«Cristo! Ma qui è pericoloso, quasi un suicidio. Ho visto la morte in faccia almeno tre volte su quelle maledette creste». Il signor Giacomo aveva lo sguardo terrorizzato. Il relativamente comodo sentiero che parte da Campo Imperatore, a duemila metri di quota, in direzione della vetta di Pizzo Cefalone, a 2.553 metri, ad un certo punto diventa una stradina sospesa tra due strapiombi sulle rocce. Il sovrintendente era sfilato sicuro; lui, invece, aveva dovuto richiamare tutte le proprie energie mentali e, più volte, aveva avuto la forte tentazione di desistere. Ma, ad ogni crisi, vista la difficoltà di girarsi per tornare indietro, aveva optato per il proseguire. Nemmeno lo scenario mozzafiato che s’era aperto, all’improvviso, dallo sperone su cui era stata issata la grande Croce, una sorta di balconata di pietra affacciato sul mondo, riuscì a confortarlo. Anche perché, mentre cercava di affacciarsi per guardare meglio il mondo da quel balcone, fu subito richiamato con un urlo dal sovrintendente («Attenzione, lì c’è uno strapiombo!») che lo fece ritrarre spaventato. …
Il romanzo “La missione di Celestino” – Capitolo 7 (Parte Seconda)
«C’era proprio bisogno di buttarmi giù da letto? Devo dire alla reception di non passarmi telefonate almeno fino alle 9, soprattutto di un tale che si spaccia per sovrintendente alla Perdonanza. Sono o no in ferie?». Il signor Giacomo, lasciando la hall dell’albergo, a due passi da piazza Duomo, appariva in effetti stralunato. La folta barba arruffata, poi, gli dava un’aria trasandata, più del solito.
«Effettivamente ho esagerato- si scusò il sovrintendente-. Ma è stata talmente la sorpresa che ho subito elaborato un piano. Non era poi così presto…».
«Ma no, erano soltanto le 6 e trenta! Considerando che tra una genziana e l’altra ieri sera abbiamo fatto l’una, ho dormito solo cinque ore. Tenga presente che per essere in forma a me occorrono almeno otto ore di sonno».
«Per la forma intende, ovviamente, quella fisica…».
Il romanzo “La missione di Celestino” – Capitolo 6 (Parte Seconda)
Il piccolo Santuario, abbagliato dal sole, appariva ancora più raccolto. Più intimo. Il via vai di studenti vocianti dell’ex convento, oggi trasformato in polo universitario, sembrava riecheggiare il via vai dei religiosi che un tempo animavano il colle.
«E’ rimasto in sostanza solo il parroco, uno straniero- disse il sovrintendente al signor Giacomo come proseguendo un discorso avviato, invece, solo nella sua testa-. La comunità delle suore è andata via via assottigliando fin quasi a scomparire».
«Doveva essere un importante polo religioso se il Papa ha scelto questo posto».
«Annesso alla chiesetta, nel Duecento, c’era un ospedale gestito da suore. …
Il romanzo “La missione di Celestino” – Capitolo 5 (Parte Seconda)
«Andiamo. Vedrà, lì in cima le piacerà» disse il sovrintendente inforcando di nuovo la salita.
«Cosa sono queste piccole croci di ferro qui ai lati?».
«Ricordo dei Caduti di Roio della Prima guerra mondiale. Perciò questo si chiama il ”Parco della Rimembranza”».
«Anche la guerra ci perseguita. Certo che se vuol essere un ricordo, si potrebbe mantenere questo posto in maniera più decente. Mi sembra tutto all’abbandono».
«Ha ragione. Pensi che un mio conoscente, ogni volta che, specie la domenica mattina, lo incrocio lungo la Via Mariana, mi rimprovera di non aver fatto nulla per restituire dignità a questo posto così significativo…».
«Un cimitero di caduti, un parco della rimembranza, alla base del “Calvario bis” della Gerusalemme seconda: tenuto così è uno scandalo!». …
Il romanzo “La missione di Celestino” – Capitolo 4 (Parte Seconda)
«”Per Crucem, viator, et Mariam reperies tutam viam”… Sarebbe?- Il signor Giacomo era rimasto col naso all’insù a guardare la facciata del Santuario della Madonna di Roio dove campeggia una scritta in latino- Questa chiesa è davvero graziosa».
«La scritta significa: ”O tu che passi, ricordati che solo amando la Croce e Maria avrai sicura la via”».
«Ancora la croce».
«E ancora Maria. Venga, entriamo. Ci sono delle belle sorprese».
La piccola chiesa accolse i due “pellegrini”come solo alcuni luoghi magici sanno fare. Un luogo piccolo ma “caldo”, con banchi e sedie accalcati verso il transetto.Un quadro sopra l’altare maggiore, raffigurante la visitazione di Maria a Sant’Elisabetta, colpì il signor Giacomo. …
Il romanzo “La missione di Celestino” – Capitolo 3 (Parte Seconda)
«La chiamano Via Crucis perché, dopo questa salita che non molla mai nemmeno per un centimetro, il pellegrino vede apparirgli al fine la Madonna….».
Il sovrintendente non rispondeva.
«Beh, lei ci avrà di sicuro già parlato con la Vergine. Magari, nel frattempo che la raggiungevo io, le ha scritto anche una e-mail. Che programma di posta elettronica usano in Paradiso? Sette, ben sette Stazioni ho passato da quella in cui c’eravamo fermati. Ho attraversato tutto il Mistero Doloroso e tutto quello Glorioso: alla fine l’ho vista pure io la Madonna. In questa Stazione cosa c’è scritto? ”In memoria di Maria Rusconi, vedova Confalonieri”. Ancora questo Confalonieri. Che pizza…».
«Non sia blasfemo. Abbia un po’ di rispetto!».
«Ho rispetto, ma solo per lei. In fondo siamo stati messi dal destino sulla stessa barca. Non la posso lasciare da solo in balia della sua amica. Che forse tiene bottone ad un gruppo di mezzi pazzi». …
Il romanzo “La missione di Celestino” – Capitolo 2 (Parte Seconda)
«Cardinale Carlo Confalonieri… quello della maschera di cera di Celestino V. Dovrei capire qualcosa?… Oddio che fiacca!». La Via Crucis di Roio, alla periferia della città, una mulattiera immersa nel bosco tutta in salita, particolarmente erta per la verità, era appena cominciata ma il signor Giacomo aveva già il fiatone. L’aria fresca del mattino, intrisa di rugiada, gli penetrava nei polmoni fino a farlo ansimare.
«Un po’ d’esercizio fisico non potrà che farle bene. La vedo davvero a terra».
«Caro sovrintendente…».
«Non sono più il sovrintendente alla Perdonanza, gliel’ho già detto».
«Per me lo sarà sempre. Dicevo… Mi aveva parlato di una passeggiata. Questa mi pare una scalata all’Everest!». …
Il romanzo “La missione di Celestino” – Capitolo 1 (Parte Seconda)
«Due anni… Stento a crederci. Sono passati due anni…».
«E questa città è rimasta la stessa. Sempre la stessa. Carissimo il mio signor Giacomo, quando mi dissero che anche la venuta del Papa per la Perdonanza non avrebbe comportato sconvolgimenti in questa nostra città, pensai al solito disfattismo. E’ andata proprio così. Come se nulla fosse accaduto!».
«Immota manet, me lo ha insegnato lei».
«E già…».
«Immota manet, tranne che per noi due». …
Il mio 6 Aprile dieci anni dopo – Lungo gli stessi passi tra dolore e speranza
Le due prese della corrente, che alimentavano le giostre per bambini e dove io invece ricaricai il mio cellulare ricollegandomi così con la “vita”, oggi ci sono ancora nella parte retrostante dello “Chalet” della Villa comunale. Nello slargo della Villa ci accampammo in tanti la mattina del 6 aprile, dopo la lunga notte. Da qui partii a piedi, quella mattina, per un viaggio che mi sembrò lunghissimo.
Da qui, dopo un buon caffè allo Chalet, riparto oggi, dieci anni dopo. L’Emiciclo è splendido! E’ uno dei simboli della rinascita, del “dove era ma meglio di com’era” perchè, a parte l’efficace restauro, è sparita la cancellata (al riparo della quale, in tanti, facemmo i primi bisogni quella mattina…) che separava uno dei palazzi del potere dai giardini della Villa. Un “diaframma” caduto.
Con una maglietta che mi fasciava la testa, ferita sotto un crollo, arrivai risalendo il Corso a piazza Duomo. L’immagine che ricordo fu quella di un bombardamento. Tirò pure una scossa molto forte. Mi tremarono le gambe da non riuscire a reggermi in piedi. Oggi l’ovale è da poco sgombro di cantieri. Sì, è vero, il Duomo è una scatola di pietre che contiene ormai una foresta, ma tutt’intorno è rinascita. La chiesa delle Anime Sante è bellissima; la cupola del Valadier è tornata all’antico splendore. Quanto è bella la mia piazza a guardarla in un girotondo!
Sotto i Portici passeggiavano zombie. Mi avevano detto che ai Quattro Cantoni avrei trovato un’ambulanza ove avrei potuto farmi medicare le ferite alla testa. Invece c’era solo una gazzella con due carabinieri, impotenti e spaesati: «Lei deve andare all’ospedale». Se non fosse crollato anch’esso! Oggi, ai Quattro cantoni, alzo lo sguardo e vedo splendere i palazzi Ciolina e Fibbioni, mentre dai Portici di San Bernardino scorgo il bianco rifulgente della facciata della basilica rinata. E’ ancora un pianto di puntellamenti, invece, l’angolo del bar Eden.
Proseguii per trovare l’ambulanza ma anche perchè volevo arrivare a casa dei miei genitori, nel quartiere di San Pietro. Un amico nella notte aveva fatto da ponte col telefonino: «Tutti vivi!». Camminavo prudentemente al centro del Corso stretto. Che oggi, seppure non del tutto completo, è un più bello di prima anche se non ci sono le due ali di negozi di un tempo. L’ambulanza non c’era nemmeno alla Fontana luminosa. Qui oggi trovo rinati i due palazzi tondi che fanno da “porta d’ingresso” al Corso. Da un lato palazzo dei Combattenti. Dall’altro l’edificio (quasi) gemello che ospitava anche la redazione del Messaggero cui, quella mattina, nemmeno gettai uno sguardo pur essendo la mia seconda “casa”.
Dovevo arrivare a San Pietro. Scelsi la via più sicura: viale Duca degli Abruzzi. Dove, a parte il polo umanistico dell’Università nella parte iniziale brulicante di studenti e un pugno di case più in là, oggi tutto sembra rimasto al 6 aprile. Soprattutto le scuole. La media Carducci: distrutta. Il Professionale femminile: distrutto. L’asilo: distrutto. Le elementari: distrutte. Il Professionale Don Bosco: almeno c’è il cantiere. Casa dei miei genitori: distrutta, anche se i lavori dovrebbero finalmente cominciare. I miei hanno più di 80 anni. Chissà se rivedranno la loro casa…
Dalle “scalette del Viale”, scorciatoia di collegamento tra la chiesa di San Pietro e il vicino Oratorio salesiano, il mio viaggio quella mattina proseguì con lo scooter che, parcheggiato nel garage della casa dei miei, riuscii a far scendere a mano proprio lungo i gradini perchè i crolli avevano reso i vicoli impercorribili. Indossai anche il casco, sopra le ferite. Passai, come tanti, sul ponte di Belvedere senza pormi dubbi. Oggi il ponte è chiuso alle auto e si transita solo a piedi. Non si sa se è pericolante o meno: chi dice una cosa e chi un’altra. Lungo viale Persichetti è nata la prima agenzia di una nuova banca a un soffio dal civico 79. Mi lascio sulla mia destra la Casa dello Studente cui, allora come oggi, non sono riuscito mai a gettare lo sguardo, quasi per pudore del dolore che è anche il mio per tutti quei figli nostri.
Via XX settembre era una bolgia di pietre dei crolli da evitare e di gente che non sapeva dove andare. Volevo andare a casa mia a prendere gli occhiali, il cellulare e il portafoglio. Mi ripetevo ossessivamente ad alta voce: «Entro, li prendo, ed esco subito. Entro, li prendo, ed esco subito. Entro, li prendo, ed esco subito». Parcheggiai lo scooter di fronte alla chiesa di San Francesco di Paola (oggi puntellata). Per arrivare a casa, dovevo percorrere via Sant’Andrea e poi via Cola dell’Amatrice (un nome del destino!). Dentro di me sapevo che stavo discendendo all’inferno. Morti ovunque, a terra, sotto le proprie coperte. Urla strazianti. Occhi sbarrati di chi attendeva una speranza che non sarebbe mai arrivata. E’ da poco passato mezzogiorno. E’ solo l’inizio.
Tutt’oggi non riesco a ricordare come feci ad arrivare a casa mia, visto che l’unico passaggio, un vicolo, era interrotto dalle macerie di due palazzi crollati l’uno sull’altro. Di sicuro devo essere passato dalla breccia, lungo le mura antiche, che all’alba noi sopravvissuti del quartiere avevamo “scalato” usando una ringhiera per scaletta. Arrivai a casa. Davanti all’androne “esploso” riflettei se avventurarmi ad entrare. Entrai. Presi quello che avevo deciso. Null’altro.
Oggi quel palazzo di sei piani è un cumulo di macerie. E’ crollato con la scossa di Norcia del 30 ottobre 2016. Mi dicono che toglieranno presto le macerie. E che si ricostruirà. Le mura antiche, a un palmo dalle macerie, dopo il recente restauro rifulgono di una grande bellezza.
Angelo De Nicola
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Articolo pubblicato il 6 aprile 2019 sul Messaggero – Edizione Abruzzo
Il romanzo “La missione di Celestino” – Capitolo 25 (fine Parte Prima)
«Dunque, non è finita. Il gioco dell’oca riparte…».
«È stato il questore in persona a trovarlo durante il sopralluogo per cercare qualche impronta, qualche indizio. Nulla. Come se li avesse aiutati lo Spirito Santo a violare il mausoleo. Hanno scritto nel verbale quelli della Criminalpol che le serrature dell’inferriata e della teca dovevano essere già state aperte nei giorni scorsi. Non avrebbero avuto tempo e modo di farlo in quel trambusto e con tutta quella gente: sarebbero stati notati. Addirittura, il timer dell’allarme è stato trovato fermo alla data del primo giugno scorso. Dunque, avevano predisposto tutto, da mesi, nei minimi particolari. Non c’è nemmeno bisogno di sottolinearlo».
«Dov’era il biglietto?».
«Nascosto nella pantofola, quella di destra mi pare. Voglio dire del piede destro delle sacre spoglie. Il questore mi ha subito chiamato e mi ha ordinato di consegnarla a lei..per competenza. Il tempo di tornare qui in Municipio a cercarla…». …