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CAPITALE PER VOCAZIONE

Mappa della città
di Bruno Vespa
Da ”Ulisse”, rivista di bordo dell’Alitalia
edizione ottobre 2003 n.235


Ho il ricordo di serate e di personaggi memorabili in una città a misura d’uomo, colta e raccolta nel cuore degli Appennini.

”Una notte d’insonnia ghibellina...”. Sono passati esattamente quarant’anni da quando Giorgio Prosperi, critico drammatico del "Tempo", cominciava così un articolo sul debutto del Teatro Stabile dell’Aquila. In una notte d’insonnia ghibellina egli pensò che la mia città sarebbe stata ideale per trasferirvi addirittura la capitale d’Italia. Una capitale a misura d’uomo, colta e raccolta, con i ministeri vicini l’uno all’altro. Una capitale all’americana, sistemata talvolta in città tanto piccole da potersene ignorare legittimamente il nome.

Ma il sogno ad occhi aperti era appunto frutto dell’insonnia ribalda di un uomo di teatro. Prosperi e i suoi insigni colleghi dei maggiori quotidiani italiani erano venuti a L’Aquila per la prima rappresentazione di "L’uomo, la bestia e la virtù", una delle commedie meno note di Luigi Pirandello, che determinò il rilancio artistico di Achille Millo. Sarebbero poi tornati per la prima assoluta del "Dio Kurt" di Alberto Moravia e dell’"Avventura di un povero cristiano" di Ignazio Silone. Furono serate memorabili. I romani hanno fama d’essere pigri e di sopravalutare enormemente le difficoltà. Allora l’autostrada non c’era (la Roma-L’Aquila sarebbe stata inaugurata solo nel ’70) e la Salaria richiedeva tre ore d’automobile. Ma a Moravia i suoi amici parlarono di un viaggio avventuroso tra i monti e poiché si era in inverno non vollero escludere l’incontro con uno dei nostri lupi che ormai vanno purtroppo scomparendo. Così lo scrittore, che era atteso per la sera, si mise in cammino presto e arrivò all’ora di pranzo, quando nessuno naturalmente lo aspettava.

Gli anni Sessanta segnarono il rinascimento culturale aquilano. Il Teatro Stabile vide i primi successi di Gigi Proietti e di Piera degli Esposti, vide nascere l’amore prima artistico e poi sentimentale tra Paola Gassman e Ugo Pagliai, vide affermarsi registi che avrebbero poi avuto un grande ruolo nel teatro italiano come Antonio Calenda. E intanto, nel meraviglioso auditorium che tuttora è attivo in un bastione del cinquecentesco Castello spagnolo, la Società Aquilana dei Concerti dava serate memorabili con i maggiori concertisti del tempo. Nella mia prima giovinezza mi sembrava del tutto normale ascoltare ad anni alterni Arthur Rubinstein e Arturo Benedetti Michelangeli. Rubinstein, che dell’Aquila era perfino cittadino onorario e ogni volta si sottoponeva pazientemente alle richieste d’autografi di noi ragazzi, accettava di suonare al teatro Comunale, più grande dell’auditorium. Benedetti Michelangeli, che aveva il suo carattere (pessimo, come ogni carattere forte), non accettò mai di muoversi dall’auditorium dotato di una delle acustiche migliori che sia dato di rilevare nelle sale da concerto di tutto il mondo. Ricordo che quando suonò il giovanissimo Maurizio Pollini, fresco vincitore del concorso Chopin, i vecchi melomani aquilani dissero: “Questo ragazzo crescerà”.

Sviatoslav Richter venne quando gli fu consentito per la prima volta di lasciare l’Unione Sovietica. Ma all’ora dello spettacolo scomparve. Il direttore artistico della Società dei Concerti, grande musicologo comunista, pensò a un rapimento della Cia. Noi cronisti ci mettemmo a caccia del presunto scomparso e lo trovammo a duecento metri dal teatro Comunale mentre solo, fradicio di pioggia, stava ritto a rimirare il capolavoro rinascimentale della basilica di San Bernardino da Siena.

Nel Castello spagnolo, costruito per “reprimere l’audacia degli aquilani”, che cessarono alla fine del ’500 di essere ricchi e insofferenti, sono passati i maggiori concertisti internazionali. L’Aquila resta tuttora la città al mondo con il maggior tasso di consumo pro capite di musica classica. Da quella Società dei Concerti sono nate infatti orchestre sinfoniche e da camera, conservatori e complessi d’archi. Anche se le modeste risorse finanziarie della città non le consentono più di ospitare grandissimi nomi con la frequenza di un tempo.

Nei sotterranei del Castello, all’inizio degli anni Sessanta, furono allestite a cura dell’allora giovanissimo Enrico Crispolti alcune delle mostre di arte contemporanea più importanti d’Europa. Lucio Fontana e Corrado Cagli (il primo vide accrescere la propria fortuna artistica, il secondo l’avrebbe perduta) fecero a L’Aquila due tra le loro primissime grandi mostre antologiche. La stessa cosa accadde per Alberto Burri. Si tenne un’antologica di René Magritte di cui era difficilissimo allora esporre tante opere insieme.

Questa ansia di futuro contrastava curiosamente con il carattere degli aquilani che si crogiola nelle glorie del passato. Quando fu costruita nel 1254 L’Aquila era la Bolzano del regno meridionale. Città prospera e strategica, con le sue 99 chiese e piazze e fontane (numeri di relativa fantasia se fino a pochi anni fa le chiese aperte a L’Aquila erano cinquantaquattro) si sviluppò a un ritmo oggi impensabile per quasi tutte le strutture urbane che non siano un ammasso informe di orribili palazzine popolari. Quarant’anni dopo la fondazione, la città era in grado di ospitare re e principi per l’incoronazione di papa Celestino V nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, esempio superbo di romanico-gotico che da sola vale il viaggio. Si dice che tra la folla si nascondesse Dante Alighieri, il quale poi bollò di “viltade” il povero eremita del Morrone trascinato suo malgrado sul soglio pontificio, rimproverandogli il “gran rifiuto” e la colpa di aver mandato sul trono quel Bonifacio VIII che di Celestino fu probabilmente l’assassino e di Dante lo storico nemico.

In quel tempo, si disse, L’Aquila arrivò a contare più abitanti di una Roma che attraversava il periodo di massima decadenza della propria storia. Prima della crisi secentesca seguita all’occupazione spagnola, la mia città era riuscita ad accumulare tanti gioielli architettonici che oggi s’offrono al visitatore colto (ormai da Roma s’impiega un’ora di autostrada). Il terremoto del 1703 ne distrusse alcuni e ne danneggiò altri. Chiese tra le più belle (Collemaggio, San Silvestro, San Pietro) furono rappattumate all’interno da mediocri architetti tardobarocchi. Negli anni Settanta un coraggioso sovrintendente, Mario Moretti, le riportò allo splendore dovuto e per questo fu così massacrato da Bruno Zevi e da altri teorici dell’intangibilità ad ogni costo da morirne di crepacuore.

Non posso chiudere questo breve ritratto dell’Aquila senza parlare del Gran Sasso che la domina da levante. La mia casa paterna, pur stando nel centro cittadino, gode per intero il panorama dell’intera catena. “È nevicato sul Gran Sasso”. “Oggi il Gran Sasso è nero di nubi”. Ogni mattina, per anni, mia madre m’ha svegliato col caffè, il giornale di Giorgio Prosperi sul quale cominciai a scrivere a sedici anni e le notizie sul Gran Sasso. Questa montagna meravigliosa ha dominato la mia vita.

Eppure non posso dire di conoscerla come vorrei, e me ne rammarico. Oggi gli alberi che ci separano dalla sua vista sono cresciuti al punto da rischiarne la copertura dalle mie finestre, come è già avvenuto per il Castello spagnolo. Se avete un po’ di tempo, andateci. Anche se le stagioni sono impazzite, si scia ancora da novembre a maggio. E d’estate vi sembrerà di stare negli altipiani del West (non a caso nel parco nazionale del Gran Sasso si girano film western).
Bruno Vespa, giornalista e scrittore




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