Il mio 6 Aprile dieci anni dopo – Lungo gli stessi passi tra dolore e speranza

Via Cola dell’Amatrice n. 60 all’Aquila nel post sisma

Le due prese della corrente, che alimentavano le giostre per bambini e dove io invece ricaricai il mio cellulare ricollegandomi così con la “vita”, oggi ci sono ancora nella parte retrostante dello “Chalet” della Villa comunale. Nello slargo della Villa ci accampammo in tanti la mattina del 6 aprile, dopo la lunga notte. Da qui partii a piedi, quella mattina, per un viaggio che mi sembrò lunghissimo.


Da qui, dopo un buon caffè allo Chalet, riparto oggi, dieci anni dopo. L’Emiciclo è splendido! E’ uno dei simboli della rinascita, del “dove era ma meglio di com’era” perchè, a parte l’efficace restauro, è sparita la cancellata (al riparo della quale, in tanti, facemmo i primi bisogni quella mattina…) che separava uno dei palazzi del potere dai giardini della Villa. Un “diaframma” caduto.


Con una maglietta che mi fasciava la testa, ferita sotto un crollo, arrivai risalendo il Corso a piazza Duomo. L’immagine che ricordo fu quella di un bombardamento. Tirò pure una scossa molto forte. Mi tremarono le gambe da non riuscire a reggermi in piedi. Oggi l’ovale è da poco sgombro di cantieri. Sì, è vero, il Duomo è una scatola di pietre che contiene ormai una foresta, ma tutt’intorno è rinascita. La chiesa delle Anime Sante è bellissima; la cupola del Valadier è tornata all’antico splendore. Quanto è bella la mia piazza a guardarla in un girotondo!


Sotto i Portici passeggiavano zombie. Mi avevano detto che ai Quattro Cantoni avrei trovato un’ambulanza ove avrei potuto farmi medicare le ferite alla testa. Invece c’era solo una gazzella con due carabinieri, impotenti e spaesati: «Lei deve andare all’ospedale». Se non fosse crollato anch’esso! Oggi, ai Quattro cantoni, alzo lo sguardo e vedo splendere i palazzi Ciolina e Fibbioni, mentre dai Portici di San Bernardino scorgo il bianco rifulgente della facciata della basilica rinata. E’ ancora un pianto di puntellamenti, invece, l’angolo del bar Eden.


Proseguii per trovare l’ambulanza ma anche perchè volevo arrivare a casa dei miei genitori, nel quartiere di San Pietro. Un amico nella notte aveva fatto da ponte col telefonino: «Tutti vivi!». Camminavo prudentemente al centro del Corso stretto. Che oggi, seppure non del tutto completo, è un più bello di prima anche se non ci sono le due ali di negozi di un tempo. L’ambulanza non c’era nemmeno alla Fontana luminosa. Qui oggi trovo rinati i due palazzi tondi che fanno da “porta d’ingresso” al Corso. Da un lato palazzo dei Combattenti. Dall’altro l’edificio (quasi) gemello che ospitava anche la redazione del Messaggero cui, quella mattina, nemmeno gettai uno sguardo pur essendo la mia seconda “casa”.


Dovevo arrivare a San Pietro. Scelsi la via più sicura: viale Duca degli Abruzzi. Dove, a parte il polo umanistico dell’Università nella parte iniziale brulicante di studenti e un pugno di case più in là, oggi tutto sembra rimasto al 6 aprile. Soprattutto le scuole. La media Carducci: distrutta. Il Professionale femminile: distrutto. L’asilo: distrutto. Le elementari: distrutte. Il Professionale Don Bosco: almeno c’è il cantiere. Casa dei miei genitori: distrutta, anche se i lavori dovrebbero finalmente cominciare. I miei hanno più di 80 anni. Chissà se rivedranno la loro casa…


Dalle “scalette del Viale”, scorciatoia di collegamento tra la chiesa di San Pietro e il vicino Oratorio salesiano, il mio viaggio quella mattina proseguì con lo scooter che, parcheggiato nel garage della casa dei miei, riuscii a far scendere a mano proprio lungo i gradini perchè i crolli avevano reso i vicoli impercorribili. Indossai anche il casco, sopra le ferite. Passai, come tanti, sul ponte di Belvedere senza pormi dubbi. Oggi il ponte è chiuso alle auto e si transita solo a piedi. Non si sa se è pericolante o meno: chi dice una cosa e chi un’altra. Lungo viale Persichetti è nata la prima agenzia di una nuova banca a un soffio dal civico 79. Mi lascio sulla mia destra la Casa dello Studente cui, allora come oggi, non sono riuscito mai a gettare lo sguardo, quasi per pudore del dolore che è anche il mio per tutti quei figli nostri.


Via XX settembre era una bolgia di pietre dei crolli da evitare e di gente che non sapeva dove andare. Volevo andare a casa mia a prendere gli occhiali, il cellulare e il portafoglio. Mi ripetevo ossessivamente ad alta voce: «Entro, li prendo, ed esco subito. Entro, li prendo, ed esco subito. Entro, li prendo, ed esco subito». Parcheggiai lo scooter di fronte alla chiesa di San Francesco di Paola (oggi puntellata). Per arrivare a casa, dovevo percorrere via Sant’Andrea e poi via Cola dell’Amatrice (un nome del destino!). Dentro di me sapevo che stavo discendendo all’inferno. Morti ovunque, a terra, sotto le proprie coperte. Urla strazianti. Occhi sbarrati di chi attendeva una speranza che non sarebbe mai arrivata. E’ da poco passato mezzogiorno. E’ solo l’inizio.
Tutt’oggi non riesco a ricordare come feci ad arrivare a casa mia, visto che l’unico passaggio, un vicolo, era interrotto dalle macerie di due palazzi crollati l’uno sull’altro. Di sicuro devo essere passato dalla breccia, lungo le mura antiche, che all’alba noi sopravvissuti del quartiere avevamo “scalato” usando una ringhiera per scaletta. Arrivai a casa. Davanti all’androne “esploso” riflettei se avventurarmi ad entrare. Entrai. Presi quello che avevo deciso. Null’altro.


Oggi quel palazzo di sei piani è un cumulo di macerie. E’ crollato con la scossa di Norcia del 30 ottobre 2016. Mi dicono che toglieranno presto le macerie. E che si ricostruirà. Le mura antiche, a un palmo dalle macerie, dopo il recente restauro rifulgono di una grande bellezza.

Angelo De Nicola
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Articolo pubblicato il 6 aprile 2019 sul Messaggero – Edizione Abruzzo