Il mio articolo sul Messaggero (edizione Abruzzo) di oggi:
L’AQUILA Era un “romano de Roma”, ma con L’Aquila Gigi Proietti aveva un rapporto speciale. Forse perché aveva cominciato qui, a pane cipolla, la sua lunga carriera di attore. Ma forse perché quella degli anni Settanta era una L’Aquila diversa. Una città creativa, intraprendente, visionaria. Come lo era Proietti, in fondo.
Basti considerare la “geografia” delle trattorie dove si consumava il momento cardine: la cena della Compagnia, dopo prove o lo spettacolo, spesso a tardissima ora, ma nessuna cucina chiudeva se c’era Gigi. Da “Scannapapere” nacquero tanti sketch di “A me gli occhi, please”. Tra questi lo stornello “E me metto a cantà”, mutuato dalla canzone popolare in vernacolo abruzzese “All’orte” (“All’orto”) che Gigi tanto amava. “Da Lincosta”, altre storica trattoria a due passi dalla sede del Tsa, serate epiche («Chi non sorride mi insospettisce…») con Proietti sempre cortese con tutti sia quando non era nessuno negli anni Settanta sia quando, anche da presidente del Tsa, tornava spesso a mangiare da Agostino e Giuliana. Cena mitica, anche con nevicata all’uscita, allo “Scalco delle Tre Marie” insieme a, tra gli altri, Vittorio Gassman, Ugo Pagliai e Paolo Villaggio con quest’ultimo messo a giro di una memorabile “passatella”.
Oppure da “Ernesto”: qui, racconta Roberto Castri (per tutti “Pecorino”, sua spalla in “A me gli occhi, please”) prese forma il famoso film “Febbre da cavallo”. «Gigi mi invitò a cena da Ernesto perchè si sarebbe incontrato col regista Steno- racconta Castri-. Mi disse: “A Pecorì, nun se poi mai sapè, te lo presento”. Per timidezza non ci andai…».
Ma non solo trattorie. Fu l’artigiano aquilano Figlioli, che aveva una bottega in centro, a realizzare a mano degli stivaloni neri da nazista a Gigi, che bello grosso non ne trovava in commercio, per il “Dio Kurt”. Oppure, i sipari per gli spettacoli erano realizzati con le stoffe del negozio Lillo.
Gigi l’aquilano. Così emerge dai racconti che straripano sui Social. Come quello del noto medico Paolo De Angelis: «Una sera di Natale di tanti anni fa, organizzammo una cena tra amici. Tra questi anche il mio caro amico Federico Fiorenza, direttore del Tsa. Immaginatevi un po’ la sorpresa quando si presentò con Gigi Proietti. La cena andò avanti con discorsi sul più e sul meno… nessuno aveva il coraggio di portare l’argomento sul lavoro di Gigi, eppure tutti eravamo curiosi di sapere tante cose sul mondo dello spettacolo e magari farci raccontare qualche barzelletta. Tutti però pensavamo di dargli fastidio. Quasi alla fine della cena, dopo due ore di convenevoli, improvvisamente disse: “Mi sembra di aver visto di là una chitarra…”. Un istante dopo iniziò lo spettacolo. Credo che non tralasciò nulla del suo infinito carnet, condito con intermezzi inventati ad hoc riguardanti ognuno di noi. La sua immagine era camaleontica e si adattava immediatamente al suo interlocutore, ma il bello era che si divertiva un mondo alle sue battute e ci rideva sopra dapprima con moderazione, poi sganasciandosi e trascinandoci nell’allegria».
Questa era L’Aquila degli anni Settanta. Che non c’è più. E ora non c’è più nemmeno Proietti a testimoniarla. Perciò l’obiettivo è fermare il ricordo. C’è chi (l’assessore comunale Piero Di Stefano del Pd) propone la cittadinanza onoraria e chi (sempre dal Pd: Stefania Pezzopane, Pierpaolo Pietrucci e Stefano Palumbo) di intitolargli la Sala Rossa del Teatro comunale «a testimonianza della gratitudine cittadina e del ricordo che per sempre dovremo conservarne».
«Ricordare Proietti- ha scritto nel suo ricordo il sindaco, Pierluigi Biondi-, oggi che ci ha lasciati, come un giovane entusiasta e curioso artista che si confrontava con una realtà di provincia colta e creativa, come era L’Aquila di quegli anni, ricca di fermenti culturali e di uomini visionari, credo che sia il sentimento più vero e sincero con il quale la nostra città può tributargli l’affetto e la stima che è presente in ognuno di noi».
Angelo De Nicola
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Mons. Giovanni D’Ercole e quella prefazione dal titolo “Un mite pericoloso”…
Oggi mons. Giovanni D’Ercole si è dimesso da vescovo di Ascoli Piceno. Già Arcivescovo ausiliario all’Aquila, monsignor D’Ercole ha fatto personalmente l’annuncio “choc” in un video ma la sua «scelta difficile, sofferta ma profondamente libera», come da lui stesso affermato, l’aveva comunicata qualche giorno fa al Santo Padre.
Un passo indietro come «atto di fede per un amore più grande verso tutti e ispirata al servizio della Chiesa e non a un puro interesse personale», questa la motivazione della sua decisione. Avvenuta, come ha fatto presente, «in un momento difficile in cui regna tanta confusione e paura».
Si ritira, al momento, in u monastero in Africa (dove ha iniziato il suo sacerdozio nella Piccola Opera di Don Orione, la congregazione a cui appartiene) «per pregare per tutti ed essere più vicino a tutti meditando su un futuro apparentemente incerto ma che con l’aiuto di Dio non lo sarà affatto».
Ecco cosa scrisse, profeticamente, D’Ercole nella prefazione al mio libro “Il Mito di Celestino” (2010, One Group):
UN MITE PERICOLOSO
La notte del 6 Aprile 2009 la terra ha aperto una enorme voragine nel transetto della Basilica di Santa Maria di Collemaggio, facendo crollare principalmente gli unici elementi barocchi sopravvissuti al restauro degli anni 70, restauro che ripristinò l’originale assetto medievale, rimuovendo la soffittatura seicentesca.
Gli occhi del mondo erano tutti rivolti con dolore alle macerie che riempivano l’area presbiteriale della basilica, all’organo stritolato dalle rovine, alla cupola svanita in una nuvola di polvere, alla ferita aperta verso il cielo…
Cosa avrebbe visto Pietro Celestino…? Lì, dove un tempo, secondo la leggenda, aveva sognato una scala d’oro salire verso la volta celeste, dove la Vergine Maria attendeva circondata dagli Angeli, uno squarcio nel transetto aveva permesso ai raggi del sole di entrare con irruenza e senza alcun filtro…
Dove tutti hanno visto una dolorosa ferita, lui, forse, avrebbe visto un segno… l’apertura di una porta, una porta verso il Cielo… come se fosse arrivato il tempo di cambiare punto di vista.
Alzare gli occhi al cielo, quando gli occhi di tutti gli uomini sono rivolti al suolo non è facile. Venerare i piedi degli angeli quando tutti gli uomini venerano solo fama e ricchezza è ancor più difficile.
Ricercare la purezza, in un mondo dove vigono i dettami dell’egoismo, non può che creare scandalo.
Scandalosi furono i grandi profeti, scandaloso fu Giovanni Battista, scandaloso il Messia, il Suo Insegnamento e il Suo sacrificio, scandalosi i primi Cristiani, scandaloso San Francesco, scandalosi buona parte dei Santi.
Scandalosi perché ribelli alle leggi degli uomini, ma sempre fedeli all’unica Legge, quella Divina.
Scandalosi perché capaci di vivere nel Mondo, senza però ad esso appartenere.
Scandalosi perché al servizio, non della propria gloria, ma della Gloria del Signore.
Scandaloso fu anche Pietro del Morrone.
In un’Era di Ferro, come la nostra, dove il materialismo dilagante riduce spesso la Fede a puerile superstizione, diventa sempre più difficile inquadrare un personaggio come Pietro del Morrone.
Gli storici difficilmente credono nei miracoli, difficilmente credono nella Provvidenza, anche quando ne menzionano l’intervento. Cercano sempre una ragione umana dietro ad ogni evento, provano a scoprire gli interessi materiali che si celano dietro i presunti miracoli narrati dalla tradizione e dalle leggende.
Un Pietro Celestino, che nella sua vita ha cercato di mettersi al servizio della volontà divina, diventa così difficile da capire e da spiegare. Non può che apparire un illuso, un sognatore, un integralista del Vangelo, amato dalla folla, ma in eterno conflitto con l’istituzione ecclesiastica dove, in quel tempo, i compromessi e gli intrighi erano all’ordine del giorno.
L’immagine di Pietro, suffragata da molti storici, è difatti quella del “povero cristiano”, dell’uomo “semplice e non litterato” che “delle pompe del mondo non si travagliava volentieri”, dell’eremita rozzo e solitario, inadeguato al papato, ignaro delle consuetudini della società, privo di capacità organizzative e vittima inconsapevole delle trame dei potenti.
E’ questo il mito di Pietro. Ridotto a fanatico della Fede, isolato dal Mondo e dal Mondo sfruttato e poi dimenticato. Considerato sempre inadeguato ad un papato a cui è giunto per un’ironia del destino o, tutt’al più, per un pianificato intrigo dei potenti.
L’unico gesto degno di nota fu la Rinuncia al Papato che, la tradizione dantesca, ricorda come scandaloso atto di viltà, mentre gli storici contemporanei, considerano il solo gesto eroico compiuto dal vecchio e stanco eremita. Un atto di ribellione nei confronti di un sistema corrotto di cui non voleva essere un fantoccio.
Ma è giusto sminuire sbrigativamente in questo modo la figura di Pietro Celestino? Era davvero incapace e all’oscuro delle problematiche del mondo? Fu davvero l’uomo sbagliato al momento sbagliato?
Pietro non poteva essere così sprovveduto rispetto al mondo in cui viveva. Il suo cuore sapeva che ogni uomo è l’artefice del proprio destino e che la storia è fatta dagli uomini, dai loro sogni e dai loro interessi. Pietro conosceva perfettamente il dono di Dio che si chiama libero arbitrio. Dono grandioso e tremendo al tempo stesso, dato che Dio ci lascia liberi di percorrere i mille vicoli ciechi dell’errore, dell’errare… ci lascia liberi di conoscere il Male per scoprire il Bene, ci lascia liberi di assaporare il Frutto della Conoscenza.
Ma Pietro sapeva anche che, in questa libertà, il Padre non abbandona mai i suoi figli. Invia continuamente Anime più evolute per rivelare la Via d’uscita dal labirinto del dolore e della Separazione.
I maestri, Santi e Profeti, sono come frecce di cui bisogna seguire la traccia luminosa lasciata nel cielo e sulla Terra, indicano la direzione, sgombrano il cammino quando è necessario, ma non possono percorrerlo al posto degli uomini. Ogni uomo deve affrontare autonomamente la propria strada.
E Pietro sapeva di dover essere uno di quei fratelli che gridano forte nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Aveva sentito il richiamo di Dio e, anche se per eccesso di umiltà aveva cercato sempre di respingerlo, sapeva che doveva essere una guida.
E’ difficile credere che fosse “non litterato” dato che aveva studiato fin da piccolo, che era stato educato nel prestigioso monastero di Faifoli e che aveva risieduto diversi anni a Roma per diventare sacerdote. Difficile dato che studiava continuamente la Bibbia, come rivela il codice che non abbandonava mai. Difficile visto che nei monasteri della sua congregazione, in rispetto della regola benedettina, oltre al lavoro si era molto attenti allo studio. Difficile crederlo dato che, eletto papa, istituì la Perdonanza, rivoluzionando le usanze della Chiesa, e ristabilii la costituzione Ubi Periculum, per l’elezione dei successivi papi, onde evitare le lungaggini ed i problemi che avevano preceduto la sua elezione.
Lo studio, per Pietro, non era sufficiente per avvicinarsi a Dio. Aveva bisogno anche del contatto diretto, della preghiera, dell’ascetismo, del silenzio. Per questo scelse la vita eremitica. Doveva ascoltare Dio, comprendere man mano il compito a cui era chiamato. Doveva anche isolarsi, per ripulirsi dalle scorie del mondo e ricaricarsi di Spirito per tornare ad operare nel mondo.
Oltre a non essere così illetterato, Pietro non era nemmeno all’oscuro dei giochi dei potenti e delle necessità della società.
Ispirato da Dio, fu lui a decidere di fondare una congregazione. Fu lui a chiedere il consenso a papa Urbano IV. Lui per impedire poi che l’ordine fosse cancellato andò, anni dopo, a piedi a Lione e riuscì ad ottenere il favore del papa. Se veramente fosse stato indifferente ai bisogni della società, non avrebbe compiuto queste scelte e fatto tanti sacrifici. A Sulmona, difatti, dove aveva fondato la sua comunità di anacoreti, si era dimostrato un abile organizzatore, distinguendosi anche come costruttore e restauratore di monasteri, nonché bonificatore di terre, costruttore di mulini…
Nel 1278, fu chiamato dall’arcivescovo di Benevento Capoferro, a riorganizzare il monastero di Faifoli vicino Campobasso, lo stesso dove era stato educato. Qui Pietro si occupò di riconciliazione fra i monaci, del restauro del monastero e del recupero dei beni. E realizzò tutto in un solo anno. A Faifoli fu anche vittima dei soprusi del barone di Montagano, Simone Santangelo, e dovette chiedere protezione al Re Angioino, dal quale fu esaudito. Pietro si era guadagnato da Carlo d’Angiò il titolo di “devotus noster”, aveva giurato a lui fedeltà. Dopo Faifoli si recò al monastero di S.Giovanni in Piano, nei pressi di Apricena (Foggia) per eseguire una stessa operazione di restauro.
Per non parlare dell’edificazione della Basilica di Collemaggio con il monastero annesso, degli eremi sulla Majella, Sant’onofrio, San Bartolomeo, dell’abbazia morronese di Santo Spirito. La sua congregazione crebbe ricevendo anche i monasteri romani di San Pietro in Montorio e Sant’Eusebio all’Esquilino. E dopo la morte di Pietro la congregazione sopravvisse per diversi secoli espandendosi sempre più in Italia, Francia e Germania.
Quindi Pietro conosceva il mondo e le sue necessità. Sapeva benissimo confrontarsi con papi e re e riusciva ad ottenere, con l’aiuto di Dio, ciò che serviva alla sua congregazione, alla sua missione evangelica.
Anche se alle volte risultava burbero nei confronti di chi gli chiedeva un miracolo, Pietro era in realtà un uomo dalla profonda sensibilità e conosceva bene l’animo umano. Era un grande guaritore, aspetto che spesso passa in secondo piano, ma che è ampiamente testimoniato dal processo di canonizzazione. Dagli atti, Pietro rivela una conoscenza molto evoluta della malattia, che oggi trova risonanza con la medicina psicosomatica e olistica. Pietro considerava spesso la malattia del corpo quale risultante di una malattia dell’anima, di una prevaricazione degli aspetti oscuri dell’uomo. Il miracolo veniva concesso da Dio solo e soltanto quando l’anima era pronta a cambiare, a riequilibrare lo squilibrio del cuore, a redimersi dal peccato.
Affascinato dalla Spiritualità benedettina, decise da ragazzo di realizzarla con la vita eremitica, anch’essa prescritta nella Regola di Benedetto e per la quale chiese alla congregazione a cui apparteneva la regolare “licentia”. Aveva bisogno di ascoltare la voce del Signore, rimanendo però sempre legato alla Chiesa e ai suoi dettami. Così anche divenne sacerdote a Roma e, ovviamente, per la sua congregazione si sottometteva sempre alla volontà dei suoi superiori, Vescovi e Papi.
Quello che Pietro rifiutava erano gli abusi del potere, quelli nati dalla piccolezza dell’ego.
Pietro accettò l’elezione al soglio pontificio ascoltando il volere del suo unico Signore, accettò consapevole di entrare nella stanza dei bottoni, laddove tutti bramano intrufolarsi e per questo son disposti alle più grandi nefandezze.
Pietro capì di essere spinto da Dio ad un’operazione ben difficile. A realizzare le profezia del “Pastor Angelicus” di Gioacchino Da Fiore. A soddisfare le aspettative di un’umanità che voleva un’era nuova, un’era di pace. Pietro sapeva che era chiamato a far trionfare la Chiesa Spirituale su quella Carnale.
Si fece incoronare all’Aquila, dove entrò a dorso di un asinello, seguito da due sovrani a cavallo. Gesto simbolico, di umiltà, come Gesù a Gerusalemme prima della sua passione. Gesto che già rivelava l’intento spirituale del nuovo papa.
Appena eletto riequilibrò a suo favore il Sacro Collegio, dandogli una forte connotazione monastica benedettina. C’era sì la necessità di favorire il re Angioino che lo aveva portato al soglio papale, ma sicuramente voleva dare una nuova impronta alla Chiesa, più legata ai valori monastici, slegandola dai conflitti e dagli interessi economici delle potenti famiglie romane.
La Perdonanza fu il grande atto che rivelò la sua missione. La Perdonanza porta in sé il cuore del messaggio Cristico, il perdono che permette di cambiare, di diventare Uomini veri.
La Perdonanza fu un atto sconvolgente. Un’indulgenza senza prezzo legata ad una spiritualità fuori dal comune.
I maestri non percorrono mai il cammino al posto dei loro allievi. E la rinuncia al papato potrebbe essere letta come un ulteriore segno, lasciato agli uomini, da un Pietro che si spoglia degli aspetti pesanti della Chiesa e torna ad indossare il suo saio da monaco eremita, sapendo che quel gesto, in un modo o nell’altro, l’avrebbe pagato con la vita.
Assassinato o meno, poco importa. La prigione era già una morte, se non altro sociale, che aveva accettato perché più importante era la sopravvivenza della Chiesa che porta con sé il messaggio del Cristo.
Un gesto che solo una grande intelligenza, un grande cuore e una grande anima potevano compiere.
Mons. Giovanni D’Ercole
L’Aquila, 2010
Elezioni 2020 Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo
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Evento online “Politiche di Coesione tra Sviluppo Regionale e Ambiente”
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Premio Adriatico per il Giornalismo 2020
Il 3 ottobre 2020 ho ricevuto il Premio Adriatico per il Giornalismo. La cerimonia del Premio, giunto alla seconda edizione e indetto dall’associazione “Iridestinazionearte”, si è tenuta nel centro di spiritualità “Nicola D’Onofrio” a Bucchianico (CH) con il patrocinio dell’amministrazione comunale e con la partecipazione dell’ideatore dell’iniziativa, il critico d’arte Massimo Pasqualone.
I primi novant’anni (e alla grande) dell’on. Ricciuti
L’AQUILA – «Se in quel 1980 non mi avessero malauguratamente messo da parte per gli equilibri interni della Democrazia cristiana di allora tra gaspariani e nataliani, avrei potuto fare molto molto di più per il mio Abruzzo». A dispetto dei 90 anni che domani festeggerà con gli adorati figli Paola e Luca e soprattutto i nipoti, l’on. Romeo Ricciuti, che è stato uno dei potenti d’Abruzzo, non ha affatto perduto quella tigna che contrasta col sua faccione così rassicurante. Nemmeno una recente brutta caduta, lo ha fermato: è ancora in “attività”, pur avendo lasciato la politica, e persino sulla sedia a rotelle (che da qualche tempo è riuscito ad abbandonare) ha partecipato alle riunioni del direttivo del Circolo Aquilano, la più antica associazione del capoluogo abruzzese (fondata nel 1865) di cui è, con orgoglio, il presidente.
Novant’anni. Sono un bel traguardo, sopratutto ad arrivarci così in forma, soprattutto nella mente. Esponente della Democrazia Cristiana e militante della corrente fanfaniana e leader storico della Coldiretti, Ricciuti, nativo di Giuliano Teatino (CH), dal 1975 al 1980 fu presidente della Regione Abruzzo. Nel 1985 fu, per un brevissimo periodo, sindaco dell’Aquila, succedendo in tale carica a Tullio De Rubeis. Eletto alla Camera nel 1983, viene riconfermato nel 1987 e nel 1992. «Sono stato-ricorda- sempre il primo degli eletti in provincia dell’Aquila anche con 30mila preferenze». E’ stato sottosegretario all’Industria, commercio e artigianato nel Governo Goria, nel Governo Andreotti VI ricopre la carica di sottosegretario all’Agricoltura e foreste, carica mantenuta anche nel successivo Governo Andreotti VII. Nel 1994 lascia definitivamente la politica e viene nominato da Berlusconi presidente della Selex, azienda di livello internazionale.
«Nel 1980- racconta al Messaggero- avevo portato l’Abruzzo a essere vincente, una delle prime regioni italiane per reddito e occupazione. Ma aspettavo di poter continuare il lavoro. Invece gli equilibri della Dc portarono all’elezione a presidente dell’on. Anna Nenna D’Antonio. Eppure era stato propri Remo Gaspari ad avermi voluto come presidente nel 1975. Resta un mio rammarico. Per il resto ho fatto quello che potevo: impianti industriali nel Fucino, irrigazione di tutta la Valle Peligna, estensione della rete gas a tutta la regione, i Laboratori del Gran Sasso, tanto per citare alcuni dei progetti che ho portato avanti come membro dei vario Governi. Per l’Abruzzo»
Auguri, onorevole Ricciuti!!!
Angelo De Nicola
Pubblicato sul Messaggero Abruzzo il 4 ottobre 2020
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