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LA CITTÀ E LA SUA GENTE

Mappa della città
di ATTILIO MARIA CECCHINI
Dal libro ”L’Aquila città del novantanove” (L’Aquila 1972, G.Tazzi Editore)
saggio ripreso anche nel libro ”Da Tragnone a Fidel Castro” (L’Aquila 2004, Textus Edizioni)


Se la forza storica e la suggestione di una città sono anche legate al mito delle sue origini, hanno ragione gli aquilani quando si rifiutano di dissacrare la leggenda, secondo cui la loro ”polis” scaturì dalla incastellazione delle novantanove genti dell’immediato contado, attorno alla metà del XIII secolo, sulla collina ancor oggi coronata dalle medioevali mura urbiche. E cosi il ”99” è divenuto la cifra cabalistica dell’Aquila, il suo simbolo pitagorico: novantanove piazze e chiese, novantanove bocche della Fontana della Rivera, novantanove rintocchi vespertini dalla Torre di Palazzo.

Da allora una vicenda singolare di oltre settecento anni ha dato alla città una impronta precisa, un volto assolutamente originale, un carattere irripetibile: ”castigliana” nella natura e nell’anima, severa e scorbutica, insofferente e sdegnosa.

L’”aquilanità” è una sostanza personale, è una temperie morale e civile, fatta di orgoglio, di fierezza, di scarse parole secche e pungenti, di icastico vernacolo, di dignitosa gentilezza e di nobiltà.

In un mondo entro cui il ”particolare” sembra irrimediabilmente fare naufragio nel più anodino ”generale”, L’Aquila- ”Immota Manet”, come ammonisce il suo stemma- resta un’isola ancorata allo spirito medioevale, comunitario e individualista, turbolento, fazioso, mistico e libertario, pragmatico, baronale e democratico insieme. Sono questi i tratti che ispirano la costante delle sue vicissitudini storiche. Angioina e sveva, guelfa e ghibellina.

«Era la città dell’Aquila in modo sottoposta al regno di Napoli, che quasi libera viveva», lo ha scritto Niccolò Machiavelli (Istorie Fiorentine, Libro VIII). E gliene rende vivacissima testimonianza quell’Alonzo de Contreras, incaricato nel febbraio del 1632 dal Viceré di punire «la città di Aquila, che è tra le maggiori del regno, perché i suoi abitanti avevano mancato di rispetto al Vescovo». «Questa città- annota il capitano di ventura spagnolo- è cosi disobbediente, per trovarsi ai confini del territorio di Roma, che quasi non riconosce il Re» (Alonzo de Contreras, Le Avventure del Capitano, Ediz. Longanesi 1968).

Il re, dunque, «disegnava ridurre L’Aquila interamente all’ubbidienza», prosegue il Segretario Fiorentino, e cominciò con l’imprigionare l’aquilano Conte di Montorio. «Questa cosa come fu nota all’Aquila- narra il Machiavelli- alterò tutta quella città, e prese popolarmente l’arme, fu morto Antonio Cencinello commissario del re, e con quello alcuni cittadini, i quali erano conosciuti a quella maestà partigiani».

È il celebre episodio della ”Congiura dei Baroni” (1468) che rischiò di sconvolgere il difficile equilibrio politico della penisola, di cui s’era fatto ago ed arbitro Lorenzo il Magnifico.

E forse ancor più significativo è l’altrettanto celebre topico della lotta tra bracceschi e aquilani. Braccio da Montone intendeva insignorirsi della città e forse del regno, «e se non era rotto e morto all’Aquila, gli riusciva» commenta sempre Niccolò Machiavelli (Dell’Arte della Guerra, Libro Primo).

Venne Braccio all’Aquila forte dell’appoggio di Nicolò Piccinino, Malatesta Baglioni, il Gattamelata, il Conte Brandolino. Entro le mura Antonuccio Camponeschi arma i cittadini, ed attende l’arrivo dell’alleato Jacopo Caldora. Con l’animoso abruzzese di Castel di Sangro erano Francesco, e Ludovico Sforza, il Conte Acquaviva, Ludovico Colonna e Francesco Caracciolo. In capo ad un anno di duro assedio, finalmente lo scontro in campo aperto. «Quando vide gli uomini di Caldora schierati alle spalle dei bracceschi nella piana dell’Aterno, Antonuccio fece un’irresistibile sortita coi suoi aquilani. I bracceschi, presi tra i due eserciti, subirono una irreparabile sconfitta. Braccio cadde da prode sul campo il 12 giugno 1424». Così scrive Panfilo Gentile, e commenta: «Questa battaglia fu una vera parata di condottieri; vi trovarono gloria tutti i più celebri capitani dell’epoca». Ma più importante è annotare che con la morte di Braccio s’infransero contro le mura aquilane i deliri di conquista e di potenza delle ”Compagnie di ventura”, protagoniste di un esaltante capitolo della storia d’Italia.

Di simili avvenimenti è intessuta la vicenda civile dell’Aquila, popolo ”bravo” si direbbe in spagnolo, animoso e passionale. Memorabili restano le guerre intestine tra le famiglie dei Camponeschi, dei Pretatti, dei Roiani, dei Gaglioffi, che tanto imparentano L’Aquila a Firenze, sicché, se Curzio Malaparte le avesse conosciute, non avrebbe esitato ad associarci, al pari degli umbri, alla ”nazione toscana”. Così pure sono consegnate alla storia le figure dei signori aquilani di statura rinascimentale, tra cui primeggia un Lalle Camponeschi, che il pugnale spense nel 1354 al colmo della fortuna, vezzeggiato da monarchi e incontrastato dominatore di mezzo reame.

Questo cipiglio, tanta arditezza e facinorosità, se si vuole, alimentano le numerose ”spedizioni punitive” contro Leonessa, Cittaducale, Rieti, Amatrice, Montereale, Pendenza, Antrodoco, condotte dalle schiere aquilane per rappresaglia o sopraffazione. «Ad reprimendam audaciam aquilanorum» Carlo V impose a loro spese la edificazione di quel capolavoro di architettura militare che è la fortezza spagnola.

E tali connotati caratterizzano ogni manifestazione della vita cittadina. Si tramanda, ad esempio, che L’Aquila sia stata la ”plaza de toros” più famosa e più calda d’Italia, quando tra il 1400 ed il 1500 la tauromachia ebbe larga voga anche da noi. All’Aquila si celebrarono corride memorande, ed in una di esse il toro ebbe la meglio sul torero infilzandolo.

Altrettanta partecipazione si ritrova nella storia religiosa della città, che ebbe diffusa rinomanza per le processioni e per le sacre rappresentazioni che vi si tenevano, per lo stuolo di Santi e di Beati che la predilissero, per gli ordini, i monasteri, i conventi e le confraternite che la popolavano. E non pare azzardato individuare la matrice di siffatti tradizione e carattere, nella verticale vicenda celestiniana che rimonta agli albori della comunità aquilana, e che espresse l’ultima vampata della spiritualità medioevale.

Erano i secoli che avevano visto inasprirsi fino allo scisma il confronto tra la ”Ecclesia spiritualis” degli agostiniani, dei catari, patarini, arnaldisti e valdesi, di Francesco d’Assisi, Gioacchino da Fiore e Pietro del Morrone, e la ”Ecclesia carnalis” dei politici e dei canonisti.

Ebbene, l’ultimo atto di quel confronto, decisivo per l’avvenire dell’umanità, ebbe per teatro L’Aquila: «Il corteo fastoso dei cardinali, di alti dignitari della Chiesa, di principi, che si snodò attraverso le strade della Campania verso gli altopiani d’Abruzzo, per accompagnare il papa fino alla sua solenne incoronazione, avvenuta all’Aquila in Santa Maria di Collemaggio, rappresentò il supremo omaggio tributato dal torbido mondo politico del secolo tredicesimo alla purezza dell’ideale pauperistico» (Raffaello Morghen, Medioevo Cristiano, Laterza 1970).

Il 29 agosto 1294 fu il canto del cigno d’un’epoca, di una concezione della vita e della morte: e gli aquilani ne rappresentarono il coro attorno al fragile protagonista, quel Celestino V che in capo a cinque mesi avrebbe opposto il ”gran rifiuto” alle pressioni del temporalismo, alla marea montante delle esigenze nuove. Gli succedette, infatti, il colossale personaggio che fu Bonifacio VIII, massimo campione dell’altra ”Ecclesia”.

In più di una contingenza storica, quindi, L’Aquila ebbe a trovarsi nell’occhio del ciclone.

E non fu grande solo per questo.

La geografia la volle punto nevralgico sull’asse Firenze- Napoli e tanto vicina alla Roma papale, che divenne ragguardevole proprio in forza dell’influenza che esercitò nel gioco politico delle maggiori potenze del tempo: la Firenze medicea, il Reame di Napoli e lo Stato Pontificio.

Cavalcando per quindici giorni dall’alba al tramonto da Firenze, attraverso Perugia, Terni, Rieti, L’Aquila, Sulmona e Teano, si raggiungeva Napoli per l’unica via di terra possibile. Il che pose L’Aquila al centro di una vera e propria ”carovaniera” che funse da cerniera tra nord e sud e da ponte per lo scambio delle idee e delle esperienze. Favorita dalle comunicazioni, fiorente e doviziosa nell’industria della lana e dello zafferano, come nell’artigianato più vario e nei commerci e nella finanza, L’Aquila assurse nei secoli XIV e XV al rango dei più illustri Comuni d’Italia, e fu gelosissima dei molti ”privilegi” conseguiti per merito oppure strappati con la forza. Ebbe la stessa popolazione di Firenze e di Genova, non di molto inferiore a Napoli, Milano, Venezia e Palermo.

La vita cittadina, articolata in esemplari magistrature, statuti e corporazioni, si svolse operosa nella prosperità e nel fervore collettivo. Lo stanno a testimoniare le sue grandi vestigia: la Fontana delle 99 Cannelle, le mura, la Basilica di Collemaggio, quella di San Bernardino, il Palazzo civico, i templi rionali, per non parlare che dei monumenti sopravvissuti ai catastrofici terremoti che l’afflissero.

Sarebbe incomprensibile siffatta imponente mole di realizzazioni architettoniche, senza evocare lo sforzo e l’impegno dell’intera cittadinanza e soprattutto il contributo finanziario dei ricchi e dei potenti. Unicamente rigogliose ed opulente comunità civiche sarebbero state capaci, in quei tempi, di voltar cupole, innalzare torri e campanili, edificare palazzi e cattedrali simili alle gemme di questa città.

Oggi, tanto glorioso passato si legge nella patina d’oro che al tramonto dona luminosità alle stupende fronti delle chiese aquilane.

E si legge fin nel volto dell’umile popolano, caustico testimone di un’epoca che declina: altero, signore, saggio, diffidente e maestro di arguzia, ospitale ed aperto quant’altri mai, sempre però con misura e senza piaggeria, ”snobbatore” per eccellenza di vivi e di morti, leale ma tignoso, fulmineo alla protesta ed alla sobillazione contro chiunque osi fare torto all’«Aquila bella sé» (la sua Aquila bella).

Questa la città, questa la sua gente.

Chi voglia assaporarne le intime, intense seduzioni, raggiunga e riscopra i solenni monumenti del passato per i segreti, tortuosi ed animati vicoli, chiassetti, sdruccioli ed archi dei quartieri medioevali, lungo un ideale itinerario che risalga il tempo sino ai confini della cabala e della leggenda.

Soltanto cosi il ”novantanove” cesserà di essere un numero.




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