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Il Mito di Celestino - Recensione di Anna Ventura

Il mito di Celestino Nella vasta letteratura relativa alla persona e all’opera di Celestino V, si inserisce, in maniera nuova, il recente volume di Angelo De Nicola, “Il mito di Celestino” (L’Aquila, One Group Edizioni, 2010). La novità del lavoro di Angelo De Nicola è, innanzitutto, nella impostazione dell’indagine, che segue le tracce della lunga vita di Celestino alla luce del mito che , a mano a mano, cresce intorno alla figura del Santo, collocandola in una sfera superiore, in cui le istanze della storia, le vicende personali, i rapporti umani, si amalgamano in un tutto complesso, a cui si può guardare con l’occhio acuto dello studioso, senza però tralasciare quel supporto della fede e della fantasia che è indispensabile per accedere a ogni conoscenza misteriosa.

Il volume si articola con chiarezza e rigore, alla luce dei molti studi che esistono sull’argomento, senza ignorare quelle credenza popolari che sono il frutto di una coscienza collettiva di cui si deve tener conto. Si apre con tre saggi che affrontano alcuni aspetti nodali della storia di Celestino: “Un mite pericoloso”, di Monsignor Giovanni D’Ercole; “Il mito dell’eremita”, di Antonio Grano; “Il mito delle spoglie”, di Lia Giancristofaro.

Segue una Premessa dell’ Autore,che spiega le linee essenziali del libro: “Questo lavoro, attraverso una ricerca sul campo delle fonti, ma anche delle nuove interpretazioni basate su eventi recenti, vuol sondare, visti dalla particolare prospettiva del mito, alcuni aspetti cardine della “questione celestiniana”.

Il primo mito che si esamina è quella del “Pastor angelicus” (lo stile di vita durissimo, il rifiuto di ogni conforto materiale, la generosità verso i bisognosi), che lo resero noto alle genti, in un momento in cui la carità dei religiosi fu spesso l’unico aiuto per il popolo oppresso. Si sottolineano, anche, quelle guide (mitiche anche esse) che forgiarono la personalità di Celestino: Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Benedetto da Norcia, la madre Maria Leone.

Il secondo capitolo affronta un argomento molto interessante: il mito dei miracoli. Celestino fu, soprattutto,un grande taumaturgo. Le genti lo raggiungevano nei suoi luoghi solitari per chiedere il suo aiuto, per il corpo e per lo spirito; lui era generoso nel ricevere, anche se alle donne non permetteva di avvicinarsi, e intercedeva a distanza. Curiosa questa misoginia tenace in un uomo misericordioso: rivelatrice, forse, della sua fame di libertà e di solitudine, e di un’austerità spinta al limite estremo. Cui si contrapponeva, talvolta, un fare affettuoso e cordiale, come attesta questa testimonianza (pag.74): ”Pietro, soprattutto se non incontrava personalmente i malati, inviava loro pane e ostie, frutti, candele, crocette di legno e piccoli Pater noster di legno.”

Il terzo capitolo tratta del mito del “chiodo assassino”, nato dal foro che attraversa un punto del cranio del Santo. Qualcuno ipotizzò un assassinio ( per volontà di Bonifacio VIII), ma non ci sono prove sicure. Anche il chiodo, quindi, resta nel mito. Poi c’è il mito del tesoro ritrovato: Celestino affrontò coraggiosamente l’impresa della costruzione della basilica di Collemaggio. A chi gli chiedeva come avrebbe fatto, rispondeva: “Pietre e calce potranno mancare; ma non ci mancheranno i quattrini”. (pag 98) Allora ci si ricordò della leggenda del tesoro di Ovidio. Ma, esisteva realmente, questo tesoro? Non si può ipotizzare una provenienza meno leggendaria, visto che Celestino sapeva trovare tutte le strade, e raggiungere ogni meta?

Personalmente propenderei per questa seconda ipotesi, perché a me sembra che il Pastor Angelicus avesse molte frecce all’arco, e che fosse, oltre che un uomo di preghiera e un taumaturgo, un grande organizzatore. E soprattutto, un uomo dalla capacità di decidere, e di decidere in fretta. In quest’ottica, forse, va vista anche la sua rinuncia al papato: “rinuncia”, non “rifiuto”. Di fatto, Pietro Angelerio accettò di essere Papa, ma si dimise dall’incarico, quando capì di essere strumentalizzato a fini che lui non condivideva. Uno scatto di indipendenza, di dignità, un dissenso espresso senza mezzi termini. Si trattò di una presa di posizione ferma, di cui lui sapeva di dover pagare le conseguenze. E le pagò tutte, fino al martirio (e nel martirio c’è la testimonianza).

Bello il capitolo dedicato al codice celestiniano, codice a proposito del quale avevo già letto nelle bellissime pagine di Maria Concetta Nicolai (“L’acqua nuova”, Menabò, 2008, pp.87/90), dove il Santo è descritto mentre “siede davanti alla finestra aperta e legge il suo libro di preghiere”, l’unico oggetto amato da un uomo che disprezzava le cose, un libro ricoperto della stessa stoffa delle sue pantofole: un vezzo quasi impensabile, nell’alone di dura austerità che pare lo circondasse.

Con questa immagine soave mi piace chiudere questa nota ad un libro che merita di essere letto, perché consente di ripercorrere tutte le tappe salienti della “questione celestiniana”; e lo fa sulle orme di una intuizione intelligente: collocare nel mito ciò che è indicibile, ciò che sfugge alle regole della ragione: la quale resta sempre un valido appoggio, per la mente dell’uomo, un bastone da viaggio indispensabile per affrontare ogni salita. Ma certe volte, per arrivare alla vetta, ci vogliono le ali.




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