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ALLA RICERCA DEL CAPOLUOGO PERDUTO

Mappa della città

C’È UN FUTURO PER L’AQUILA?

di WALTER CAVALIERI
Dal trimestrale di teatro e cultura ”Senzatitolo”
(L’Aquila, n. 9 ottobre 2007)


L’Aquila per non morire si deve ricollegare alla regione di cui pretende di continuare ad essere capoluogo, piuttosto che rendersi estranea ad essa. Questo significa, ad esempio, individuare un ruolo in relazione alle aree costiere ed oltre, verso i promettenti mercati balcanici, facendosi perno degli scambi tra Roma e l’Adriatico; significa concentrare le risorse nel miglioramento dei collegamenti tra L’Aquila e Pescara; significa “costringere” l’università ad occuparsi strutturalmente del territorio; significa valorizzare il patrimonio ambientale, riqualificare i borghi, proteggere i prodotti agro-alimentari, rilanciare le attività culturali.

Benché in tempi recenti la nostra regione sia stata ribattezzata al singolare col nome unitario di “Abruzzo” (rispetto alla denominazione di “Abruzzi” inizialmente utilizzata, come da tradizione, nell’articolo 131 della Costituzione repubblicana), essa resta un territorio tradizionalmente diviso in due, con andamento demografico, economico e politico a due velocità: la costa e le aree interne.

Ciò pone, fra l’altro, il problema del ruolo che può mantenere l’attuale capoluogo, la cui storia è stata segnata negli ultimi 150 anni da una serie ininterrotta di spoliazioni, bilanciate con altrettante parziali compensazioni.

Al di là delle naturali differenze geografiche e morfologiche, la definitiva frattura fra zone interne e zone costiere abruzzesi si era consumata nel 1865, sotto il governo della Destra storica, col cosiddetto “affrancamento” del Tavoliere delle Puglie. Decretando di fatto la fine della transumanza, quella misura aveva sciolto il rapporto millenario tra montagna abruzzese e pianura pugliese, e aveva avviato la crisi delle aree interne ad economia montana agro-pastorale.

Nello stesso tempo, la nascita di un mercato nazionale rendeva necessari nuovi collegamenti Nord-Sud che, a differenza dell’antica “via degli Abruzzi” che correva lungo la dorsale appenninica, privilegiavano la più agevole fascia costiera (vedi la ferrovia Ancona-Foggia del 1864). Gli stessi collegamenti ferroviari trasversali univano Pescara a Sulmona (1873) e Sulmona a Roma (1888) tagliando fuori la città capoluogo, che era collegata con tortuose e secondarie tratte ferroviarie solo a Sulmona (1875) e a Terni (1884).

Dunque, con l’unificazione d’Italia L’Aquila, precedentemente svantaggiata in quanto città di confine, non traeva benefici dalla sua nuova posizione di centralità, restando al contrario esclusa dalle grandi direttrici dello sviluppo economico.

Ciò nonostante, quella che era stata la seconda capitale del Regno borbonico manteneva l’autorevole ruolo di capoluogo regionale grazie al suo prestigio storico, architettonico, culturale. Un ruolo che incentivava la sua natura di città burocratica e terziaria, nella quale coesistevano le grandi ricchezze accumulate con la pastorizia ed i commerci, e le grandi povertà di un fatiscente proletariato urbano che nulla aveva a che fare con la nascente industria italiana. Infatti, l’industrializzazione di fine secolo voluta dalla Sinistra liberale privilegiava ancora una volta territori come la Val Pescara dotati di adeguati prerequisiti (facilità di comunicazioni, giacimenti minerari, potenziale idroelettrico). Viceversa, all’infelice posizione geografica della conca aquilana si sommavano la mancanza di una imprenditoria locale, la chiusa mentalità dei notabili e l’inconsistenza della classe politica.

E così, mentre agli inizi del Novecento una forte classe operaia nasceva nell’area che va dalla Val Pescara fino a Popoli e Bussi, la blasonata città capoluogo perdeva di fatto l’appuntamento strategico con la transizione dall’artigianato all’industria, pagando nuovi prezzi in termini di spopolamento e di marginalità.

Su questo piano inclinato trascorse l’intera Età giolittiana, fino allo scoppio della Grande Guerra, al cui tragico bilancio l’Abruzzo dette un contributo di 23.000 caduti, 680 dei quali Aquilani.

All’indomani del conflitto, il fascismo aquilano sarà come altrove alimentato da forti furori combattentistici (si pensi solo al culto di Andrea Bafile) ma, date le premesse socio-economiche di cui s’è parlato, sarà essenzialmente un fascismo bottegaio e piccolo-borghese, espressione delle tradizionali classi dirigenti moderate. Del resto, non il giovane avvocato aquilano Adelchi Serena, ma il “pescarese” Giacomo Acerbo (uomo di fiducia della proprietà agraria e membro del Gran Consiglio) sarà per lungo periodo il massimo dirigente abruzzese fascista della regione.

Non a caso, la riforma amministrativa del 1927 di cui si è appena celebrato l’80° anniversario, aumentava la marginalizzazione dell’Aquila rispetto al resto dell’Abruzzo. Con quel provvedimento, infatti, Rieti e Pescara venivano elevati a capoluoghi di provincia, inglobando parte delle province di Chieti e di Teramo e soprattutto sottraendo alla provincia dell’Aquila le cittadine di Antrodoco, Cittaducale, Leonessa, Amatrice, nonché i centri industriali di Popoli e Bussi.

Decaduta già allora a capoluogo di provincia meno popolato d’Abruzzo, nello stesso anno Serena ideava per L’Aquila una effimera compensazione, inglobando d’autorità otto comuni limitrofi e raddoppiando così la popolazione da 23.000 a 58.000 abitanti. Ma il progetto della “Grande Aquila”, potenziato negli anni Trenta dagli imponenti interventi statali promossi dallo stesso Serena (nel frattempo divenuto ministro dei Lavori Pubblici), cambierà solo la fisionomia della città capoluogo, non il suo ruolo all’interno dell’Abruzzo. Anzi, la scelta di realizzare intorno al Gran Sasso uno dei migliori complessi italiani del turismo sportivo invernale, spostava l’asse dell’economia cittadina verso Roma, separando ancora di più L’Aquila dalla regione di cui era formalmente capoluogo.

A riprova di ciò era il mancato completamento della linea ferroviaria L’Aquila-Teramo (rimasta ferma al tronco L’Aquila-Capitignano), che induceva gli interessi teramani a spostarsi a loro volta verso Ascoli Piceno. Inasprita nella sua passività dall’assistenzialismo statale, città burocratica, turistica e sportiva, L’Aquila veniva poi particolarmente colpita dal punto di vista economico (ancor prima che dal punto di vista bellico) dallo scoppio della seconda guerra mondiale, cui seguiva una nuova serie di spoliazioni.

Ritenuta non a torto città filomonarchica fortemente beneficiata dal fascismo, L’Aquila doveva cedere importanti strutture (fra cui la Zecca di Stato e la sede EIAR) e rischiava fin dal 1948 di perdere anche il blasone di capoluogo di regione.

Ma soprattutto Spataro, Gaspari e la DC pescarese convogliavano investimenti e nuove infrastrutture verso il bacino del Tronto e della Val Pescara ed a poco valeva l’azione di contrasto attuata dagli aquilani Natali e Mariani.

Solo negli anni Sessanta L’Aquila riceveva una nuova compensazione, attraverso l’insediamento della grande industria pubblica elettrotecnica sostenuta dalle Partecipazioni Statali. Si trattava certamente di un fenomeno insperato, che produceva dal nulla molta occupazione e forte circolazione di redditi, ma anche clientelismo e inurbamento caotico, senza creare una vera classe operaia, spesso a mezzo tempo con agricoltura e servizi.

Era questo il carattere tipico della cosiddetta industrializzazione “esogena”, ben diversa dal tessuto di piccole e medie imprese “endogene” del Teramano e del Pescarese.

L’illusione di poter giocare tutto sulla grande industria soffocava inoltre altre vocazioni e potenzialità economiche, rendeva il sistema commerciale dipendente in gran parte dai redditi industriali, esponeva un’intera economia al rischio della crisi.

Nel frattempo, il dualismo ormai irreversibile della regione e le rispettive logiche di potere conducevano al proliferare delle università e al raddoppio dei collegamenti autostradali. In particolare, benché fin dal 1955 la Cassa per il Mezzogiorno avesse individuato la direttrice Roma-L’Aquila-Teramo-Giulianova come percorso più breve per tagliare longitudinalmente l’Abruzzo fino al raccordo con l’A-14, nel 1966 nasceva l’idea delle due autostrade parallele originate dalla famigerata “forchetta” di Torano. In tal modo il tratto montano della A-24 passante per L’Aquila non veniva a svolgere un ruolo di reale integrazione del capoluogo con l’Abruzzo costiero, ma solo un ruolo di penetrazione o, peggio, di colonizzazione da parte di Roma, promuovendo forme di turismo “mordi e fuggi” dai risultati deludenti (responsabili peraltro di un ulteriore spopolamento e snaturamento degli antichi centri montani) e facendo innalzare il costo della vita. Nel 1971 la spaccatura tra zone interne e costa portava inoltre alla soluzione del cosiddetto “capoluogo articolato” che fu all’origine, fra l’altro, dei brevi ma violenti moti dell’Aquila.

Gli anni successivi vedranno Remo Gaspari quale leader regionale incontrastato, anche grazie all’uscita di scena di Lorenzo Natali, nominato commissario europeo.

La mancanza di direzione politica, unitamente all’inconsistenza dell’imprenditoria locale, alla cessazione delle Partecipazioni Statali e agli effetti della globalizzazione, condanneranno infine ad una crisi gravissima la grande industria aquilana e tutto il proprio indotto, facendo parlare di una città che muore.

Così è andata la storia, e dalla storia bisognerebbe apprendere. Ora, se è vero che un grande quotidiano come “La Repubblica” ha definito recentemente Pescara “la quasi capitale d’Abruzzo”, è altrettanto vero che, se non si darà da fare senza contare come sempre sull’assistenzialismo statale, L’Aquila potrà aspettarsi solo di subire l’estrema spoliazione, quella del capoluogo, senza sperare in alcuna ulteriore compensazione.

L’unica soluzione appare quella di ricollegare L’Aquila alla regione di cui pretende di continuare ad essere capoluogo, piuttosto che renderla estranea ad essa. Ciò significa, ad esempio, individuare un ruolo in relazione alle aree costiere ed oltre, verso i promettenti mercati balcanici, facendosi perno degli scambi tra Roma e l’Adriatico.

Ciò significa concentrare le risorse nel miglioramento dei collegamenti tra L’Aquila e Pescara piuttosto che disperderle nella realizzazione di strade di innegabile utilità, ma di scarsa rilevanza strategica.

Ciò significa “costringere” l’università ad occuparsi strutturalmente del territorio, promuovendovi l’insediamento di centri di ricerca di alta specializzazione.

La valorizzazione del patrimonio ambientale, la riqualificazione dei borghi, la protezione dei prodotti agro-alimentari ed il rilancio delle attività culturali possono fornire infine quel tessuto naturale per attrarre nell’Aquilano flussi turistici consistenti e permanenti, tali da garantire la sicurezza degli investimenti e dei posti di lavoro.

Appena qualche mese fa decine di partiti e legioni di candidati si sono sbizzarriti nel proporre soluzioni simili, adeguate a sventare la morte della Città: sarebbe il caso che oggi, ciascuno nel proprio ruolo di governo o di opposizione, si ricordi dei propri programmi elettorali ed inizi a lavorare seriamente per il bene comune, piuttosto che per i propri interessi personali o di parte.
L'Aquila, ottobre 2007
Walter Cavalieri




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