PENSATA E DISEGNATA COME GERUSALEMME
di Errico Centofanti
Dalla rivista “Bell’Italia”, Milano
La forma della città, cioè quell'insieme organico creato dal disegno della cinta fortificata medioevale e della griglia viaria interna come pure dalla gerarchia funzionale e dalla stratificazione temporale degli edifici, la si può ricostruire mentalmente mediante la lenta progressione dell'immergersi nel suo tessuto vivente di vuoti e pieni o la si può cogliere ricorrendo ad affacci di vario genere, da quelli più ravvicinati, ma anche non facilmente accessibili, come la torre del Palazzo del Comune e la castellina della Presidenza della Regione in Palazzo Centi, a quelli che offrono più vasto campo visivo, come i tornanti stradali che salgono a Monteluco, a Sud, oppure quelli che portano verso Collebrincioni, a Nord.
Una mezz'ora d'aereo o d'elicottero, noleggiabili all'aeroporto di Preturo, può dilatare la visuale fino alla lettura dell'interazione tra forma della città e forma del territorio, il che consente di coniugare il beneficio di magnifiche vedute a volo d'uccello dei gioielli urbani e del loro castone di meraviglie naturali con la rapida introiezione del perché la storia della città sia tutt'uno con quella del suo territorio.
La ricognizione del territorio lascia comprendere come la città sia nata in funzione della produttività dei vasti pascoli d'altura che la circondano, come le case, i palazzi, le chiese e i suoi spazi vuoti siano stati modellati in ragione delle alterne fortune dell'economia legata all'ambiente naturale, come la creazione dell'intero patrimonio di beni culturali del suo passato sia stata stata motivata e finanziata dal farro dell'antica Amiternum e poi, tra Medioevo e Settecento, dalla lana e dallo zafferano delle sue montagne.
Non per caso, le fasi d'impoverimento e decadenza hanno coinciso con la resezione di quel legame tra città e territorio che è stato, e attualmente ha ripreso ad essere, la chiave di volta dello sviluppo e della floridezza.
Se è certamente facile sbarazzarsi di parecchi impicci facendo finta di credere che la forma non sia sostanza, i fondatori dell'Aquila, a metà del Duecento, fecero di tutto per lasciar detto in solida pietra quale fosse il loro stile di ragionamento: innalzarono un monumento indistruttibile a esaltazione di quell'idea della forma che i filosofi definiscono come principio attivo di distinzione dell'essenza, dinamicamente contrapposto a "materia". Forse avevano in mente che "forma" e "bellezza" sono praticamente la stessa cosa (in greco, "Morphé" è "Forma" e "Morphó" è "Bellezza"). O forse avevano in mente quel che nel Seicento gli accreditava il Crispomonti: "Pare che la città in origine prendesse forma ed esempio dalla città di Gerusalemme... Piacque tanto a loro il modello di quella città Santa, che se lo riportarono scolpito nel cuore..." (in effetti, sovrapponendo le mappe si scopre una sostanziale collimazione delle due cinte fortificate; del resto, Santa Giusta, che fu la prima delle chiese edificate, sta nel luogo della spianata del Tempio di Salomone e Collemaggio, che sta a Sud-Est fuori le mura, al di là della piccola valle echeggiante quella di Giosafat e del Getsemani, sorge sopra un rilievo in posizione non dissimile da quella del Monte degli Ulivi, luogo dell'insegnamento del "Pater Noster" e poi dell'Ascensione). Comunque, qualunque cosa avessero in mente, vollero definire una forma che fosse espressiva dell'essenza della città e che si riconosce tanto ben ragionata da aver potuto restare intatta attraverso gli eventi naturali e umani di sette secoli.
"Il Gran Kan possiede un atlante in cui sono raccolte le mappe di tutte le città... Marco Polo sfoglia le carte... - Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull'atlante che a visitarle di persona - dice a Marco l'imperatore richiudendo il libro di scatto. E Polo: - Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città... un pulviscolo informe invade i continenti. Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell'assortimento di qualità che sono come le lettere del nome".
La dilagante omologazione delle forme urbane, che Calvino evoca in "Le città invisibili" immaginando un dialogo tra Kublai Kan e Marco Polo, non riesce a contaminare L'Aquila, dove la forma della città antica sopravvive gagliardamente anche all'abbraccio del pulviscolo informe che è la sua cintura periferica. Una forma il cui assortimento di qualità non tanto va identificato facendo ricorso alle raccolte di mappe quanto va percepito nella sua effettiva sostanza plastica: la migliore rappresentazione che se ne può trovare è quella che la città offre mediante l'esibizione di se stessa. Forma nitidamente definita dai suoi primi costruttori, quella dell'Aquila è anche una forma razionalmente flessibile, della quale le inevitabili addizioni e trasformazioni, successivamente intervenute, non sono riuscite a intaccare la struttura fondante, che è simbolica raffigurazione quanto funzionale espressione della ragion d'essere della città, nonché ben leggibile sommatoria delle evoluzioni stratificatesi attraverso i secoli: una storia che le pietre, quelle più sontuosamente scolpite come quelle più umilmente acconciate, raccontano meglio di qualsiasi biblioteca.
Dopo aver guardato in Via dei Ghibellini alcune delle case che meglio esemplificano la maniera dell'epoca della fondazione, lì vicino ci si può lasciar accogliere da una panchina al belvedere di Viale Persichetti e lì, proprio lì dove la città ebbe la sua culla, lasciarsi andare all'immaginazione degli antefatti: una collina che trasuda acqua da infinite sorgenti; prati di smeraldo distesi a perdita d'occhio tra il vecchio fiume che scorre laggiù e la montagna che s'innalza fin dove mai piedi umani hanno potuto raggiungere gli approdi delle aquile; sullo sfondo, al di là del fiume, nuvole di polvere arruffate dal vento tra le dune che da mezzo millennio sotterrano le rovine di Amiternum, la grande città romana di Sallustio; qui intorno, tra le polle scintillanti, una manciata di povere case di pastori che da tempo immemorabile formano il Locus Acquili, il "posto delle acque", un borgo insignificante, dimenticato tra le brume periferiche dell'Europa di metà Duecento che sta virando dal folle disastro delle Crociate verso il tripudio della civiltà urbana dei mercanti; Saladino ha definitivamente posto fine alla signoria degli europei su Gerusalemme; il continente è scosso dall'invasione mongola penetrata in Ucraina, Bulgaria, Ungheria e Polonia; Marco Polo non è ancora nato ma Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubroek sono già tornati dai loro viaggi in estremo Oriente; in Francia e in Inghilterra sono a metà del loro corso i pluridecennali regni di San Luigi e Enrico III; il Papato vive la transizione da Innocenzo IV a Alessandro IV; l'Impero è all'inizio del grande interregno seguito alla morte di Federico II.
La situazione politica e il trend economico-culturale dello scacchiere italiano sono ormai propizi per mandare in effetto il rivoluzionario disegno che da qualche decennio fermenta nei villaggi arroccati sul versante meridionale del Gran Sasso: la fondazione di una grande città fortificata. Dopo i secoli di instabilità politica e precarietà economica seguiti alla dissoluzione dell'Impero Romano, l'unificazione normanna del Regno di Napoli e il riordinamento amministrativo dettato da Federico II hanno rianimato la produzione dei beni e i commerci, mentre l'incisiva presenza di Cistercensi, Templari e funzionari della multiculturale corte sveva ha seminato tra la gente idee, desideri di conoscenza, voglia di libertà, capacità d'autodeterminazione.
Con la floridezza dei foltissimi allevamenti di pecore e delle altre attività produttive, la vita degli abitanti dei villaggi montani è tornata ad essere un valore da proteggere; tuttavia, la frammentazione degli insediamenti abitativi enfatizza i pericoli comportati dalla cupidigia parassitaria dei signorotti feudali dei dintorni e rallenta lo sviluppo produttivo; in seno alla nascente imprenditoria armentaria, industriale e mercantile si configurano nuove esigenze strutturali; l'accumulazione di ricchezza genera il desiderio e offre la possibilità di una maggiore sicurezza e di una migliore qualità della vita: in definitiva, occorre un luogo sicuro, nel quale centralizzare le attività manifatturiere della lana, l'amministrazione del territorio, la tesaurizzazione del plusvalore prodotto, il governo del sistema produttivo, commerciale e finanziario. E' il medesimo fenomeno che in gran parte dell'Europa occidentale sta facendo delle città i poli della ricivilizzazione e del nuovo sviluppo.
La federazione dei villaggi fondatori, che secondo tradizione erano 99, aggiustando la denominazione d'ascendenza acquatica del Locus Acquili, sceglie "L'Aquila" quale nome della nuova città, certamente per rendere omaggio all'alata signora delle vette circostanti ma anche perché il richiamo al maestoso uccello che fa da insegna alla casa imperiale echeggi l'avveduta aspirazione alla "captatio benevolentiae" di quell'autorità che avrà tutto l'interesse a favorire lo sviluppo d'un insediamento destinato a diventare il fulcro del sistema difensivo per la frontiera nord-occidentale del Regno.
La forma urbis e i moduli abitativi vengono meticolosamente disegnati, dando luogo, come ha osservato Lavedan, a "una delle più grandi imprese urbanistiche dell'Europa medioevale". Dal centro della città si diramano idealmente fino al limitare esterno dei territori federati i bracci di una croce con cui vengono ripartite in quattro Quarti (Santa Giusta, San Marciano, San Pietro e Santa Maria Paganica) sia l'area intra-moenia che quella extra-moenia; pianificata in buona sostanza la ripetizione in città della medesima dislocazione territoriale dei villaggi fondatori, ciascuna comunità prepara il proprio inurbamento: nel Quarto a Nord-Ovest si trasferiranno i villaggi che fuori le mura stanno a Nord-Ovest e così via. Il Fuoco è il modulo abitativo unifamiliare, del quale una metà è destinata all'edificazione e l'altra a orto. L'insieme dei Fuochi e degli spazi indivisi assegnati in ciascun Quarto alle diverse comunità è il Locale. Per ogni Locale è prevista una piazza, la fontana pubblica e la chiesa, che reca la medesima titolazione della chiesa madre preesistente extra-moenia.
L'abnorme quantità di chiese da fabbricare dà vita a un peculiare stile architettonico, la "scuola aquilana", che innalza grandi vele quadrangolari di pietra concepite come veri e propri fondali scenografici, funzionali alla caratterizzazione del paesaggio urbano piuttosto che alla tradizionale interpretazione della facciata come proiezione dell'aula ecclesiale. In ragione della struttura originaria, è facile comprendere perché, nonostante l'ampio ventaglio di rimaneggiamenti dei secoli seguenti, sia larghissima la quantità di piazze, fontane e chiese pervenuteci. L'autorevole pregnanza della forma impressa alla città spiega, del resto, perché tuttora restino sostanzialmente intatte la tessitura viaria e gran parte della toponomastica (i nomi dei villaggi fondatori che distinguono le vie dove insistevano i rispettivi Locali e toponimi come Sdrucciolo dei Poeti, Costa Due Stelle, Via degli Scardassieri, Via dei Ramai, Via Angioina, etc.); analogamente, si spiega perché restino evidenti gli impianti architettonici medioevali, specialmente ma non solo nel Quarto di San Pietro e tutt'intorno Via Fortebraccio, perché sopravvivano finanche molti esempi delle pavimentazioni a ciottoli bianchi, come nella quieta e splendida Via San Martino o nella vertiginosa gradinata di Costa Masciarelli.
In virtù di un ragionatissimo piano operativo e del simultaneo impegno di centinaia di nuclei familiari, la nuova città sorge dal nulla in una manciata d'anni. E' la più grande città europea che nell'arco di questo declinante millennio sia stata interamente progettata a tavolino e l'unica nata non per decreto ma per impulso popolare; bisognerà attendere SanPietroburgo e infine Brasilia perché il fenomeno di creazione dal nulla di una grande città si ripeta secondo ancor più vaste proporzioni.
La forma scaturisce dalle funzioni, si adatta alle loro trasformazioni e resta comunque leggibile, quanto e spesso più esaurientemente delle fonti archivistiche: la struttura dei Fuochi è pensata in ragione di una non traumatica evoluzione delle famiglie da rurali a cittadine; l'orto consente che serene abitudini quotidiane non vengano violentate e che un embrione di economia curtense assicuri le risorse per sopravvivere fin quando il funzionamento della città non sarà in grado di diversificare l'organizzazione del lavoro e di offrire adeguati servizi comunitari; in una fase economicamente più matura, molti Fuochi verranno progressivamente accorpati, rendendo possibile l'avvento dell'edilizia palazziale e, conseguentemente, dei cortili e dei giardini, che introducono nella forma urbana un ulteriore fattore d'assortimento qualitativo; questo spiega l'abbondanza, tuttora ben manifesta, sia di orti che di cortili e giardini.
Protagonista nella stagione dei palazzi sarà sopra tutto l'aristocrazia armentaria e mercantile; Camponeschi, Franchi, Pica, Alfieri, Antonelli, Carli, Ardinghelli, Cappelli, Persichetti, Quinzi e quant'altri tirano su quelli che all'inizio, nell'abitato fatto per lo più di piccole case d'uno o due piani, sembrarono grattacieli; il caso più tardo e sontuoso dell'epoca migliore, Palazzo Centi, viene infisso nel Settecento accanto a quello dei Dragonetti; questi, disponendo d'una splendida dimora rinascimentale, d'uno dei magnifici cortili architettati da Silvestro Aquilano e sopra tutto d'una cospicua genealogia aristocratica, avevano sdegnosamente rifiutato la richiesta matrimoniale del fresco arricchito e si videro da questi piantare nel fianco la sua vendicatrice gloria palazziale.
Anche l'ubicazione di ciascun Locale era stata oggetto di appropriati ragionamenti, volendosi evitare che la casualità delle localizzazioni abitative in città disperdesse le solidarietà di vicinato nate nei villaggi fondatori: tutela della coesione culturale e operativa ma anche razionalità organizzativa, affinché ciascun Locale potesse gestire efficientemente il lavoro collettivo, necessario per l'utilizzazione del perdurante diritto di uso civico dei rispettivi pascoli e boschi extra-moenia, il che, se manteneva vivissimo il legame economico tra città e territorio, impediva anche il degrado delle aree montane.
Le vicende del trono napoletano, in connessione con quelle del conflitto tra Chiesa e Impero, determinano repentini mutamenti per le fortune dell'Aquila: la città è ancora in costruzione quando, nel 1259, l'esercito di Re Manfredi la rade al suolo; sette anni dopo, Carlo I d'Angiò ne autorizza la riedificazione. Da quel momento, lo sviluppo è impetuoso; la pacificazione tra le fazioni interne e la benevolenza della Corona verso gli eccessi compiuti nell'abbattimento dei superstiti nuclei di feudalità, entrambe patrocinate da Papa Celestino V nel 1294, in occasione della sua consacrazione papale nella Basilica di Collemaggio, danno ali alle energie della nuova città. La sua collocazione lungo la Via degli Abruzzi, che allora costituiva l'asse portante delle comunicazioni tra il Nord e il Sud della penisola, ne fa il capolinea della transumanza delle pecore verso il Tavoliere delle Puglie e del commercio della lana e dello zafferano con gli stati del Nord. Accanto a quella della lana, prosperano altre attività industriali, mentre fioriscono il benessere economico e la vita artistico-culturale; quando, a fine Quattrocento, vi s'installa una delle prime tipografie d'Italia, la città è ormai da tempo assurta a un ruolo di primo piano nella vita politica e economica del Regno di Napoli e ha conquistato una straordinaria autonomia amministrativa, sancita da un ordinamento basato su statuti analoghi a quelli dei Comuni dell'Italia settentrionale.
Nella prima metà del Cinquecento, caduta nelle spire dell'assolutismo spagnolo, la città verrà privata del suo status autonomistico e, a seguito dell'infeudazione dei villaggi fondatori, vedrà rescisso il fondante legame demaniale d'interdipendenza socio-economica con il territorio; la sua prosperità e il suo ruolo politico e culturale, nonostante l'iniziale esteriorità magnificente del governatorato di Madama Margherita d'Austria, figlia dell'Imperatore Carlo V, s'avvieranno verso il progressivo declino che, passando attraverso il rovinoso terremoto d'inizio Settecento e la ristrutturazione dell'industria laniera europea, si arresterà soltanto all'indomani della fondazione della Repubblica.
Della lunga fase di declino, fatto salvo il Teatro Comunale, qualche ben condotta ristrutturazione intervenuta dopo l'unificazione nazionale e poco di più, restano sopra tutto begli esempi d'interni, come la preziosa Casa Signorini Corsi, ricca di arredi e collezioni d'arte, che sta per riaprirsi in provvida veste musealizzata, oppure il vasto salone ligneo della Biblioteca Tommasiana, dove Bontempelli e Silone sono stati tra quelli che v'hanno pensato le proprie pagine.
Se Palermo è un miracolo del sincretismo culturale greco-arabo-ebraico-europeo, L'Aquila appare come un miracolo del sincretismo diacronico espresso dalla tenacia montanara catalizzata dalle avversità; nata per aspirazione alla libertà di progettare un futuro migliore, ogni volta che gli uomini e la natura la colpiscono, essa recupera le energie dei fondatori per ricostruirsi e incardinare il nuovo su quel che rimane delle passate fatiche: quel che è sopravvissuto alla distruzione dell'esercito di Manfredi del 1259 dà forma e fondamenta alla città che rinasce a partire dal 1266, su quel che resta dopo il terremoto del 1703 si innestano le reinvenzioni barocche.
E poi c'è dell'altro a rendere necessaria la sapienza del sopravvivere, ricostruire, risarcire: la resistenza, vittoriosa ma a caro prezzo, guidata da Antonuccio Camponeschi al ferreo assedio di Fortebraccio da Montone (leggendario il nemico, al cui valore veniva reso l'inaudito onore della dedicazione del prolungamento orientale del decumano massimo; leggendaria l'impresa, eternata dalla denominazione di "Via delle Bone Novelle" imposta dal popolo alla strada lungo la quale era risalito verso il cuore della città il messaggero recante la notizia della rotta degli assedianti); l'invasione degli spagnoli, che nel 1529 stuprano e saccheggiano in lungo e in largo e poi sfasceranno l'autonomia comunale, espianteranno a beneficio del Prado la Visitazione che Raffaello aveva dipinto per la cappella del fraterno amico Giovanni Battista Branconio in San Silvestro e demoliranno un mare di case a nord-est per innalzare la per altro mirabile fortezza oggi sede del Museo Nazionale d'Abruzzo; l'invasione dei francesi nel 1799, che rubano tutto l'oro e l'argento della città e spargono al suolo le ossa di San Pietro Celestino e San Bernardino da Siena per portar via le sfolgoranti urne che le contenevano; i grandi terremoti del 1315, 1349, 1461 e una mezza dozzina di truculente pestilenze, che seminano devastazioni d'ogni genere.
Da tutto questo vien fuori che soltanto tra le costruzioni innalzate di sana pianta dopo il 1703 è possibile trovare corpi di fabbrica stilisticamente omogenei; tutti gli altri esibiscono le molteplicità di interventi che lasciano leggere nella pietra il divenire della storia e che quasi sempre manifestano eclettismi stupefacentemente armoniosi, come nel supremo esempio di San Bernardino, la basilica dove Quattrocento, Cinquecento e Settecento conversano grandiosamente all'unisono.
Di fronte a questo insistito "star bene insieme" di cose tanto diverse, viene da pensare che v'è dell'altro da intendere, al di là del singolo messaggio racchiuso nella forma e nella postura di ciascuna pietra; si finisce per intuire un apologo che stava già tutto nella mente degli anonimi padri fondatori: il passato non è un tesoro da contemplare nostalgicamente ma un ammaestramento a saper ben condurre il presente affinché si sia pronti in ogni momento a inventare il futuro. Un apologo che è stato scritto con l'incorruttibile forma data alla città di pietra.
Ma, ai padri fondatori sembrò pure che l'eloquenza di quella forma, alla lunga, forse, avrebbe potuto attenuarsi agli occhi di quelli che giorno dopo giorno ci avrebbero vissuto dentro. Così, scolpirono un riassunto di quell'apologo e lo sistemarono in non eludibile evidenza, per universale futura memoria, in uno dei luoghi allora più accorsati, la Rivera, compluvio dei traffici di greggi, mercanti, artigiani e popolani. Cavarano pietre bianche e rosse dalle loro montagne e le squadrarono a forza delle loro braccia. Presero a mettere in piedi il loro testo di pietra e ci sarebbe voluto quasi mezzo millennio per vederlo completato. Gli nascosero dentro un'infaticabile anima, fatta di condotti, scolmatori e ogni sorta d'ingegnosità idrauliche, perché, senza bisogno d'umani dal mutevole pensiero, le sovrastanti sorgenti del vecchio Locus Acquili potessero eternamente e ben regolatamente versare tanti esili rivoli quanti erano stati i villaggi fondatori e perché quegli esili rivoli concordemente formassero un'unica, ampia e placida fonte, dove chiunque potesse liberamente attingere secondo i propri bisogni.
Il frutto dei rivoli d'acqua stava bene insieme come tuttora sta bene, come stavano e stanno bene insieme le pietre d'ogni stagione messe a fare la città, come stavano bene insieme i primi cittadini venuti da diversi villaggi e come tutto il mondo vorrebbe star bene insieme, diversità con diversità, in pace, per aspirazione alla libertà di progettare un futuro migliore. L'apologo dei padri fondatori sta nella incorrotta forma della città e il suo riassunto è la Fontana delle Novantanove Cannelle, in cima alla quale tuttora si leggono, in latino, queste parole: "La nuova città gioisce ora delle acque del vecchio fiume e di quelle d'una nuova fonte. Se apprezzi quest'opera egregia lodane ogni aspetto ma non stupirti dell'opera e ammirane piuttosto i patroni che il lavoro e l'onestà fanno essere cittadini dell'Aquila. Nell'anno del Signore 1272".
Dalla rivista “Bell’Italia”, Milano
La forma della città, cioè quell'insieme organico creato dal disegno della cinta fortificata medioevale e della griglia viaria interna come pure dalla gerarchia funzionale e dalla stratificazione temporale degli edifici, la si può ricostruire mentalmente mediante la lenta progressione dell'immergersi nel suo tessuto vivente di vuoti e pieni o la si può cogliere ricorrendo ad affacci di vario genere, da quelli più ravvicinati, ma anche non facilmente accessibili, come la torre del Palazzo del Comune e la castellina della Presidenza della Regione in Palazzo Centi, a quelli che offrono più vasto campo visivo, come i tornanti stradali che salgono a Monteluco, a Sud, oppure quelli che portano verso Collebrincioni, a Nord.
Una mezz'ora d'aereo o d'elicottero, noleggiabili all'aeroporto di Preturo, può dilatare la visuale fino alla lettura dell'interazione tra forma della città e forma del territorio, il che consente di coniugare il beneficio di magnifiche vedute a volo d'uccello dei gioielli urbani e del loro castone di meraviglie naturali con la rapida introiezione del perché la storia della città sia tutt'uno con quella del suo territorio.
La ricognizione del territorio lascia comprendere come la città sia nata in funzione della produttività dei vasti pascoli d'altura che la circondano, come le case, i palazzi, le chiese e i suoi spazi vuoti siano stati modellati in ragione delle alterne fortune dell'economia legata all'ambiente naturale, come la creazione dell'intero patrimonio di beni culturali del suo passato sia stata stata motivata e finanziata dal farro dell'antica Amiternum e poi, tra Medioevo e Settecento, dalla lana e dallo zafferano delle sue montagne.
Non per caso, le fasi d'impoverimento e decadenza hanno coinciso con la resezione di quel legame tra città e territorio che è stato, e attualmente ha ripreso ad essere, la chiave di volta dello sviluppo e della floridezza.
Se è certamente facile sbarazzarsi di parecchi impicci facendo finta di credere che la forma non sia sostanza, i fondatori dell'Aquila, a metà del Duecento, fecero di tutto per lasciar detto in solida pietra quale fosse il loro stile di ragionamento: innalzarono un monumento indistruttibile a esaltazione di quell'idea della forma che i filosofi definiscono come principio attivo di distinzione dell'essenza, dinamicamente contrapposto a "materia". Forse avevano in mente che "forma" e "bellezza" sono praticamente la stessa cosa (in greco, "Morphé" è "Forma" e "Morphó" è "Bellezza"). O forse avevano in mente quel che nel Seicento gli accreditava il Crispomonti: "Pare che la città in origine prendesse forma ed esempio dalla città di Gerusalemme... Piacque tanto a loro il modello di quella città Santa, che se lo riportarono scolpito nel cuore..." (in effetti, sovrapponendo le mappe si scopre una sostanziale collimazione delle due cinte fortificate; del resto, Santa Giusta, che fu la prima delle chiese edificate, sta nel luogo della spianata del Tempio di Salomone e Collemaggio, che sta a Sud-Est fuori le mura, al di là della piccola valle echeggiante quella di Giosafat e del Getsemani, sorge sopra un rilievo in posizione non dissimile da quella del Monte degli Ulivi, luogo dell'insegnamento del "Pater Noster" e poi dell'Ascensione). Comunque, qualunque cosa avessero in mente, vollero definire una forma che fosse espressiva dell'essenza della città e che si riconosce tanto ben ragionata da aver potuto restare intatta attraverso gli eventi naturali e umani di sette secoli.
"Il Gran Kan possiede un atlante in cui sono raccolte le mappe di tutte le città... Marco Polo sfoglia le carte... - Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull'atlante che a visitarle di persona - dice a Marco l'imperatore richiudendo il libro di scatto. E Polo: - Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città... un pulviscolo informe invade i continenti. Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell'assortimento di qualità che sono come le lettere del nome".
La dilagante omologazione delle forme urbane, che Calvino evoca in "Le città invisibili" immaginando un dialogo tra Kublai Kan e Marco Polo, non riesce a contaminare L'Aquila, dove la forma della città antica sopravvive gagliardamente anche all'abbraccio del pulviscolo informe che è la sua cintura periferica. Una forma il cui assortimento di qualità non tanto va identificato facendo ricorso alle raccolte di mappe quanto va percepito nella sua effettiva sostanza plastica: la migliore rappresentazione che se ne può trovare è quella che la città offre mediante l'esibizione di se stessa. Forma nitidamente definita dai suoi primi costruttori, quella dell'Aquila è anche una forma razionalmente flessibile, della quale le inevitabili addizioni e trasformazioni, successivamente intervenute, non sono riuscite a intaccare la struttura fondante, che è simbolica raffigurazione quanto funzionale espressione della ragion d'essere della città, nonché ben leggibile sommatoria delle evoluzioni stratificatesi attraverso i secoli: una storia che le pietre, quelle più sontuosamente scolpite come quelle più umilmente acconciate, raccontano meglio di qualsiasi biblioteca.
Dopo aver guardato in Via dei Ghibellini alcune delle case che meglio esemplificano la maniera dell'epoca della fondazione, lì vicino ci si può lasciar accogliere da una panchina al belvedere di Viale Persichetti e lì, proprio lì dove la città ebbe la sua culla, lasciarsi andare all'immaginazione degli antefatti: una collina che trasuda acqua da infinite sorgenti; prati di smeraldo distesi a perdita d'occhio tra il vecchio fiume che scorre laggiù e la montagna che s'innalza fin dove mai piedi umani hanno potuto raggiungere gli approdi delle aquile; sullo sfondo, al di là del fiume, nuvole di polvere arruffate dal vento tra le dune che da mezzo millennio sotterrano le rovine di Amiternum, la grande città romana di Sallustio; qui intorno, tra le polle scintillanti, una manciata di povere case di pastori che da tempo immemorabile formano il Locus Acquili, il "posto delle acque", un borgo insignificante, dimenticato tra le brume periferiche dell'Europa di metà Duecento che sta virando dal folle disastro delle Crociate verso il tripudio della civiltà urbana dei mercanti; Saladino ha definitivamente posto fine alla signoria degli europei su Gerusalemme; il continente è scosso dall'invasione mongola penetrata in Ucraina, Bulgaria, Ungheria e Polonia; Marco Polo non è ancora nato ma Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubroek sono già tornati dai loro viaggi in estremo Oriente; in Francia e in Inghilterra sono a metà del loro corso i pluridecennali regni di San Luigi e Enrico III; il Papato vive la transizione da Innocenzo IV a Alessandro IV; l'Impero è all'inizio del grande interregno seguito alla morte di Federico II.
La situazione politica e il trend economico-culturale dello scacchiere italiano sono ormai propizi per mandare in effetto il rivoluzionario disegno che da qualche decennio fermenta nei villaggi arroccati sul versante meridionale del Gran Sasso: la fondazione di una grande città fortificata. Dopo i secoli di instabilità politica e precarietà economica seguiti alla dissoluzione dell'Impero Romano, l'unificazione normanna del Regno di Napoli e il riordinamento amministrativo dettato da Federico II hanno rianimato la produzione dei beni e i commerci, mentre l'incisiva presenza di Cistercensi, Templari e funzionari della multiculturale corte sveva ha seminato tra la gente idee, desideri di conoscenza, voglia di libertà, capacità d'autodeterminazione.
Con la floridezza dei foltissimi allevamenti di pecore e delle altre attività produttive, la vita degli abitanti dei villaggi montani è tornata ad essere un valore da proteggere; tuttavia, la frammentazione degli insediamenti abitativi enfatizza i pericoli comportati dalla cupidigia parassitaria dei signorotti feudali dei dintorni e rallenta lo sviluppo produttivo; in seno alla nascente imprenditoria armentaria, industriale e mercantile si configurano nuove esigenze strutturali; l'accumulazione di ricchezza genera il desiderio e offre la possibilità di una maggiore sicurezza e di una migliore qualità della vita: in definitiva, occorre un luogo sicuro, nel quale centralizzare le attività manifatturiere della lana, l'amministrazione del territorio, la tesaurizzazione del plusvalore prodotto, il governo del sistema produttivo, commerciale e finanziario. E' il medesimo fenomeno che in gran parte dell'Europa occidentale sta facendo delle città i poli della ricivilizzazione e del nuovo sviluppo.
La federazione dei villaggi fondatori, che secondo tradizione erano 99, aggiustando la denominazione d'ascendenza acquatica del Locus Acquili, sceglie "L'Aquila" quale nome della nuova città, certamente per rendere omaggio all'alata signora delle vette circostanti ma anche perché il richiamo al maestoso uccello che fa da insegna alla casa imperiale echeggi l'avveduta aspirazione alla "captatio benevolentiae" di quell'autorità che avrà tutto l'interesse a favorire lo sviluppo d'un insediamento destinato a diventare il fulcro del sistema difensivo per la frontiera nord-occidentale del Regno.
La forma urbis e i moduli abitativi vengono meticolosamente disegnati, dando luogo, come ha osservato Lavedan, a "una delle più grandi imprese urbanistiche dell'Europa medioevale". Dal centro della città si diramano idealmente fino al limitare esterno dei territori federati i bracci di una croce con cui vengono ripartite in quattro Quarti (Santa Giusta, San Marciano, San Pietro e Santa Maria Paganica) sia l'area intra-moenia che quella extra-moenia; pianificata in buona sostanza la ripetizione in città della medesima dislocazione territoriale dei villaggi fondatori, ciascuna comunità prepara il proprio inurbamento: nel Quarto a Nord-Ovest si trasferiranno i villaggi che fuori le mura stanno a Nord-Ovest e così via. Il Fuoco è il modulo abitativo unifamiliare, del quale una metà è destinata all'edificazione e l'altra a orto. L'insieme dei Fuochi e degli spazi indivisi assegnati in ciascun Quarto alle diverse comunità è il Locale. Per ogni Locale è prevista una piazza, la fontana pubblica e la chiesa, che reca la medesima titolazione della chiesa madre preesistente extra-moenia.
L'abnorme quantità di chiese da fabbricare dà vita a un peculiare stile architettonico, la "scuola aquilana", che innalza grandi vele quadrangolari di pietra concepite come veri e propri fondali scenografici, funzionali alla caratterizzazione del paesaggio urbano piuttosto che alla tradizionale interpretazione della facciata come proiezione dell'aula ecclesiale. In ragione della struttura originaria, è facile comprendere perché, nonostante l'ampio ventaglio di rimaneggiamenti dei secoli seguenti, sia larghissima la quantità di piazze, fontane e chiese pervenuteci. L'autorevole pregnanza della forma impressa alla città spiega, del resto, perché tuttora restino sostanzialmente intatte la tessitura viaria e gran parte della toponomastica (i nomi dei villaggi fondatori che distinguono le vie dove insistevano i rispettivi Locali e toponimi come Sdrucciolo dei Poeti, Costa Due Stelle, Via degli Scardassieri, Via dei Ramai, Via Angioina, etc.); analogamente, si spiega perché restino evidenti gli impianti architettonici medioevali, specialmente ma non solo nel Quarto di San Pietro e tutt'intorno Via Fortebraccio, perché sopravvivano finanche molti esempi delle pavimentazioni a ciottoli bianchi, come nella quieta e splendida Via San Martino o nella vertiginosa gradinata di Costa Masciarelli.
In virtù di un ragionatissimo piano operativo e del simultaneo impegno di centinaia di nuclei familiari, la nuova città sorge dal nulla in una manciata d'anni. E' la più grande città europea che nell'arco di questo declinante millennio sia stata interamente progettata a tavolino e l'unica nata non per decreto ma per impulso popolare; bisognerà attendere SanPietroburgo e infine Brasilia perché il fenomeno di creazione dal nulla di una grande città si ripeta secondo ancor più vaste proporzioni.
La forma scaturisce dalle funzioni, si adatta alle loro trasformazioni e resta comunque leggibile, quanto e spesso più esaurientemente delle fonti archivistiche: la struttura dei Fuochi è pensata in ragione di una non traumatica evoluzione delle famiglie da rurali a cittadine; l'orto consente che serene abitudini quotidiane non vengano violentate e che un embrione di economia curtense assicuri le risorse per sopravvivere fin quando il funzionamento della città non sarà in grado di diversificare l'organizzazione del lavoro e di offrire adeguati servizi comunitari; in una fase economicamente più matura, molti Fuochi verranno progressivamente accorpati, rendendo possibile l'avvento dell'edilizia palazziale e, conseguentemente, dei cortili e dei giardini, che introducono nella forma urbana un ulteriore fattore d'assortimento qualitativo; questo spiega l'abbondanza, tuttora ben manifesta, sia di orti che di cortili e giardini.
Protagonista nella stagione dei palazzi sarà sopra tutto l'aristocrazia armentaria e mercantile; Camponeschi, Franchi, Pica, Alfieri, Antonelli, Carli, Ardinghelli, Cappelli, Persichetti, Quinzi e quant'altri tirano su quelli che all'inizio, nell'abitato fatto per lo più di piccole case d'uno o due piani, sembrarono grattacieli; il caso più tardo e sontuoso dell'epoca migliore, Palazzo Centi, viene infisso nel Settecento accanto a quello dei Dragonetti; questi, disponendo d'una splendida dimora rinascimentale, d'uno dei magnifici cortili architettati da Silvestro Aquilano e sopra tutto d'una cospicua genealogia aristocratica, avevano sdegnosamente rifiutato la richiesta matrimoniale del fresco arricchito e si videro da questi piantare nel fianco la sua vendicatrice gloria palazziale.
Anche l'ubicazione di ciascun Locale era stata oggetto di appropriati ragionamenti, volendosi evitare che la casualità delle localizzazioni abitative in città disperdesse le solidarietà di vicinato nate nei villaggi fondatori: tutela della coesione culturale e operativa ma anche razionalità organizzativa, affinché ciascun Locale potesse gestire efficientemente il lavoro collettivo, necessario per l'utilizzazione del perdurante diritto di uso civico dei rispettivi pascoli e boschi extra-moenia, il che, se manteneva vivissimo il legame economico tra città e territorio, impediva anche il degrado delle aree montane.
Le vicende del trono napoletano, in connessione con quelle del conflitto tra Chiesa e Impero, determinano repentini mutamenti per le fortune dell'Aquila: la città è ancora in costruzione quando, nel 1259, l'esercito di Re Manfredi la rade al suolo; sette anni dopo, Carlo I d'Angiò ne autorizza la riedificazione. Da quel momento, lo sviluppo è impetuoso; la pacificazione tra le fazioni interne e la benevolenza della Corona verso gli eccessi compiuti nell'abbattimento dei superstiti nuclei di feudalità, entrambe patrocinate da Papa Celestino V nel 1294, in occasione della sua consacrazione papale nella Basilica di Collemaggio, danno ali alle energie della nuova città. La sua collocazione lungo la Via degli Abruzzi, che allora costituiva l'asse portante delle comunicazioni tra il Nord e il Sud della penisola, ne fa il capolinea della transumanza delle pecore verso il Tavoliere delle Puglie e del commercio della lana e dello zafferano con gli stati del Nord. Accanto a quella della lana, prosperano altre attività industriali, mentre fioriscono il benessere economico e la vita artistico-culturale; quando, a fine Quattrocento, vi s'installa una delle prime tipografie d'Italia, la città è ormai da tempo assurta a un ruolo di primo piano nella vita politica e economica del Regno di Napoli e ha conquistato una straordinaria autonomia amministrativa, sancita da un ordinamento basato su statuti analoghi a quelli dei Comuni dell'Italia settentrionale.
Nella prima metà del Cinquecento, caduta nelle spire dell'assolutismo spagnolo, la città verrà privata del suo status autonomistico e, a seguito dell'infeudazione dei villaggi fondatori, vedrà rescisso il fondante legame demaniale d'interdipendenza socio-economica con il territorio; la sua prosperità e il suo ruolo politico e culturale, nonostante l'iniziale esteriorità magnificente del governatorato di Madama Margherita d'Austria, figlia dell'Imperatore Carlo V, s'avvieranno verso il progressivo declino che, passando attraverso il rovinoso terremoto d'inizio Settecento e la ristrutturazione dell'industria laniera europea, si arresterà soltanto all'indomani della fondazione della Repubblica.
Della lunga fase di declino, fatto salvo il Teatro Comunale, qualche ben condotta ristrutturazione intervenuta dopo l'unificazione nazionale e poco di più, restano sopra tutto begli esempi d'interni, come la preziosa Casa Signorini Corsi, ricca di arredi e collezioni d'arte, che sta per riaprirsi in provvida veste musealizzata, oppure il vasto salone ligneo della Biblioteca Tommasiana, dove Bontempelli e Silone sono stati tra quelli che v'hanno pensato le proprie pagine.
Se Palermo è un miracolo del sincretismo culturale greco-arabo-ebraico-europeo, L'Aquila appare come un miracolo del sincretismo diacronico espresso dalla tenacia montanara catalizzata dalle avversità; nata per aspirazione alla libertà di progettare un futuro migliore, ogni volta che gli uomini e la natura la colpiscono, essa recupera le energie dei fondatori per ricostruirsi e incardinare il nuovo su quel che rimane delle passate fatiche: quel che è sopravvissuto alla distruzione dell'esercito di Manfredi del 1259 dà forma e fondamenta alla città che rinasce a partire dal 1266, su quel che resta dopo il terremoto del 1703 si innestano le reinvenzioni barocche.
E poi c'è dell'altro a rendere necessaria la sapienza del sopravvivere, ricostruire, risarcire: la resistenza, vittoriosa ma a caro prezzo, guidata da Antonuccio Camponeschi al ferreo assedio di Fortebraccio da Montone (leggendario il nemico, al cui valore veniva reso l'inaudito onore della dedicazione del prolungamento orientale del decumano massimo; leggendaria l'impresa, eternata dalla denominazione di "Via delle Bone Novelle" imposta dal popolo alla strada lungo la quale era risalito verso il cuore della città il messaggero recante la notizia della rotta degli assedianti); l'invasione degli spagnoli, che nel 1529 stuprano e saccheggiano in lungo e in largo e poi sfasceranno l'autonomia comunale, espianteranno a beneficio del Prado la Visitazione che Raffaello aveva dipinto per la cappella del fraterno amico Giovanni Battista Branconio in San Silvestro e demoliranno un mare di case a nord-est per innalzare la per altro mirabile fortezza oggi sede del Museo Nazionale d'Abruzzo; l'invasione dei francesi nel 1799, che rubano tutto l'oro e l'argento della città e spargono al suolo le ossa di San Pietro Celestino e San Bernardino da Siena per portar via le sfolgoranti urne che le contenevano; i grandi terremoti del 1315, 1349, 1461 e una mezza dozzina di truculente pestilenze, che seminano devastazioni d'ogni genere.
Da tutto questo vien fuori che soltanto tra le costruzioni innalzate di sana pianta dopo il 1703 è possibile trovare corpi di fabbrica stilisticamente omogenei; tutti gli altri esibiscono le molteplicità di interventi che lasciano leggere nella pietra il divenire della storia e che quasi sempre manifestano eclettismi stupefacentemente armoniosi, come nel supremo esempio di San Bernardino, la basilica dove Quattrocento, Cinquecento e Settecento conversano grandiosamente all'unisono.
Di fronte a questo insistito "star bene insieme" di cose tanto diverse, viene da pensare che v'è dell'altro da intendere, al di là del singolo messaggio racchiuso nella forma e nella postura di ciascuna pietra; si finisce per intuire un apologo che stava già tutto nella mente degli anonimi padri fondatori: il passato non è un tesoro da contemplare nostalgicamente ma un ammaestramento a saper ben condurre il presente affinché si sia pronti in ogni momento a inventare il futuro. Un apologo che è stato scritto con l'incorruttibile forma data alla città di pietra.
Ma, ai padri fondatori sembrò pure che l'eloquenza di quella forma, alla lunga, forse, avrebbe potuto attenuarsi agli occhi di quelli che giorno dopo giorno ci avrebbero vissuto dentro. Così, scolpirono un riassunto di quell'apologo e lo sistemarono in non eludibile evidenza, per universale futura memoria, in uno dei luoghi allora più accorsati, la Rivera, compluvio dei traffici di greggi, mercanti, artigiani e popolani. Cavarano pietre bianche e rosse dalle loro montagne e le squadrarono a forza delle loro braccia. Presero a mettere in piedi il loro testo di pietra e ci sarebbe voluto quasi mezzo millennio per vederlo completato. Gli nascosero dentro un'infaticabile anima, fatta di condotti, scolmatori e ogni sorta d'ingegnosità idrauliche, perché, senza bisogno d'umani dal mutevole pensiero, le sovrastanti sorgenti del vecchio Locus Acquili potessero eternamente e ben regolatamente versare tanti esili rivoli quanti erano stati i villaggi fondatori e perché quegli esili rivoli concordemente formassero un'unica, ampia e placida fonte, dove chiunque potesse liberamente attingere secondo i propri bisogni.
Il frutto dei rivoli d'acqua stava bene insieme come tuttora sta bene, come stavano e stanno bene insieme le pietre d'ogni stagione messe a fare la città, come stavano bene insieme i primi cittadini venuti da diversi villaggi e come tutto il mondo vorrebbe star bene insieme, diversità con diversità, in pace, per aspirazione alla libertà di progettare un futuro migliore. L'apologo dei padri fondatori sta nella incorrotta forma della città e il suo riassunto è la Fontana delle Novantanove Cannelle, in cima alla quale tuttora si leggono, in latino, queste parole: "La nuova città gioisce ora delle acque del vecchio fiume e di quelle d'una nuova fonte. Se apprezzi quest'opera egregia lodane ogni aspetto ma non stupirti dell'opera e ammirane piuttosto i patroni che il lavoro e l'onestà fanno essere cittadini dell'Aquila. Nell'anno del Signore 1272".
Errico Centofanti