Delitto di Balsorano: Vent'Anni Dopo - Ancora Dubbi sul Giallo-Perruzza
Intervista ad Angelo De Nicola per il sito abruzzoweb.it
24 agosto 2010
di Alberto Orsini
(leggi in originale)
l'AQUILA - Vent’anni dal delitto di Balsorano. Sembra preistoria a parlarne, ma si tratta di un caso di cronaca nera che dal 24 agosto 1990 si è trascinato nelle sue fasi processuali fino al 2003, quando uno dei protagonisti principali, quel Michele Perruzza passato alla storia come "mostro", si è spento ribadendo invece per l'ennesima volta la sua innocenza: "Dite a tutti che non sono stato io", le sue ultime parole.
La storia è tanto semplice quanto efferata. La mattina di due decenni fa a Case Castella, frazione di Ridotti, a sua volta frazione di Balsorano (l'Aquila), fu trovato tra i rovi il corpicino senza vita di una bambina di 7 anni, Cristina Capoccitti, scomparsa la sera prima. La bambina era seminuda, tanto che si parlò subito di violenza sessuale, tesi poi corretta con le indagini.
Nei giorni successivi, il cugino di Cristina, Mauro Perruzza, 13 anni all'epoca, si autoaccusò del delitto, salvo poi ritrattare e accusare il padre, a sua volta arrestato e che da allora non si è mai più liberato dalla fama di assassino.
Michele Perruzza si è sempre proclamato innocente. Ma dall'altro lato Michele Perruzza non ha mai voluto affermare che il figlio era il colpevole, suscitando l'ira del suo legale, Attilio Cecchini, che per una battaglia di principio ha voluto difenderlo gratuitamente per anni. A chiudere il triangolo la moglie di Michele e zia di Cristina, Maria Giuseppa Capoccitti, forse l'unica che sa la verità e non ha mai voluto dirla.
Una vicenda intricata, che si è dipanata quando i cellulari non c’erano e Internet neppure, quando il codice di procedura penale era appena cambiato e i giornali erano ancora tutti in bianco e nero, con quelle foto sparate che ancora oggi fanno una certa impressione.
Una vicenda raccontata per filo e per segno, prima sul Messaggero e poi in un libro, da Angelo De Nicola, cronista che ha avuto eccezionalmente la possibilità di occuparsi per quasi quindici anni in prima persona del fatto.
Vent’anni dopo, quello che rimane sono tanti dubbi sulla colpevolezza di Perruzza, e la conseguente valutazione complessiva di una "sconfitta dell'intero sistema", che ha accertato e accettato una verità processuale, ma non ha saputo trovare quella sostanziale, visto che il dubbio su chi sia l'assassino tra padre e figlio ancora c'è, eccome.
24 agosto 2010
24 agosto 2010
di Alberto Orsini
(leggi in originale)
l'AQUILA - Vent’anni dal delitto di Balsorano. Sembra preistoria a parlarne, ma si tratta di un caso di cronaca nera che dal 24 agosto 1990 si è trascinato nelle sue fasi processuali fino al 2003, quando uno dei protagonisti principali, quel Michele Perruzza passato alla storia come "mostro", si è spento ribadendo invece per l'ennesima volta la sua innocenza: "Dite a tutti che non sono stato io", le sue ultime parole.
La storia è tanto semplice quanto efferata. La mattina di due decenni fa a Case Castella, frazione di Ridotti, a sua volta frazione di Balsorano (l'Aquila), fu trovato tra i rovi il corpicino senza vita di una bambina di 7 anni, Cristina Capoccitti, scomparsa la sera prima. La bambina era seminuda, tanto che si parlò subito di violenza sessuale, tesi poi corretta con le indagini.
Nei giorni successivi, il cugino di Cristina, Mauro Perruzza, 13 anni all'epoca, si autoaccusò del delitto, salvo poi ritrattare e accusare il padre, a sua volta arrestato e che da allora non si è mai più liberato dalla fama di assassino.
Michele Perruzza si è sempre proclamato innocente. Ma dall'altro lato Michele Perruzza non ha mai voluto affermare che il figlio era il colpevole, suscitando l'ira del suo legale, Attilio Cecchini, che per una battaglia di principio ha voluto difenderlo gratuitamente per anni. A chiudere il triangolo la moglie di Michele e zia di Cristina, Maria Giuseppa Capoccitti, forse l'unica che sa la verità e non ha mai voluto dirla.
Una vicenda intricata, che si è dipanata quando i cellulari non c’erano e Internet neppure, quando il codice di procedura penale era appena cambiato e i giornali erano ancora tutti in bianco e nero, con quelle foto sparate che ancora oggi fanno una certa impressione.
Una vicenda raccontata per filo e per segno, prima sul Messaggero e poi in un libro, da Angelo De Nicola, cronista che ha avuto eccezionalmente la possibilità di occuparsi per quasi quindici anni in prima persona del fatto.
Vent’anni dopo, quello che rimane sono tanti dubbi sulla colpevolezza di Perruzza, e la conseguente valutazione complessiva di una "sconfitta dell'intero sistema", che ha accertato e accettato una verità processuale, ma non ha saputo trovare quella sostanziale, visto che il dubbio su chi sia l'assassino tra padre e figlio ancora c'è, eccome.
Domanda: Ti ricordi dov’eri vent’anni fa, di mattina?
Risposta: «Ero in redazione quand’è arrivata questa famosa notizia Ansa: ritrovato il corpicino di una bambina seviziata, poi si precisò parlando di "violentata". In quel momento ero solo, sembrerà strano ma non c’erano i telefonini, così ho preso e sono partito. Ho lasciato un messaggio sulla scrivania di Guido Polidoro, allora capo della redazione, lasciando il take e scrivendo "Mi sembra grossa, io vado là". Sono partito e sono entrato in quello che è stato un girone infernale, un po’ per tutti i protagonisti: è una vicenda che in modo diverso ha segnato tutti quelli che ci sono capitati, anche me.
D.: Era l'estate dei delitti.
R.: «l'8 agosto precedente c’era stato via Poma, poi è iniziato quest’altro giallo, tenendo presente che era all'inizio il nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore a fine giugno di quell'anno. Il caso-Perruzza è stato il primo caso grave di omicidio cui dovevano essere applicate tutta una serie di procedure diverse e un meccanismo stravolto. Questo può aver segnato in negativo un inizio di indagine che è fondamentale, visto che tradizionalmente si dice che se entro 48 ore non si trova il colpevole poi è difficile sciogliere i nodi, se non impossibile.
D.: Il reato si estingue con la morte del reo, ma la questione su chi fosse il reo è ancora aperta?
R.: «È stato condannato un uomo in nome del popolo italiano, quindi a nome anche mio e tuo. Condannato all'ergastolo, con "fine pena: mai", che nella società civile equivale alla pena di morte. Abbiamo fatto sibilare la lama della ghigliottina sul collo di questo cristiano in nome nostro, ma noi popolo non siamo certi della sua colpevolezza. E questa è la più grande sconfitta di un sistema che esce malamente da questa vicenda, proprio perché vent’anni dopo, e dopo la pietra tombale che è stata la morte di Michele Perruzza, stiamo ancora a discutere se sia stato lui o no.
D.: Che idea ti sei fatto dopo vent’anni sul caso? Qual è la verità?
R.: «Vanno distinti due aspetti, quello della verità processuale e quello della verità vera. Su quest’ultimo aspetto non mi sento di dare alcuna verità. Dico solo che chi sa la verità è la moglie, che ha talmente inquinato e ingarbugliato la sua matassa, che non a caso ha avuto una condanna "morale" all'ergastolo non solo dai familiari, ma anche dai suoi paesani, che hanno scritto sui muri "Michele e Maria assassini". Nelle poche volte che è stata messa alle strette dal sistema giudiziario, tra il ruolo di moglie e quello di madre ha scelto il secondo, che mi sembra anche questo un aspetto comprensibile. È lei che potrebbe chiarirci, oggi, e sollevarci o confortarci.
D.: Pensi lo farà mai?
R.: «A questo punto, qualsiasi cosa dovesse dire sarebbe completamente non credibile. Ha talmente ingarbugliato le cose... Se dicesse oggi "È stato mio figlio" o "È stato mio marito" stenterei a crederle, e ci vedrei una qualche ragione. Magari non necessariamente negativa, anche solo per cercare di riallacciare contatti.
D.: E la verità processuale?
R.: «Sotto questo punto di vista, tecnico, da osservatore sono categorico. Abbiamo condannato un innocente, o quantomeno gli avremmo dovuto dare l'insufficienza di prove. È vero che nel codice non esiste più, ma c'è l'assoluzione con formula dubitativa.
D.: Senza vederci chissà quali trame dietro, secondo te l'assassino "doveva" essere lui?
R.: «Non sono un innocentista a prescindere, però se si leggono le carte... Non credo al complotto, ma credo alla pochezza di alcune persone. È stata la sagra del pressappochismo, con giudici inquirenti che diventavano requirenti, con aspetti sottovalutati o del tutto ignorati, come l'inchiesta della Procura minorile, che non è mai andata avanti.
D.: Che sia o meno nel codice, perché parli di "insufficienza di prove"?
R.: «Il processo principale si è concluso con la conferma, Carnevale presidente della Cassazione, dell'ergastolo, e rispetto questa sentenza. Ma sempre in nome del popolo italiano, il processo satellite di Sulmona ha smontato tutto il piccolo castello di accuse nei confronti di questo cristiano. Michele Perruzza aveva quantomeno il diritto alla "bella", la revisione del processo, e il sistema gliel'ha negata.24 agosto 2010