UN AQUILANO A NEW YORK
Mario Fratti, un grande nella drammaturgia mondiale
di Goffredo Palmerini
Suppongo si debba ad una simpatica congiura di palazzo – a taluni di questo palazzo – il fatto ch’io sia qui, ancora su questi banchi, avendoli appena lasciati dopo quasi trent’anni d’impegno istituzionale. D’altro canto Mario Fratti non avrebbe certo bisogno della modestia delle mie parole per essere degnamente illustrato, egli che è conosciuto, stimato ed apprezzato in tutto il mondo come uno dei più insigni scrittori per il teatro.
Nondimeno ho pretesa d’avere la competenza appena sufficiente per argomentare sulle qualità del drammaturgo. Valgano, dunque, queste poche note a testimoniare la fierezza e l’orgoglio d’un aquilano nell’aver percepito il prestigio che Mario Fratti vanta nell’ambiente letterario americano e nella drammaturgia mondiale. Un orgoglio condiviso con gli tutti gli Abruzzesi sparsi nei cinque continenti, nel constatare l’onore che Mario Fratti, come tanti altri corregionali in vari campi di attività, rendono alla loro terra d’origine.
Questa fu l’immediata impressione che l’Accademia dell’Immagine e l’Istituto Cinematografico, insieme alla Municipalità, ebbero nel 2004 nel corso della missione a New York, al fine di stabilire contatti con il Guggenheim Museum. Nel marzo dell’anno successivo, infatti, nella prestigiosa struttura Gabriele Lucci e Dante Ferretti, appena insignito dell’Oscar per il film “The Aviator”, presentarono il volume edito da Electa-Accademia dell’Immagine sul grande scenografo, con la partecipazione dei più grandi nomi del cinema americano.
Il Sindaco, Biagio Tempesta, e tutti noi avevamo già contezza del valore dello scrittore, nostro concittadino. Eppure toccammo con mano come in quella metropoli egli fosse figura culturale di così notevole rilievo, in un indimenticabile pomeriggio all’Istituto Italiano di Cultura. “Complice” Mario Fratti, la Città dell’Aquila e due delle sue prestigiose istituzioni culturali furono vere e proprie “star” in un evento che le mise al centro dell’interesse d’una importante parte della cultura nella Grande Mela.
D’altronde, come altrimenti potrebbe essere per un drammaturgo che ha scritto quasi un’ottantina di opere, tradotte in ventuno lingue - dal cirillico agli ideogrammi cinesi -, rappresentate in centinaia di teatri, dagli Stati Uniti al Canada, dal Messico al Venezuela, dall’Argentina al Brasile, dall’India alla Cina, dal Giappone alla Corea, dalla Russia all’Australia, dalla Scandinavia a tutti i Paesi, davvero tutti, della vecchia e nuova Europa, in ciascuna delle loro lingue. E dovunque per l’Autore teatrale sono stati successi strepitosi, riconoscimenti e premi, come il Selezione O’ Neil, il Richard Rogers, l’Outer Critics, l’Heritage and Culture, ben otto Drama Desk Awards. Ma soprattutto sette Tony Award , il riconoscimento più ambito e prestigioso, che nel teatro è come l’Oscar per il cinema.
Eppure in tale contesto, ai vertici della considerazione come scrittore, Mario Fratti non ha perso, e non perde, un briciolo della sua indole aquilana schietta, mantenendo un profilo di assoluta semplicità ed immediatezza nei rapporti umani, con un’enorme disponibilità a coltivare relazioni ed amicizie in ogni angolo del mondo, con l’umiltà tipica dei grandi personaggi. Ovunque dichiarando con orgoglio d’essere nato all’Aquila, il 5 luglio 1927, appunto ottanta anni fa.
Laureato alla Ca’ Foscari di Venezia, dopo giovanili esperienze poetiche ed un romanzo rimasto inedito, Fratti fa giornalismo fino a trent’anni. È questa l’età in cui decide d’avviarsi alla produzione di scritti drammatici. Del 1959, infatti, il suo primo dramma “Il nastro”, vincitore del premio RAI, mai radiotrasmesso per la crudezza della storia. Nel 1962, presente al Festival di Spoleto, il suo atto unico “Suicidio” viene immediatamente apprezzato da Lee Strasberg – figura cardine del teatro mondiale - che lo porta a New York, lo dirige e mette in scena all’Actor’s Studio.
In quella fucina delle avanguardie teatrali il dramma diventa un vero successo, cui ne seguono tanti altri della sua ricca produzione, fino ad oggi. Nel 1963 da Venezia Fratti va a New York. Insegnerà alla Columbia University ed all’Hunter College, fino ad alcuni anni fa. Soprattutto si affermerà grande drammaturgo, di casa a Broadway, le cui opere – come il musical “Nine” – sono capaci di rimanere in cartellone per anni, fino a duemila repliche!
Dal suo arrivo nella Grande Mela il successo lo rincorre. Ma è proprio questa la singolarità del “caso Fratti”. In America i riflettori sugli autori teatrali s’accendono giusto il tempo della rappresentazione a Broadway d’una loro buona opera. Poi l’interesse svanisce, talvolta per sempre. Ha quindi del sensazionale il consenso che da decenni hanno le opere di Fratti. Un destino che non è toccato neanche a grandi autori americani, come Tennessee Williams o Arthur Miller, riscoperti dopo la loro morte. Come pure a scrittori europei del calibro di Sartre, Anouilh, Brecht, Toller, Pirandello o Betti.
Della singolarità del “caso Fratti” offre una spiegazione Paul Nolan, nella presentazione critica all’antologia di sue opere, di recente pubblicata in Svizzera. In rapidi tratti Nolan illustra la storia della letteratura drammatica in America, che ha in Eugene O’ Neil, Thornton Weilder, Arthur Miller, Tennessee Williams e Edward Albee le sue punte di diamante, ma il cui successo negli States spesso è stato tardivo, sovente legato all’eco di qualche fortunata rappresentazione in Europa.
Giacché il teatro europeo, negli Stati Uniti, è stato sempre visto con molto rispetto ed ammirazione, benché non sempre gli autori europei, anche di prima grandezza, vi abbiano avuto fortuna. Davvero una curiosa difficoltà di relazione tra due letterature teatrali, tra due scuole e contesti artistici: quasi una sindrome da contaminazione del linguaggio e dell’espressione drammatica, quantunque comuni siano le radici culturali tra l’America ed il vecchio continente.
Nolan annota “ (...) Questa bizzarra relazione tra il teatro americano e quello europeo sembra aver stabilito la regola secondo cui il drammaturgo europeo ha la sua reputazione in America solo se resta “europeo”. Fortunatamente per il dramma moderno, Mario Fratti ha spezzato questa regola con un gran successo. Ha dimostrato che può fondere gli elementi della sua tradizione europea con l’esperienza americana, creando un tipo di dramma che fa onore ad entrambi i continenti. I futuri storiografi teatrali indicheranno probabilmente nella sua carriera di drammaturgo l’importante inizio di una nuova fase: lo sviluppo di una comunità teatrale veramente internazionale...”.
E ancora, “(...) È importante capire che il successo di Fratti, in un’avventura dove Brecht e Sartre fallirono, è dovuto al fatto che l’autore non ha portato solo la sua eredità drammatica europea ed il suo talento di drammaturgo. Ha anche portato in una nuova società simpatia, curiosità e giudizi umani (...) Fratti scrive come nessun autore americano potrà mai, perché porta alla sua comprensione della società americana non solo la compassione e l’indignazione morale di ogni uomo sensibile, ma anche la tolleranza presente solo in scrittori associati in un’antica civiltà...”.
D’altronde i drammi di Fratti hanno l’immediatezza della scrittura teatrale, asciutta e tagliente come la denuncia politica e sociale che egli vi trasfonde, senza veli. Sono lo specchio del disagio profondo della società americana, ma anche del sogno americano che egli sa esprimere meglio d’ogni altro autore. Questa, dunque, la cifra della sua scrittura, la sintonia con l’essenziale abitudine americana, lontana dalle metafore e dagli orpelli idiomatici della vecchia Europa.
Alla qualità della scrittura Fratti imprime poi alle sue opere significati davvero profondi, mai evasivi, sempre connotati dall’imprevedibilità della storia, il suo vero imprinting di scrittore. Inoltre non risparmiando critiche impietose e censure all’empireo politico americano, specie quando gli imputa responsabilità per i drammi della società e per l’infamia della guerra. Ne è un superbo esempio il dramma “Cecità”, che questa sera avremo l’opportunità d’apprezzare nell’interpretazione degli attori del Teatro Stabile d’Abruzzo. Valga per questa opera l’encomio di Harold Pinter, Nobel per la letteratura, che l’ha giudicata “tanto sintetica quanto eloquente”.
Semmai l’affermazione segnala ancora una volta il canone letterario di Fratti, che lascio descrivere alle sue parole: “(...) Ho scritto molti testi, almeno due l’anno. Vivo qui, scrivo in inglese e ciò non è trascurabile. Qui conosco un po’ tutti, anche per la mia attività di critico drammatico. Ho imparato, studiando i testi americani, che in teatro ciò che funziona non è il bel linguaggio, la letteratura, ma l’azione. Azione, chiarezza e conflitto ben risolto”.
Mario Fratti è dunque, nel suo riconosciuto prestigio in ogni continente, la più alta e più recente espressione nella storia della letteratura drammatica abruzzese, che specie nell’aquilano ha avuto una presenza significativa ed una tradizione di vero riguardo. Già secoli fa, alle proprie origini, nel Codice di Celestino, manoscritto su pergamena della comunità monastica di Santa Maria di Collemaggio risalente alla fine del Duecento, che secondo la tradizione appartenne a Pietro del Morrone. Quindi nel teatro medioevale, fino al Quattrocento, con il dramma liturgico, le laudi drammatiche e le sacre rappresentazioni della Passione. Ricordo come il TSA ebbe il merito di mettere in scena, nel 1978 e poi nel 1999, per la regia di Antonio Calenda – nostro concittadino onorario- proprio un testo trascritto d’autore anonimo, di cui restano le splendide interpretazioni di Elsa Merlini e Piera Degli Esposti, nel ruolo della Madonna, come magnifiche furono tutte le altre interpretazioni e l’originalità degli allestimenti scenici.
È dunque rilevante, nella drammaturgia abruzzese, il contributo degli autori aquilani. Nella seconda metà del Quattrocento con Serafino Aquilano e con i marsicani Marcantonio Epicuro e Giovanni Armonio Marso. Poi l’umanista Salvatore Massonio con il dialogo erudito e, nel secolo successivo, con il dramma sacro dell’abate Muzio Febonio. Nel Seicento il teatro metaforico del gesuita Francesco Zuccarone. Ed ancora, a cavallo tra Ottocento e Novecento, con Ettore Moschino, Achille Ricciardi, Daniele Properzi e Nicola Moscardelli. Fino a Mario Federici - drammaturgo aquilano da riscoprire e valorizzare - e ad Ignazio Silone che, insieme a Luigi Antonelli, Gabriele D’Annunzio, Ennio Flaiano, Mario Pomilio ed Eraldo Miscia, hanno connotato la grande fioritura della letteratura drammatica abruzzese del secolo scorso. Questa storia, appunto, ora si completa e si esalta, nel nuovo millennio, con Mario Fratti.
Così ha scritto Jean Servato sullo scrittore aquilano: "...Noi rendiamo merito a Mario Fratti, da questa vecchia Europa, anche se un oceano finge paratie insormontabili e ci fa credere lontane tali ferite: sono sempre lacerazioni umane che occorre sanare e che Fratti trascrive nei suoi drammi, con uno stile eccezionale, di altissima fattura, che lo pone accanto ad Arthur Miller, a Tennessee Williams, ad Eugene Jonesco, agli italiani Luigi Pirandello ed Ugo Betti, quale testimone attento, meticoloso, inimitabile del suo tempo, nel cuore, pur sempre stupendo, del ciclone America...".
Insomma, quella di Fratti appare sempre più una storia letteraria di lungo futuro. Quest’omaggio della città a Mario Fratti, si deve all’encomiabile sensibilità del Sindaco, Massimo Cialente, e della Presidente della Provincia, Stefania Pezzopane. Sono certo che Mario Fratti l’apprezza come il riconoscimento più gradito, più d’ogni altra gratificazione, per l’amore che lo lega fortemente ed indissolubilmente alla sua città natale. Vuole dunque essere, peraltro come questi modesti miei pensieri, il semplice, forte e sincero augurio per i suoi primi splendidi 80 anni.
Davvero con affetto, caro Mario, da tutti gli Aquilani.
L’Aquila, 5 luglio 2007
Discorso di Goffredo Palmerini,
il 5 luglio 2007, nell’aula consiliare del Municipio dell’Aquila
in occasione dei festeggiamenti aquilani
per gli 80 anni del drammaturgo di fama mondiale
il 5 luglio 2007, nell’aula consiliare del Municipio dell’Aquila
in occasione dei festeggiamenti aquilani
per gli 80 anni del drammaturgo di fama mondiale
Suppongo si debba ad una simpatica congiura di palazzo – a taluni di questo palazzo – il fatto ch’io sia qui, ancora su questi banchi, avendoli appena lasciati dopo quasi trent’anni d’impegno istituzionale. D’altro canto Mario Fratti non avrebbe certo bisogno della modestia delle mie parole per essere degnamente illustrato, egli che è conosciuto, stimato ed apprezzato in tutto il mondo come uno dei più insigni scrittori per il teatro.
Nondimeno ho pretesa d’avere la competenza appena sufficiente per argomentare sulle qualità del drammaturgo. Valgano, dunque, queste poche note a testimoniare la fierezza e l’orgoglio d’un aquilano nell’aver percepito il prestigio che Mario Fratti vanta nell’ambiente letterario americano e nella drammaturgia mondiale. Un orgoglio condiviso con gli tutti gli Abruzzesi sparsi nei cinque continenti, nel constatare l’onore che Mario Fratti, come tanti altri corregionali in vari campi di attività, rendono alla loro terra d’origine.
Questa fu l’immediata impressione che l’Accademia dell’Immagine e l’Istituto Cinematografico, insieme alla Municipalità, ebbero nel 2004 nel corso della missione a New York, al fine di stabilire contatti con il Guggenheim Museum. Nel marzo dell’anno successivo, infatti, nella prestigiosa struttura Gabriele Lucci e Dante Ferretti, appena insignito dell’Oscar per il film “The Aviator”, presentarono il volume edito da Electa-Accademia dell’Immagine sul grande scenografo, con la partecipazione dei più grandi nomi del cinema americano.
Il Sindaco, Biagio Tempesta, e tutti noi avevamo già contezza del valore dello scrittore, nostro concittadino. Eppure toccammo con mano come in quella metropoli egli fosse figura culturale di così notevole rilievo, in un indimenticabile pomeriggio all’Istituto Italiano di Cultura. “Complice” Mario Fratti, la Città dell’Aquila e due delle sue prestigiose istituzioni culturali furono vere e proprie “star” in un evento che le mise al centro dell’interesse d’una importante parte della cultura nella Grande Mela.
D’altronde, come altrimenti potrebbe essere per un drammaturgo che ha scritto quasi un’ottantina di opere, tradotte in ventuno lingue - dal cirillico agli ideogrammi cinesi -, rappresentate in centinaia di teatri, dagli Stati Uniti al Canada, dal Messico al Venezuela, dall’Argentina al Brasile, dall’India alla Cina, dal Giappone alla Corea, dalla Russia all’Australia, dalla Scandinavia a tutti i Paesi, davvero tutti, della vecchia e nuova Europa, in ciascuna delle loro lingue. E dovunque per l’Autore teatrale sono stati successi strepitosi, riconoscimenti e premi, come il Selezione O’ Neil, il Richard Rogers, l’Outer Critics, l’Heritage and Culture, ben otto Drama Desk Awards. Ma soprattutto sette Tony Award , il riconoscimento più ambito e prestigioso, che nel teatro è come l’Oscar per il cinema.
Eppure in tale contesto, ai vertici della considerazione come scrittore, Mario Fratti non ha perso, e non perde, un briciolo della sua indole aquilana schietta, mantenendo un profilo di assoluta semplicità ed immediatezza nei rapporti umani, con un’enorme disponibilità a coltivare relazioni ed amicizie in ogni angolo del mondo, con l’umiltà tipica dei grandi personaggi. Ovunque dichiarando con orgoglio d’essere nato all’Aquila, il 5 luglio 1927, appunto ottanta anni fa.
Laureato alla Ca’ Foscari di Venezia, dopo giovanili esperienze poetiche ed un romanzo rimasto inedito, Fratti fa giornalismo fino a trent’anni. È questa l’età in cui decide d’avviarsi alla produzione di scritti drammatici. Del 1959, infatti, il suo primo dramma “Il nastro”, vincitore del premio RAI, mai radiotrasmesso per la crudezza della storia. Nel 1962, presente al Festival di Spoleto, il suo atto unico “Suicidio” viene immediatamente apprezzato da Lee Strasberg – figura cardine del teatro mondiale - che lo porta a New York, lo dirige e mette in scena all’Actor’s Studio.
In quella fucina delle avanguardie teatrali il dramma diventa un vero successo, cui ne seguono tanti altri della sua ricca produzione, fino ad oggi. Nel 1963 da Venezia Fratti va a New York. Insegnerà alla Columbia University ed all’Hunter College, fino ad alcuni anni fa. Soprattutto si affermerà grande drammaturgo, di casa a Broadway, le cui opere – come il musical “Nine” – sono capaci di rimanere in cartellone per anni, fino a duemila repliche!
Dal suo arrivo nella Grande Mela il successo lo rincorre. Ma è proprio questa la singolarità del “caso Fratti”. In America i riflettori sugli autori teatrali s’accendono giusto il tempo della rappresentazione a Broadway d’una loro buona opera. Poi l’interesse svanisce, talvolta per sempre. Ha quindi del sensazionale il consenso che da decenni hanno le opere di Fratti. Un destino che non è toccato neanche a grandi autori americani, come Tennessee Williams o Arthur Miller, riscoperti dopo la loro morte. Come pure a scrittori europei del calibro di Sartre, Anouilh, Brecht, Toller, Pirandello o Betti.
Della singolarità del “caso Fratti” offre una spiegazione Paul Nolan, nella presentazione critica all’antologia di sue opere, di recente pubblicata in Svizzera. In rapidi tratti Nolan illustra la storia della letteratura drammatica in America, che ha in Eugene O’ Neil, Thornton Weilder, Arthur Miller, Tennessee Williams e Edward Albee le sue punte di diamante, ma il cui successo negli States spesso è stato tardivo, sovente legato all’eco di qualche fortunata rappresentazione in Europa.
Giacché il teatro europeo, negli Stati Uniti, è stato sempre visto con molto rispetto ed ammirazione, benché non sempre gli autori europei, anche di prima grandezza, vi abbiano avuto fortuna. Davvero una curiosa difficoltà di relazione tra due letterature teatrali, tra due scuole e contesti artistici: quasi una sindrome da contaminazione del linguaggio e dell’espressione drammatica, quantunque comuni siano le radici culturali tra l’America ed il vecchio continente.
Nolan annota “ (...) Questa bizzarra relazione tra il teatro americano e quello europeo sembra aver stabilito la regola secondo cui il drammaturgo europeo ha la sua reputazione in America solo se resta “europeo”. Fortunatamente per il dramma moderno, Mario Fratti ha spezzato questa regola con un gran successo. Ha dimostrato che può fondere gli elementi della sua tradizione europea con l’esperienza americana, creando un tipo di dramma che fa onore ad entrambi i continenti. I futuri storiografi teatrali indicheranno probabilmente nella sua carriera di drammaturgo l’importante inizio di una nuova fase: lo sviluppo di una comunità teatrale veramente internazionale...”.
E ancora, “(...) È importante capire che il successo di Fratti, in un’avventura dove Brecht e Sartre fallirono, è dovuto al fatto che l’autore non ha portato solo la sua eredità drammatica europea ed il suo talento di drammaturgo. Ha anche portato in una nuova società simpatia, curiosità e giudizi umani (...) Fratti scrive come nessun autore americano potrà mai, perché porta alla sua comprensione della società americana non solo la compassione e l’indignazione morale di ogni uomo sensibile, ma anche la tolleranza presente solo in scrittori associati in un’antica civiltà...”.
D’altronde i drammi di Fratti hanno l’immediatezza della scrittura teatrale, asciutta e tagliente come la denuncia politica e sociale che egli vi trasfonde, senza veli. Sono lo specchio del disagio profondo della società americana, ma anche del sogno americano che egli sa esprimere meglio d’ogni altro autore. Questa, dunque, la cifra della sua scrittura, la sintonia con l’essenziale abitudine americana, lontana dalle metafore e dagli orpelli idiomatici della vecchia Europa.
Alla qualità della scrittura Fratti imprime poi alle sue opere significati davvero profondi, mai evasivi, sempre connotati dall’imprevedibilità della storia, il suo vero imprinting di scrittore. Inoltre non risparmiando critiche impietose e censure all’empireo politico americano, specie quando gli imputa responsabilità per i drammi della società e per l’infamia della guerra. Ne è un superbo esempio il dramma “Cecità”, che questa sera avremo l’opportunità d’apprezzare nell’interpretazione degli attori del Teatro Stabile d’Abruzzo. Valga per questa opera l’encomio di Harold Pinter, Nobel per la letteratura, che l’ha giudicata “tanto sintetica quanto eloquente”.
Semmai l’affermazione segnala ancora una volta il canone letterario di Fratti, che lascio descrivere alle sue parole: “(...) Ho scritto molti testi, almeno due l’anno. Vivo qui, scrivo in inglese e ciò non è trascurabile. Qui conosco un po’ tutti, anche per la mia attività di critico drammatico. Ho imparato, studiando i testi americani, che in teatro ciò che funziona non è il bel linguaggio, la letteratura, ma l’azione. Azione, chiarezza e conflitto ben risolto”.
Mario Fratti è dunque, nel suo riconosciuto prestigio in ogni continente, la più alta e più recente espressione nella storia della letteratura drammatica abruzzese, che specie nell’aquilano ha avuto una presenza significativa ed una tradizione di vero riguardo. Già secoli fa, alle proprie origini, nel Codice di Celestino, manoscritto su pergamena della comunità monastica di Santa Maria di Collemaggio risalente alla fine del Duecento, che secondo la tradizione appartenne a Pietro del Morrone. Quindi nel teatro medioevale, fino al Quattrocento, con il dramma liturgico, le laudi drammatiche e le sacre rappresentazioni della Passione. Ricordo come il TSA ebbe il merito di mettere in scena, nel 1978 e poi nel 1999, per la regia di Antonio Calenda – nostro concittadino onorario- proprio un testo trascritto d’autore anonimo, di cui restano le splendide interpretazioni di Elsa Merlini e Piera Degli Esposti, nel ruolo della Madonna, come magnifiche furono tutte le altre interpretazioni e l’originalità degli allestimenti scenici.
È dunque rilevante, nella drammaturgia abruzzese, il contributo degli autori aquilani. Nella seconda metà del Quattrocento con Serafino Aquilano e con i marsicani Marcantonio Epicuro e Giovanni Armonio Marso. Poi l’umanista Salvatore Massonio con il dialogo erudito e, nel secolo successivo, con il dramma sacro dell’abate Muzio Febonio. Nel Seicento il teatro metaforico del gesuita Francesco Zuccarone. Ed ancora, a cavallo tra Ottocento e Novecento, con Ettore Moschino, Achille Ricciardi, Daniele Properzi e Nicola Moscardelli. Fino a Mario Federici - drammaturgo aquilano da riscoprire e valorizzare - e ad Ignazio Silone che, insieme a Luigi Antonelli, Gabriele D’Annunzio, Ennio Flaiano, Mario Pomilio ed Eraldo Miscia, hanno connotato la grande fioritura della letteratura drammatica abruzzese del secolo scorso. Questa storia, appunto, ora si completa e si esalta, nel nuovo millennio, con Mario Fratti.
Così ha scritto Jean Servato sullo scrittore aquilano: "...Noi rendiamo merito a Mario Fratti, da questa vecchia Europa, anche se un oceano finge paratie insormontabili e ci fa credere lontane tali ferite: sono sempre lacerazioni umane che occorre sanare e che Fratti trascrive nei suoi drammi, con uno stile eccezionale, di altissima fattura, che lo pone accanto ad Arthur Miller, a Tennessee Williams, ad Eugene Jonesco, agli italiani Luigi Pirandello ed Ugo Betti, quale testimone attento, meticoloso, inimitabile del suo tempo, nel cuore, pur sempre stupendo, del ciclone America...".
Insomma, quella di Fratti appare sempre più una storia letteraria di lungo futuro. Quest’omaggio della città a Mario Fratti, si deve all’encomiabile sensibilità del Sindaco, Massimo Cialente, e della Presidente della Provincia, Stefania Pezzopane. Sono certo che Mario Fratti l’apprezza come il riconoscimento più gradito, più d’ogni altra gratificazione, per l’amore che lo lega fortemente ed indissolubilmente alla sua città natale. Vuole dunque essere, peraltro come questi modesti miei pensieri, il semplice, forte e sincero augurio per i suoi primi splendidi 80 anni.
Davvero con affetto, caro Mario, da tutti gli Aquilani.
L’Aquila, 5 luglio 2007
Goffredo Palmerini
componente del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo
componente del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo