consentirebbe ad ognuno di pontificare in modo che non si faccia mai giorno.
Tanto putiferio immagino che induca il forestiero a sospettare buontemponi accovacciati sotto le tende, e sfaccendati sbracati sui sofà a quattro stelle della costa, che per ingannare il tempo si fanno la concorrenza a chi la spara più grossa.
No, è l'Aquilanitas che storicamente ha l'epicentro nel mormorio delle "novantanove cannelle", dove ogni mascherone canta la sua.
Eppure in una occasione i Comitati hanno celebrato miracolosamente l'unità, raggruppando lo stormo e affidandosi a un masaniello che in pieno Consiglio Comunale aperto (ma immediatamente dopo, chiuso) ha gridato "A settembre mostreremo l'audaciam degli aquilani", rifacendosi alla storica finalità della edificazione del Forte Spagnolo "ad reprimendam audaciam aquilanorum".
Ma lasciamo la parola al cronista della memorabile giornata campale: "Il tumulto cresce, molti consiglieri si scagliano contro i contestatori. Il Presidente dell'assemblea chiama i Vigili Urbani ma ormai la rabbia dei Comitati non la fermi più. Allora, pausa tecnica, accuse e contraccuse, insulti. Poi, alla ripresa, contrappello e chiusura per mancanza di numero legale".
Il tribuno, tuttavia, aveva trovato il tempo per sintetizzare così il pensiero dei mandanti: "In tre mesi questo Consiglio non ci ha rappresentati. Il Piano Case è fallito. Ora vogliamo un tavolo Comune-Comitati, un regolamento di partecipazione approvato da assemblee popolari, incontri fissi, accesso libero ai campi, libertà di informazione per tutti". Manca solo la ghigliottina, per fortuna un ritorno soft al 1789.
È evidente che cavalli bradi e rampanti si sono messi a scorazzare sulle praterie dell'Aquilanitas.
Questa scatta come un corto circuito tra la realtà e la sua percezione da parte di chiunque di noi secondo il proprio istinto e la personale entropia.
Essa è una qualità della vita, la quarta dimensione delle cose, un sesto senso, lo specchio curvo su una realtà riflessa in chiave strafottente e faziosa, è il graffiante esercizio del paradosso.
La Aquilanitas è la nostra idiosincrasia.
Talvolta esplode casualmente dalle cose stesse e dalle circostanze, che diventano occasione ed oggetto di universale godimento.
Tanto per fare qualche esempio ex plurimis: la sequenza di Obama che piega i trampoli per calarsi al livello della omologa locale, la quale come una bambola viene poi issata sul tavolo per esser collocata alla portata del bacio di George Clooney.
Oppure l'annuncio del "gran rifiuto" del Sindaco che minaccia la restituzione della fascia (ma solo il simbolo) al Capo dello Stato perché il governo ladro non ci leva le tasse. O la severa rampogna, degna di Cicerone: "Il Premier non offenda con proclami populisti la dignità e la pazienza dei cittadini".
O la costernata constatazione autorevole ed amara, ormai scolpita a futura memoria: "Gli aquilani vengono abbandonati in un modo che non ha precedenti nella storia del nostro Paese". O queste ulteriori imprecazioni: "Mai più risorse sottratte alla cultura" e "A un malato grave le medicine si danno subito". Amenità, roba da scompisciarsi dalle risa proprio perché, nel contesto sismico, assumono quel tono ultimativo, perentorio, arcigno e semiserio della indignazione collettiva e del "grido di dolore", che ha trovato eco persino sul Colle.
Oppure la sfida suprema ad un "contraddittorio" in piazza del Duomo, e cioè nella Zona Rossa inaccessibile, tra due rivali sulla esegesi penalistica di un contratto per la rimozione delle macerie.
Partecipiamo divertiti al teatrino di tanti narcisisti un po' guappi e un po' guitti che si agitano fino alla frenesia ed alla danza della tarantola per la salvezza della Patria.
In effetti la Aquilanitas è anche inclinazione naturale alla metamorfosi della tragedia in commedia dell'arte. perché noi sappiamo esorcizzare non solo il terremoto ma pure il padreterno. Facciamo, infatti, la voce grossa sulla Commissione Grandi Rischi affinchè risponda alla sbarra per l'avventatezza dei suoi oracoli sibillini alla vigilia dello scossone delle 3,32: se le pizie, come S.Emidio, non hanno saputo decrittare i messaggi della Natura, che vadano anch'esse all'inferno.
Per noi Obama, Gheddafi, Zuma, Lula, Jiutao, Zapatero etc. non sono i Grandi della Terra condotti per mano a Coppito ma "Temè, esso quissi".
Il G8 è stata una puzzetta, "Urge un G per L'Aquila".
Le case antisismiche progettate e realizzate a tempo di record non sono altro che "loculi" cimiteriali che devastano l'assetto del territorio. Su questo snodo dolente, il "settore della ricostruzione", le scuole di pensiero si spaccano, tanto che un guanto di sfida (non raccolto) è stato lanciato addirittura a Bertolaso "per un confronto pubblico a due senza mediazioni".
Centrare l'eccentrico negli accadimenti e nei comportamenti umani; pescare il pelo nell'uovo o nell'occhio altrui; depennare dagli annali con un pernacchio l'evento epocale; non prendere sul serio nulla e nessuno anzi prendere tutti per il culo; diffidare del potere e del palazzo; ridurre le cose più rilevanti alla infinitesimale dimensione, sono i comandamenti fondamentali della nostra filosofia.
Bisogna però mettere in chiaro che coesistono una Aquilanitas aurea ed una per così dire di latta, e tra le due un ventaglio di livelli, sfumature, gradazioni e varianti che possono andare all'infinito.
Ognuno la pratica a modo suo e secondo l'estro personale.
Tanto che Sant'Agnese ha trovato qui il rifugio e lo sponsor ideale. La sua Regola ha attecchito profondamente nei vicoli della città. Centinaia e forse migliaia di congreghe si sono consacrate alla Patrona, le più composte di un solo devoto, tutte impegnate in permanenza nell'opera di ridimensionamento dietrologico del prossimo.
Dall'umile al potente, in ciascuno si sono calati per osmosi naturale la "lavannara", "ju zellusu", la "limasorda" e tante altre figure create dalla fantasia dei sacerdoti del culto per dare vita e sostanza agli stereotipi, agli archetipi ed affini della maldicenza.
Puoi aver raggiunto le vette dell'Everest e dell'Aconcagua, Messner è Messner, tu non sei nessuno.
Del resto questo è il primo paradigma dell'Aquilanitas, che è una chiamata, una vocazione e perché no una missione.
Fu forse per legittimarla di fronte ai poteri costituiti nel temporale e nello spirituale che L'Aquila, da poco nata, si garantì strappando la Bolla della Perdonanza e cioè la integrale franchigia anche dai peccati di pensiero e di parola, ad un papa che seppe alla fine compiere il gesto più aquilano della storia, la rinuncia al trono.
Perché Celestino, venuto al mondo esattamente ottocento anni fa, perse la pazienza per gli intrighi della Curia e mandò tutti al diavolo, tornandosene a fare l'eremita.
I cittadini lo compenseranno, sia pure in ritardo, ricomponendone i resti trafugati, rocambolescamente, in un grandioso mausoleo, che neppure il terremoto ha osato sfiorare. E lo eleggeranno in buona compagnia loro compatrono, salva la primazia antisismica di Sant'Emidio. Purtroppo tanta postuma devozione non ha dato i frutti sperati perché anche Collemaggio ha pagato il prezzo del sei aprile.
Ma l'Aquilanitas non demorde, malgrado tutto quello che produce "desinit in piscem".
Dissacrante, permalosa, anticonformista, trasgressiva, trasversale, controversa, anacronistica, essa continuerà a spruzzare adrenalina e veleno negli ingranaggi della futura rinascita, perché della polis è la radice più profonda.
Questa è la nostra divisa da settecentocinquantacinque anni, la cifra esistenziale di una comunità unica al mondo, rissosa e campanilista in tempi sia di vacche grasse che di miseria, libertaria ed anarchica secondo l'omaggio che le rese Niccolò Machiavelli, irriducibile come purtroppo constatò a sue spese Braccio da Montone, una comunità che Bertolaso avrà capito che deve prendere con le molle, e farà bene a soffiarlo in un orecchio al Cavaliere.
L'Aquila, 23 agosto 2009
Ha disintegrato le case, la materia con la quale sono fatte, ma non lo spirito delle case.
Ha prostrato gli aquilani, li ha umiliati e dispersi ma non domati, li ha ridotti sul lastrico, ma non al silenzio.
Il crollo del tetto può travolgere il cavallo ma non la cavallinità, che è un'altra cosa come sosteneva Platone. Questa cavallinità è l'essenza del quadrupede, la ragione per la quale egli nitrisce. E se il sommo pensatore non la vedeva fisicamente, poco importa perché anche lui non potrà non ammettere che la sostanza delle cose non muore con le cose, ma continua oltre le cose. La similitudine consente di dare per scontato che il sisma ha convertito in cenere L'Aquila, ma non ha tappato la bocca all'aquilanità che, come vedremo, risorgerà dalle ceneri con un nitrito degno del campo di Agramante in cui esse si sono trasformate.
Le cose sono andate così.
A capo piazza, uno o due giorni prima, ero rimasto immobile a lungo, quasi stregato dalla squillante cupola delle Anime Sante, appena rimessa a nuovo e dipinta di giallo, con gli occhi alla lanterna sulla ritrovata palla di rame, di cui anni fa un amico mi aveva fatto notare la misteriosa scomparsa.
Era un presentimento, o, forse, più realisticamente il sussurro del diavolo a non perdere l'occasione.
Qualche giorno dopo, infatti, una protesi gigantesca, il "ragno", volteggiava nell'azzurro per andare a ricomporre i mozziconi del capolavoro neoclassico di Giuseppe Valadier.
Addio tamburo delle Anime Sante, non gusterò più la tua musica. Addio Via Roma, Via XX Settembre, Via Cascina, Via Fortebraccio e tante altre ancora, crivellate e cosparse di calcinacci.
Trecento vittime e più.
Era tornato il castigamatti.
Fin da bambini avevamo imparato a misurarne la cattiveria dalle oscillazioni del lampadario della stanza da pranzo.
Il terremoto qui è di casa, è il convitato di pietra, il terzo incomodo, il morto a tressette. E quando si sveglia sul serio sono dolori.
Basta guardare le bende sugli sfregi e sulle mutilazioni dei campanili e delle facciate, le stampelle che aiutano i palazzi a stare ancora in piedi, le colonne dei portici fasciate come fantolini.
Ma non si è ancora placato lo sciame di brividi, di angoscia e di panico che ha travolto i dormienti quella esecranda e nefasta notte, che già serpeggia la rivolta.
È ferito il corpo della città ma non l'anima, e tanto meno l'anima dell'anima degli aquilani.
E prepotente, incontenibile è scoppiato il nitrito, e cioè la Aquilanitas.
Quando vibra questa corda si sprigionano effetti che travalicano i confini della logica, del senso comune e della misura, e dilagano negli orizzonti del surreale e dell'assurdo.
Dalle rovine giacenti ed ancora da rimuovere schizza il "genius loci": chiamate alle armi, trombe e gonfaloni, proclami, protagonismi, presenzialismi, isterismi, strategie taumaturgiche, bollettini di guerra.
Invade il palcoscenico del disastro un brulicare di Comitati, il cui frastuono è peggio del terremoto.
L'Aquila ha perso le ali, ma essi ugualmente spiccano il volo.
Reclamano tavoli tecnici e sfruttano tutte le risorse dell'armamentario barricadiero, conferenze stampa, megafoni, presidi, slogan, sit in, marce, cortei e persino un girotondo.
Addirittura viene indetto uno sciopero della fame per il quale è consentita una dieta ridotta di tre cappuccini al giorno, sospeso dopo una settimana dai centonove proseliti e nessun risultato utile.
Si esige perentoriamente una "consulta urbanistica con i migliori esperti nazionali" come dire una torre di Babele attesa la sofisticata opinabilità della disciplina.
Si sollecita la indizione degli "Stati Generali della Ricostruzione" sulla falsariga della pallacorda, quella della Rivoluzione Francese. I Comitati intendono imporre "con fermezza al Consiglio Comunale l'approvazione di un Regolamento di Partecipazione che permetta ai cittadini di determinare le scelte fondamentali per il futuro della città". Pretendono la "condivisione di un progetto di ricostruzione ecosostenibile per favorire la ripresa sociale, economica e culturale". Il Regolamento di partecipazione dei cittadini alla elaborazione del Progetto di Ricostruzione consentirebbe ad ognuno di pontificare in modo che non si faccia mai giorno.
Tanto putiferio immagino che induca il forestiero a sospettare buontemponi accovacciati sotto le tende, e sfaccendati sbracati sui sofà a quattro stelle della costa, che per ingannare il tempo si fanno la concorrenza a chi la spara più grossa.
No, è l'Aquilanitas che storicamente ha l'epicentro nel mormorio delle "novantanove cannelle", dove ogni mascherone canta la sua.
Eppure in una occasione i Comitati hanno celebrato miracolosamente l'unità, raggruppando lo stormo e affidandosi a un masaniello che in pieno Consiglio Comunale aperto (ma immediatamente dopo, chiuso) ha gridato "A settembre mostreremo l'audaciam degli aquilani", rifacendosi alla storica finalità della edificazione del Forte Spagnolo "ad reprimendam audaciam aquilanorum".
Ma lasciamo la parola al cronista della memorabile giornata campale: "Il tumulto cresce, molti consiglieri si scagliano contro i contestatori. Il Presidente dell'assemblea chiama i Vigili Urbani ma ormai la rabbia dei Comitati non la fermi più. Allora, pausa tecnica, accuse e contraccuse, insulti. Poi, alla ripresa, contrappello e chiusura per mancanza di numero legale".
Il tribuno, tuttavia, aveva trovato il tempo per sintetizzare così il pensiero dei mandanti: "In tre mesi questo Consiglio non ci ha rappresentati. Il Piano Case è fallito. Ora vogliamo un tavolo Comune-Comitati, un regolamento di partecipazione approvato da assemblee popolari, incontri fissi, accesso libero ai campi, libertà di informazione per tutti". Manca solo la ghigliottina, per fortuna un ritorno soft al 1789.
È evidente che cavalli bradi e rampanti si sono messi a scorazzare sulle praterie dell'Aquilanitas.
Questa scatta come un corto circuito tra la realtà e la sua percezione da parte di chiunque di noi secondo il proprio istinto e la personale entropia.
Essa è una qualità della vita, la quarta dimensione delle cose, un sesto senso, lo specchio curvo su una realtà riflessa in chiave strafottente e faziosa, è il graffiante esercizio del paradosso.
La Aquilanitas è la nostra idiosincrasia.
Talvolta esplode casualmente dalle cose stesse e dalle circostanze, che diventano occasione ed oggetto di universale godimento.
Tanto per fare qualche esempio ex plurimis: la sequenza di Obama che piega i trampoli per calarsi al livello della omologa locale, la quale come una bambola viene poi issata sul tavolo per esser collocata alla portata del bacio di George Clooney.
Oppure l'annuncio del "gran rifiuto" del Sindaco che minaccia la restituzione della fascia (ma solo il simbolo) al Capo dello Stato perché il governo ladro non ci leva le tasse. O la severa rampogna, degna di Cicerone: "Il Premier non offenda con proclami populisti la dignità e la pazienza dei cittadini".
O la costernata constatazione autorevole ed amara, ormai scolpita a futura memoria: "Gli aquilani vengono abbandonati in un modo che non ha precedenti nella storia del nostro Paese". O queste ulteriori imprecazioni: "Mai più risorse sottratte alla cultura" e "A un malato grave le medicine si danno subito". Amenità, roba da scompisciarsi dalle risa proprio perché, nel contesto sismico, assumono quel tono ultimativo, perentorio, arcigno e semiserio della indignazione collettiva e del "grido di dolore", che ha trovato eco persino sul Colle.
Oppure la sfida suprema ad un "contraddittorio" in piazza del Duomo, e cioè nella Zona Rossa inaccessibile, tra due rivali sulla esegesi penalistica di un contratto per la rimozione delle macerie.
Partecipiamo divertiti al teatrino di tanti narcisisti un po' guappi e un po' guitti che si agitano fino alla frenesia ed alla danza della tarantola per la salvezza della Patria.
In effetti la Aquilanitas è anche inclinazione naturale alla metamorfosi della tragedia in commedia dell'arte. perché noi sappiamo esorcizzare non solo il terremoto ma pure il padreterno. Facciamo, infatti, la voce grossa sulla Commissione Grandi Rischi affinchè risponda alla sbarra per l'avventatezza dei suoi oracoli sibillini alla vigilia dello scossone delle 3,32: se le pizie, come S.Emidio, non hanno saputo decrittare i messaggi della Natura, che vadano anch'esse all'inferno.
Per noi Obama, Gheddafi, Zuma, Lula, Jiutao, Zapatero etc. non sono i Grandi della Terra condotti per mano a Coppito ma "Temè, esso quissi".
Il G8 è stata una puzzetta, "Urge un G per L'Aquila".
Le case antisismiche progettate e realizzate a tempo di record non sono altro che "loculi" cimiteriali che devastano l'assetto del territorio. Su questo snodo dolente, il "settore della ricostruzione", le scuole di pensiero si spaccano, tanto che un guanto di sfida (non raccolto) è stato lanciato addirittura a Bertolaso "per un confronto pubblico a due senza mediazioni".
Centrare l'eccentrico negli accadimenti e nei comportamenti umani; pescare il pelo nell'uovo o nell'occhio altrui; depennare dagli annali con un pernacchio l'evento epocale; non prendere sul serio nulla e nessuno anzi prendere tutti per il culo; diffidare del potere e del palazzo; ridurre le cose più rilevanti alla infinitesimale dimensione, sono i comandamenti fondamentali della nostra filosofia.
Bisogna però mettere in chiaro che coesistono una Aquilanitas aurea ed una per così dire di latta, e tra le due un ventaglio di livelli, sfumature, gradazioni e varianti che possono andare all'infinito.
Ognuno la pratica a modo suo e secondo l'estro personale.
Tanto che Sant'Agnese ha trovato qui il rifugio e lo sponsor ideale. La sua Regola ha attecchito profondamente nei vicoli della città. Centinaia e forse migliaia di congreghe si sono consacrate alla Patrona, le più composte di un solo devoto, tutte impegnate in permanenza nell'opera di ridimensionamento dietrologico del prossimo.
Dall'umile al potente, in ciascuno si sono calati per osmosi naturale la "lavannara", "ju zellusu", la "limasorda" e tante altre figure create dalla fantasia dei sacerdoti del culto per dare vita e sostanza agli stereotipi, agli archetipi ed affini della maldicenza.
Puoi aver raggiunto le vette dell'Everest e dell'Aconcagua, Messner è Messner, tu non sei nessuno.
Del resto questo è il primo paradigma dell'Aquilanitas, che è una chiamata, una vocazione e perché no una missione.
Fu forse per legittimarla di fronte ai poteri costituiti nel temporale e nello spirituale che L'Aquila, da poco nata, si garantì strappando la Bolla della Perdonanza e cioè la integrale franchigia anche dai peccati di pensiero e di parola, ad un papa che seppe alla fine compiere il gesto più aquilano della storia, la rinuncia al trono.
Perché Celestino, venuto al mondo esattamente ottocento anni fa, perse la pazienza per gli intrighi della Curia e mandò tutti al diavolo, tornandosene a fare l'eremita.
I cittadini lo compenseranno, sia pure in ritardo, ricomponendone i resti trafugati, rocambolescamente, in un grandioso mausoleo, che neppure il terremoto ha osato sfiorare. E lo eleggeranno in buona compagnia loro compatrono, salva la primazia antisismica di Sant'Emidio. Purtroppo tanta postuma devozione non ha dato i frutti sperati perché anche Collemaggio ha pagato il prezzo del sei aprile.
Ma l'Aquilanitas non demorde, malgrado tutto quello che produce "desinit in piscem".
Dissacrante, permalosa, anticonformista, trasgressiva, trasversale, controversa, anacronistica, essa continuerà a spruzzare adrenalina e veleno negli ingranaggi della futura rinascita, perché della polis è la radice più profonda.
Questa è la nostra divisa da settecentocinquantacinque anni, la cifra esistenziale di una comunità unica al mondo, rissosa e campanilista in tempi sia di vacche grasse che di miseria, libertaria ed anarchica secondo l'omaggio che le rese Niccolò Machiavelli, irriducibile come purtroppo constatò a sue spese Braccio da Montone, una comunità che Bertolaso avrà capito che deve prendere con le molle, e farà bene a soffiarlo in un orecchio al Cavaliere.
L'Aquila, 23 agosto 2009
Attilio M. Cecchini