LogoLogo

L’AQUILA CITTA’ MEDIEVALE NELL’EUROPA DEL TERZO MILLENNIO

Mappa della città
diAmedeo Esposito
Dal libro ”L’Aquila città del novantanove” (L’Aquila 1972, G.Tazzi Editore)


Un aquilano se cerca un’altra parola per dire ”armonia europea” trova soltanto L’Aquila. ”Malinconiosa come una cometa”, che pensa e fa pensare alla bellezza d’un tempo come ”nelle anamòrfosi dei manieristi, con una smorfia di eterno rimpianto per quel che fu”, fin dal suo primo sorgere e per quattro secoli (1200-1500).Così, nel novero delle città medievali che ”illuminano” l’Europa d’oggi, L’Aquila è entrata con la sua storia del costume, non meno di quella della sua arte passata.

Forse ideata da Federico II, distrutta da Manfredi, ricostruita più vasta e libera da Carlo I d’Angiò, principiò nei primi del 1200 dalle genti Vestine e da quelle derivate da Amiternum, terra natia di Caio Crispo Sallustio (86-35 a C.).

Inserita nella ”logica europea federiciana”, che volle nuove città su fondi imperiali, quali Francoforte, Ratisbona e Ulm (nata nella medesima conurbazione e negli stessi anni dell’Aquila) in Germania; Augusta in Sicilia, Altamura in Puglia, Vittoria in Emilia (distrutta poi da Parma) e Macerata nelle Marche, fu compresa nel vasto processo di modernizzazione europea di allora. Crebbe così vertiginosamente. Anche per gli amplissimi contatti internazionali e nazionali, dovuti agli illuminati governanti venuti dalla Francia e dalla Germania, ed alla ”civiltà guelfa” che, attraverso Napoli, Roma e Firenze, guardava sostanzialmente alla società francese. Raggiungendo primati unici, come nel caso del monumento civico duecentesco della ”Fontana delle 99 cannelle” (1270), il reperto archeologico industriale più antico d’Europa.

Con i 99 getti precipitanti e con il loro amalgamarsi in un’unica distesa d’acqua, infatti, si volle comporre la plastica e durevole immagine della fondante confluenza d’intenti dei castelli federati che costruirono la città e crearono per gli abitanti un futuro di prosperità e sicurezza.

Al centro del paramento della fontana c’è un’iscrizione latina che, tradotta, dice:
Se apprezzi quest’opera egregia/ lodane ogni aspetto/ ma non stupirti dell’opera/ ammirane piuttosto i patroni/ che il lavoro e l’onestà/ fanno essere cittadini dell’Aquila.

Esprime la felicità e l’orgoglio degli aquilani per la realizzazione del ”primo gioiello della città”, che evoca, nel numero forse cabalistico delle ”cannelle”, il simbolo di sempre ed indelebile dell’ Aquila: 99 piazze, 99 chiese e 99 fontane.

L’acqua che vi sgorga, indotta da un capolavoro di ingegneria idraulica, ancor oggi studiata, servì dapprima i mulini, quindi le industrie della lana e delle pelli, per poi, tra Ottocento e Novecento, passare al lavaggio industriale delle divise degli eserciti borbonico, piemontese e italiano fino alla seconda guerra mondiale. La fontana, vero ”inno all’acqua”, visse e vive anche momenti ricreativi e scenografici. Fra il 1510 e il 1518, per esempio, fu scenario per le nozze (con serenate, danze e banchetti) di Alessandra Piccolomini e per quelle del fratello Alfonso duca d’Amalfi con Costanza d’Avalos. E scena è tornata negli ultimi anni per concerti di musica e rappresentazioni teatrali.

Su questo ”inno” si innestarono, secolo dopo secolo, le espressioni più vive della scienza e dell’intelletto umano, a cominciare da quelle di Buccio di Ranallo autore della cronaca rimata (1253-1362) sul primo secolo di vita della ”Città nova”, che precedette di diversi anni quelle quindici analoghe cronache in volgare che conta la letteratura italiana. Ma alimentò anche tantissimi successivi movimenti spirituali, ch’ebbero principio con l’avvenimento più eclatante per il mondo cristiano del tempo: l'incoronazione (1294) di Papa Celestino V, protagonista poi delle più clamorose dimissioni della storia per aver deposto la tiara dopo poco meno di sei mesi di pontificato, non già per viltà, ma per profonda umiltà. Alla città ed al mondo Celestino V° donò la bolla del perdono, il cui «immenso valore per la pace universale» ispirò Bonifacio VIII che indisse il primo giubileo della Chiesa nel 1300, e che ancora permane, dopo 706 anni, nel 28/mo grande Giubileo del 2000.

I monaci celestini, rapportandosi al francescanesimo, dall’Aquila e Sulmona perpetuarono per oltre quattro secoli la siloniana ”avventura del povero Cristiano”, in Italia, a Parigi, Avignone, Lione ed in tutta la Boemia. Dalla basilica di Collemaggio, illuminati abati, i più famosi di origine francese, illustrarono Aquila al resto dell’Europa.

Aveva 5 km di cinta muraria e 60 mila abitanti, quando Firenze, la più grande città italiana, ne contava poco più di 100 mila. Ebbe grandissimi privilegi, primo fra tutti quello di battere moneta. Costruì la piazza grande (piazza Duomo), la più ampia di quelle esistenti allora in Italia, ad eccezione di piazza del Campo a Siena e piazza Navona a Roma.

Il tedesco Adamo da Rottweil, discepolo di Gutenberg, vi aprì la prima tipografia del Centro-Sud (1482).Trovò all’Aquila, nel loro quartiere ora di S Marciano, numerosi suoi conterranei dediti al commercio dello zafferano, la cui permanenza in città durò circa 4 secoli.
L’Aquila entrò anche nella logica europea del suo più grande santo, Giovanni da Capestrano (1386-1456), riformatore, con S.Bernardino da Siena, della Regola francescana. Frate Giovanni Giantedeschi, nella prima metà del ’400, postosi alla difesa della cristianità contro le invasioni delle orde di Maometto II, intuì «un’Europa unica o della Grande Austria, sotto il governo dinastico degli Asburgo». Dal suo pulpito del duomo viennese di Santo Stefano, il ”difensore di Vienna”, parlò molto della sua amata Aquila, ”grande e popolosa città, però assai incline alla ribellione e alle liti”. Di lì sollecitò gli aquilani, allora ricchi per il commercio delle lane ma ancor più dello zafferano, ad innalzare quel grande monumento che è la basilica Bernardiniana, dove sono custodite le spoglie del Santo senese, morto all’Aquila nel 1444.

La vita aquilana non fu mai pacifica, ma ebbe corale forza per resistere prima e uccidere poi Braccio Fortebraccio da Montone. Fu resistenza e guerra (1426-1424) contro un invasore che compì ”atti di inaudita infamia contro gli inermi”. Nell’aprile del 1424, espugnò e distrusse i castelli di S.Pio e di Barisciano, le cui donne, poco più di cento, dopo essere state stuprate dai soldati, denudate furono condotte, con i loro bambini per mano o in braccio, sotto le mura dell’Aquila. Un’ offesa che colpì profondamente il sentimento degli aquilani, delle donne in particolare. Lenita un mese dopo, solo con l’uccisione violenta, sotto le stesse mura, del malvagio Signore di Perugia.

Fu dunque città immersa nella cultura europea che nei secoli fu ”fissata” nel tessuto urbano e nei monumenti, e ”conservata” con tenacia, finché, nei primi del Cinquecento, non sopravvenne il buio della secolare ”notte spagnola”. Fu ridotta rudere di sé, per l’infeudamento a capitani spagnoli di tutto il circondario - fino ad allora linfa vitale per la sua esistenza - e la costruzione, a cui fu indotta a sacrificare uomini, denaro e due quartieri, del castello-fortezza (1534) progettato da Pirro Aloysio Scrivà, presidio della ”normalizzazione” spagnola e simbolo della perenne resa aquilana.

Trentatré anni dopo, sperò di tornare a comunicare con l’Europa, pensando di divenire capitale morale degli stati farnesiani abruzzesi, in seguito alla nomina a governatrice perpetua di Aquila (1567) di Madama Margarita d’Austria, figlia naturale di Carlo V, destituita dal governo delle Fiandre dal fratello Filippo II. Il ”beve sogno” svanì nel gennaio del 1586 con la morte ad Ortona di Margarita.

Lenta ed inesorabile, anche nel secolo successivo, fu la decadenza non solo economica, ma anche ”d’ogni sapere e d’ogni più nobile speranza”: dalla scienza alla filosofia, alle arti, alla musica. Per quest’ultima ”sommo” fu Ser Marco dall’Aquila (1480-1538) ”sonador de lauto” a Venezia, oggi tornato nel mondo musicale dell’America e dell’Europa.

Secondo Salvatore Natoli, ”catastrofe” non è solo sinonimo di ”disastro”, significa anche ”rovesciamento”. In entrambi i casi una ”fine”, ma anche un ”nuovo inizio” o per lo meno l’acquisizione di una nuova prospettiva sul mondo. Quella ch’ebbero certamente i superstiti del disastroso terremoto del 2 febbraio 1703, nel decidere la ricostruzione della città, pur privata di seimila (tanti furono i morti) dei quindicimila abitanti, proiettandola così nel secolo dei lumi e farla proseguire fino a noi. Ricostruzione ch’ebbe protagonista soprattutto l’aristocrazia armentaria e mercantile, a cui si unirono, quasi in competizione, i nuovi ricchi alla ricerca di titoli nobiliari. Per ripicca - si dice - Gian Lorenzo Centi, uomo d’affari di Montereale, costruì il suo palazzo, ”sintesi del barocco dell’Aquila”, dinanzi alla chiesa di Santa Giusta, accanto alla dimora rinascimentale dei nobili Dragonetti, i quali rifiutarono la sua proposta di matrimonio fatta ad una dama dell’antica famiglia.

Il palazzo Centi è oggi sede della Giunta Regionale Abruzzese.

La continuità storica settecentesca della città si ”legge” diffusamente ammirando i palazzi gentilizi, che con provvidi interventi sono stati restituiti tutti all’antico splendore, e ancor più nel ”piccolo Beaubourg d’Abruzzo” della fortezza spagnola, dove nell’ultimo cinquantennio è stato aperto «un gran libro museale», entro cui sono racchiuse anche le opere di tutti i grandi artistici abruzzesi e non che operarono in città ”a gloria di Dio, e a gloria dell’Aquila”. Mancano purtroppo entro questi ”sacrari” le opere disperse nel tempo, a cominciare dalla ”Visitazione” che Raffaello dipinse nel 1519 per Marino Branconio, oggi esposta al museo del Prado di Madrid; come il ”Calvario” (1487) di Niccolò Liberatore, detto l’Alunno, ora alla galleria nazionale di Londra. E inoltre tutte le perdute opere delle gallerie dei palazzi gentilizi, fra cui quella più cospicua (Caravaggio, Guercio, Spagnoletta, Reni, Reuter, Luino, Veronese, Brughel e della scuola fiamminga, etc.) degli Antonelli-de Torres-Dragonetti. Pezzi pregevoli di essa ancor oggi sono ”battuti” nelle aste di Sotheby’s o di Christie's.

Questa ”diaspora della memoria” è stata da tempo bloccata, in conseguenza del restauro e rivitalizzazione di tanti ”scrigni di tesori d’arte e di cultura”, quale l’ex monastero Tre-quattrocentesco delle Clarisse di clausura di Santa Chiara Povera di via Sassa.

Umberto Eco afferma che: ”Una biblioteca è la casa più vicina alla mente divina”. E sono certamente ”memoria” e ”casa più vicina alla mente divina” le tante biblioteche private, conventuali (S.Chiara, S.Giuliano, S.Bernardino), ed in particolare quella provinciale ”Salvatore Tommasi”. Entro cui i ”tesori di carta” testimoniano degli uomini e ”delli milliuri aquilani” che hanno concorso a recuperare tutti i saperi e di disporli secondo odine e bellezza, come Platone pensava dovessero essere disposte le idee degne di contemplazione.

Da esse l’ ”avventura aquilana medievale”, nella modernità, sembra aver ripreso il cammino, non senza difficoltà, entro un circuito virtuoso fatto di alta cultura musicale, teatrale, cinematografica ed artistica. Circuito che ingloba, sul piano dell’attuale economia, la ricerca scientifica mondiale fatta sotto il Gran Sasso; la vocazione ormai acclarata della città a polo elettronico; gli elevati studi svolti nella più europea delle ”cattedrali del sapere” che è la Scuola superiore ”Reiss-Romoli”. E che sembra coinvolgere la riscoperta dei valori fondanti della città da parte delle ultimissime generazioni di cittadini che vanno dichiarandosi attenti alle mete europee prospettate dal terzo millennio.




Segui Angelo De Nicola su Facebook