Gran Sasso, asta a sei zeri per la “prigione” del Duce

La “Villetta” a Fonte Cerreto (L’Aquila)

Il mio articolo sul Messaggero (Edizione Nazionale) del 23 febbraio 2021 sulla vendita all’asta della villetta sul Gran Sasso in cui il Duce fu tenuto prigioniero

L’AQUILA Non c’è pace per il Gran Sasso mussoliniano, nel senso non nostalgico ma storico del termine. Fermo da tempo e, ormai cadente, l’albergo di Campo Imperatore, a duemila metri di quota, nella cui suite il Duce venne tenuto prigioniero («La prigione più alta del mondo» come lui stesso la definì); ferma la stagione sciistica (causa Covid, dopo la jattura dello scorso inverno non “baciato” dalle nevicate); ora viene anche messa all’asta la caratteristica villetta anni Trenta alla base della Funivia del Gran Sasso dove Mussolini fu fatto “acclimatare” per una settimana.

Alla caduta del fascismo, alle 17,30 del 25 luglio 1943, Mussolini fu arrestato da alcuni ufficiali dei carabinieri, su ordine di Badoglio, all’uscita da Villa Savoia, residenza del re Vittorio Emanuele III. Dapprima fu relegato a Ventotene (Latina), poi a Ponza. Il 7 agosto fu trasferito nella villa Weber della Maddalena in Sardegna, per poi, il 28 agosto, giungere a Vigna di Valle da dove, a bordo di un’ambulanza, raggiunse la base della funivia del Gran Sasso (fatta realizzare dal Regime nel 1934) a mezz’ora di auto (oggi molto meno con l’autostrada A24) dall’Aquila. Qui, in località Fonte Cerreto, 1.125 metri di quota, l’illustre prigioniero venne ospitato, per alcuni giorni, nella cosiddetta “Villetta”, una graziosa costruzione da cartolina (se ne trovano molte d’epoca su Ebay) così amata che ha dato il nome all’intera località (“La Villetta”, appunto) alla base della Funivia.

Forse per farlo acclimatare, o forse perché la «prigione più alta del mondo» non era ancora pronta, il Duce rimase in quella villetta fino al 6 settembre quando fu trasferito a Campo Imperatore, 2.130 metri di quota, dove sorge allora come oggi l’unico albergo della stazione sciistica, l’“Amedeo di Savoia” (fatto costruire dal Regime a forma di “D”, mentre rimasero solo sulla carta gli altri due fabbricati a forma di “U” e di “X”). Campo Imperatore era, ed è anche oggi, raggiungibile (ma solo d’estate: d’inverno ci sono metri di neve) anche in auto lungo la Statale 17bis che, se bloccata a valle, rende inaccessibile l’altopiano se non con la funivia (oggi le due cabine da 100 posti coprono il dislivello in sette minuti).

A Campo Imperatore, Mussolini rimase sette giorni, prima che la Wehrmacht, con l’audace “Operazione Quercia” in cui vennero usati degli alianti, lo prelevasse il 12 settembre 1943 per condurlo da Hitler, contrariamente ai desideri espressi dal Duce che avrebbe voluto tornare nella sua Predappio.

Quella villetta, il 20 aprile prossimo, su decisione del Tribunale dell’Aquila, andrà all’asta secondo il prezzo base stabilito di poco inferiore al milione e duecento mila euro. L’immobile con una torre a guglia con tetto spiovente, in quel 1943 era proprietà privata di Rosa Conti, gentildonna romana vedova Mascitelli che la riottenne dallo Stato, con un contenzioso, dopo oltre un anno dalla fine della guerra. Fu preservata dalla distruzione dei tedeschi che cancellarono le tracce del passaggio dell’illustre recluso. L’immobile, in seguito, passò di proprietà e divenne albergo e ristorante con varie gestioni locali fino a quella della famiglia degli imprenditori aquilani Fiordigigli. La proprietà attuale è proprio di questa famiglia che possiede anche il limitrofo albergo omonimo che aveva investito sul rilancio di Fonte Cerreto dotandolo persino di un centro benessere. Anche il “beauty” finirà all’asta per far fronte a problemi di liquidità. Tuttora nei locali è funzionante un bar-ristorante dato in locazione fino all’autunno del 2022.

Angelo De Nicola
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Capitale della Cultura 2022 a Procida: ma nessuno può togliere all’Aquila il primato della resilienza

Il mio commento sul Messaggero Ed. Abruzzo di oggi:

Partiamo da tre “verità”: una sconfitta si chiama sempre sconfitta; Procida evoca una “grande bellezza” ma in fatto di Cultura era, forse, l’ultima delle dieci realtà in gara; L’Aquila, e gli aquilani, hanno ormai perso, passati quasi dodici anni dal 6 aprile, quella suggestione emotiva che una città “martire” evoca.

Detto questo, non tutti i mali vengono per nuocere. Non sarebbe stato facile, e addirittura a rischio, dar corpo organizzativo, in questi giorni neri, al progetto. Avrebbero prevalso i se (se si potrà fare, se si tornerà alla normalità, se non peggiorerà…). Non solo. A metà del 2022 all’Aquila si voterà (se tutto andrà bene…) per il rinnovo dell’amministrazione comunale e, dunque, col rischio di gestire l’anno tra sovrapposizioni, screzi e veti incrociati.

Resta, invece, la “bellezza” di una battaglia che ha visto, almeno fino a stamattina quando, in pieno stile aquilano, ognuno ha tirato fuori la sua ricetta per non intestarsi una sconfitta che invece è di tutti, molte componenti cittadine unite e coese attorno a un obiettivo. Un po’ come avvenne, utilmente, nell’immediato post sisma.

E’ da qui bisogna ripartire. Da un tipo di progetto, forse il solo che si attagli al Dna di questa città, di sfruttare questi quasi 800 anni di storia, cultura, bellezza. E resilienza. Sì, la “Capitale della Resilienza” non ce la può togliere nessuno.

Al Comune tocca il ruolo di “faro” delle varie componenti (Università, Gssi, Fondazione Carispaq, Tsa, Accademia di Belle Arti, Camera di Commercio, Associazioni ecc.). Perciò, invece che sprecare energie a litigare sul nulla (così come avviene al Governo), sarebbe il caso di mettersi al lavoro non tanto per la gloria (il titolo di Capitale), quanto per il futuro (la pagnotta) soprattutto delle giovani generazioni. Magari strutturando subito un assessorato alla Cultura, attorno a una figura di spessore, che possa fare da locomotiva. Non è difficile.
Angelo De Nicola
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I giornalisti rubano mascherine

Il mio commento oggi sul Messaggero (edizione Abruzzo) al comunicato del manager della Asl dell’Aquila, Roberto Testa (pubblicato integralmente di seguito)

Il comunicato anni ‘70 del manager Asl è con la dicitura “Riceviamo dal direttore della Asl- Roberto Testa”. Come se anche l’ufficio stampa (perchè, alla Asl ne hanno fatto uno?) avesse voluto prendere le distanze dal suo capo esattamente come avviene nei giornali quando appaiono interventi e-o lettere, appunto con la dicitura “riceviamo e pubblichiamo”, per sottolineare che non provengono dalla redazione.

Basterebbe questo particolare per qualificare l’iniziativa del dottor Testa. Così come basterebbe citare l’ultimo episodio, avvenuto proprio ieri pomeriggio, quando la onlus “L’Aquila per la vita” ha messo in atto l’ennesima donazione a un reparto del San Salvatore non di chissà quale fantasmagorico macchinario, ma di mascherine Ffp3 e paia di occhiali antiappannanti. Ma come, la Asl ancora non si dota del minimo stretto indispensabile come le mascherine in un reparto come Pneumologia? Forse le hanno rubate i giornalisti.
Angelo De Nicola
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Il comunicato del manager Roberto Testa

Il comunicato dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo

Morto a 97 anni l’ex rettore e partigiano Giovanni Schippa

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Giovanni Schippa

Il mio articolo oggi sul Messaggero (Edizione Abruzzo) sulla morte dell’ex rettore Giovanni Schippa

L’AQUILA Nelle ultime volontà, aveva chiesto che la sua morte fosse resa nota a esequie avvenute. Giovanni Schippa, il professor Schippa, morto l’altra notte a 97 anni, non aveva evidentemente considerato che sarebbe stato impossibile contenere l’onda emotiva della scomparsa di uno dei “padri” dell’Università dell’Aquila, uno dei protagonisti della città e dell’Abruzzo nel secondo Dopoguerra fino agli ultimi giorni.

Cinquantatre anni fa, infatti, nel 1967, Schippa veniva nominato, su chiamata di Vincenzo Rivera, Ordinario di Tecnologia dei materiali e chimica applicata presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università dell’Aquila di cui, di lì a poco, diverrà preside per dieci anni (1971-1981) per poi ricoprire il ruolo, per quattordici anni, di indimenticato Rettore (1981-1995) con all’attivo oltre cento libri e pubblicazioni scientifiche.

Partigiano combattente con il grado di sottotenente, professore emerito dell’Università dell’Aquila, laurea in Chimica, laurea honoris causa in Ingegneria Chimica, ex presidente (il primo) della Fondazione Carispaq, era Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per meriti nel campo della cultura e della scuola, Cavaliere di Gran Croce, ed ha avuto l’Ordine della Minerva dell’Università D’Annunzio.

Classe 1923, nato a Perugia, ha passato l’infanzia a Passignano sul Trasimeno, poi ha vissuto a Roma e L’Aquila dove ha scelto di rimanere. E nella sua casa in via Strinella, è morto l’altra notte, nel sonno. «Il non aquilano Schippa ha avuto per l’Università dell’Aquila un ruolo addirittura più rilevante dell’aquilano Vincenzo Rivera» (il parallelo lo fece Guido Polidoro): è stato un protagonista attivo di tutte le trasformazioni positive dell’Ateneo.

Con lui rettore, l’Università dell’Aquila si è imposta come risorsa culturale, scientifica, sociale che ha rappresentato e rappresenta un elemento di forza in una città piegata dal sisma del 2009. Ha più di un merito nella valorizzazione e nello sviluppo dell’Università aquilana avendo prospettato e realizzato, da rettore, la simbiosi perfetta tra l’immagine dell’Ateneo e quella della città. Senza mai strafare, come è accaduto altrove per altre Università, non ingenerando mai il sospetto di un’ingerenza indebita nel presente e nel futuro della città e del comprensorio.

Ciò nonostante, Schippa ha imposto un’Università sempre presente. Che ha incalzato, stimolato, proposto programmi, progetti e obiettivi, ha lavorato accanto a politici e amministratori, in una parola ha “governato” nel senso più ampio del termine, collocandosi sempre un passo dietro l’autorità istituzionale. Può darsi sia stato solo frutto di calcolo politico, ma Schippa ha avuto comunque l’indubbio merito di dare più spessore alla legittimità delle istituzioni, contemporaneamente accumulando un credito di fiducia, da parte delle istituzioni stesse, di cui hanno beneficiato largamente l’Università nel suo insieme e gli uomini di maggior prestigio dello stesso Ateneo.

Nell’ultimo 25 aprile che si è potuto celebrare, nel 2019, era in prima fila col cappellino. Impettito. Dichiarò: «Il compito principale è quello di tramandare alle giovani generazioni, trasmettere quello che è stata la Resistenza, quello che ha rappresentato e che ha avuto un contributo di sangue non indifferente. Oggi spesso la libertà è minacciata e c’è un clima che non mi piace».

Angelo De Nicola
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L’ordinanza “fake” più chiara di quella vera

Il mio articolo oggi sul Messaggero (Edizione Abruzzo) sull’ordinanza che istituisce la zona rossa in Abruzzo:

Se non fosse più che tragica la situazione, ci scapperebbe una risata. Ieri sono andate in scena “le comiche”. A parte un balletto di dichiarazioni, “si- no- forse- vediamo”, delle cui conseguenze evidentemente la classe politica non riesce proprio a rendersi conto.

Certo, non è il “Dow Jones” della Borsa di New York, ma spesso da una decisione scaturiscono conseguenze decisive per i cittadini: porto i figli a scuola sì o no; apro il negozio sì o no; posso spostarmi da un Comune all’altro sì o no.

Ma la cosa che ha davvero fatto toccare il fondo di una comunicazione folle è stata il testo dell’ordinanza, con tanto di carta intestata, che è cominciata a circolare “virale” su whatsapp e in Rete. Ordinanza che, tra l’altro faceva scattare il provvedimento di zona rossa a partire da oggi. E’ stato il delirio!

Finchè è arrivata una nota ufficiale della Regione per dire che si trattava di una “fake”, un falso. Il caos! Quindi, ormai a tarda sera, è arrivata l’ordinanza ufficiale. Che, tra l’altro, era meno chiara, in quanto a contenuti, di quella falsa…

E’ così difficile organizzare una comunicazione decente? E così difficile evitare i balletti politici già stucchevoli in tempi di pace?

Angelo De Nicola
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Adriano e Carlo: due simboli armati di un sorriso guascone

Il mio articolo oggi sul Messaggero (Edizione Abruzzo) sulla morte, legata al Covid, di Carlo Di Giambattista:

Lunedì Adriano, ieri Carlo. E’ un “uno-due” da far rischiare il knock-out quello che il maledetto Covid, in due giorni, assesta agli aquilani. Oltre che per l’età, 56 anni, e per un carattere da guasconi, Adriano Perrotti e Carlo Di Giambattista erano accomunati dal fatto di essere due simboli.

L’uno della resilienza alle sfortune della vita trasformate in una carica vitale unica, l’altro del sapersi godere la vita, magari spesso ai limiti, tanto da rappresentare la “faccia della salute”. Entrambi, a guadarli, invincibili. Come invincibile “Pesciò” lo era sul campo quando, talento naturale fin da giovanissimo nel ruolo di numero 8, si prendeva il lusso di suonarle anche ai più blasonati giocatori. Un incubo per gli avversari. Un punto di riferimento sicuro per i compagni di squadra: Carlo c’era sempre, con un sorriso sornione, anche quando le cose andavano male. Come Adriano c’era sempre per combattere qualche battaglia per i diritti dei disabili, col suo sorriso grosso così anche di fronte alle sconfitte.

E ora? Che fare di fronte a questo nostro nuovo 6 aprile? A quale punto di riferimento aggrapparsi se il Covid ci porta via i nostri anziani e, ora, anche i nostri simboli? Oltre che sul fronte sanitario (la cui gestione all’Aquila sta segnalando un disastro dietro l’altro) occorre lavorare sul fronte psicologico avviando l’ennesima “ricostruzione” aquilana, la più difficile. Servono strategie, progetti e leader. C’è qualcuno che si candida?

Angelo De Nicola
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Il simbolo/ E ora diamo un senso alla morte di Adriano

Il mio articolo oggi sul Messaggero (Edizione Abruzzo) sulla morte, legata al Covid, di Adriano Perrotti:

La scomparsa di Adriano Perrotti, non nascondiamocelo, piega le gambe a noi aquilani. Sì perchè Adriano era il campione della città della resilienza, ne era il simbolo. Una città che non s’è mai arresa. Rialzando la testa. Più e più volte. Che ha combattuto mille battaglie, magari perdendole, ma senza mai mollare. Come Adriano. Mille battaglie sulla tolda della sua sedia a rotelle. E tante sconfitte (l’ultima, cocente, il mancato scivolo per disabili per entrare a Collemaggio: si vergogni chi non ha provveduto!). Eppure Adriano era sempre lì. Pronto sui nastri di partenza, come in quella maledetta gara di motocross tante vite fa.

Come il 6 aprile, il Covid è arrivato a fiaccare le nostre resistenze. E allora, come dopo il 6 aprile, l’unica cosa da fare è essere uniti e, soprattutto, fare subito chiarezza. Chiarezza su chi ha sbagliato e sta sbagliando. Chiarezza su chi ha determinato un ospedale allo sbando. Su chi ha permesso che il sistema di tracciamenti andasse in tilt. Su chi non ha reso possibile, per via della mancanza di reagenti, di processare al San Salvatore i tamponi inviandoli allo Zooprofilattico di Teramo. Su chi ha fatto un’assurda guerra intestina al laboratorio privato Dante Labs.

Chi non è capace, sia cacciato o abbia la dignità di farsi da parte. Solo così daremo un senso alla morte di Adriano. Il nostro simbolo.
Angelo De Nicola
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Gigi Proietti e quel rapporto speciale con L’Aquila

Il mio articolo sul Messaggero (edizione Abruzzo) di oggi:

L’AQUILA Era un “romano de Roma”, ma con L’Aquila Gigi Proietti aveva un rapporto speciale. Forse perché aveva cominciato qui, a pane cipolla, la sua lunga carriera di attore. Ma forse perché quella degli anni Settanta era una L’Aquila diversa. Una città creativa, intraprendente, visionaria. Come lo era Proietti, in fondo.

Basti considerare la “geografia” delle trattorie dove si consumava il momento cardine: la cena della Compagnia, dopo prove o lo spettacolo, spesso a tardissima ora, ma nessuna cucina chiudeva se c’era Gigi. Da “Scannapapere” nacquero tanti sketch di “A me gli occhi, please”. Tra questi lo stornello “E me metto a cantà”, mutuato dalla canzone popolare in vernacolo abruzzese “All’orte” (“All’orto”) che Gigi tanto amava. “Da Lincosta”, altre storica trattoria a due passi dalla sede del Tsa, serate epiche («Chi non sorride mi insospettisce…») con Proietti sempre cortese con tutti sia quando non era nessuno negli anni Settanta sia quando, anche da presidente del Tsa, tornava spesso a mangiare da Agostino e Giuliana. Cena mitica, anche con nevicata all’uscita, allo “Scalco delle Tre Marie” insieme a, tra gli altri, Vittorio Gassman, Ugo Pagliai e Paolo Villaggio con quest’ultimo messo a giro di una memorabile “passatella”.
Oppure da “Ernesto”: qui, racconta Roberto Castri (per tutti “Pecorino”, sua spalla in “A me gli occhi, please”) prese forma il famoso film “Febbre da cavallo”. «Gigi mi invitò a cena da Ernesto perchè si sarebbe incontrato col regista Steno- racconta Castri-. Mi disse: “A Pecorì, nun se poi mai sapè, te lo presento”. Per timidezza non ci andai…».
Ma non solo trattorie. Fu l’artigiano aquilano Figlioli, che aveva una bottega in centro, a realizzare a mano degli stivaloni neri da nazista a Gigi, che bello grosso non ne trovava in commercio, per il “Dio Kurt”. Oppure, i sipari per gli spettacoli erano realizzati con le stoffe del negozio Lillo.

Gigi l’aquilano. Così emerge dai racconti che straripano sui Social. Come quello del noto medico Paolo De Angelis: «Una sera di Natale di tanti anni fa, organizzammo una cena tra amici. Tra questi anche il mio caro amico Federico Fiorenza, direttore del Tsa. Immaginatevi un po’ la sorpresa quando si presentò con Gigi Proietti. La cena andò avanti con discorsi sul più e sul meno… nessuno aveva il coraggio di portare l’argomento sul lavoro di Gigi, eppure tutti eravamo curiosi di sapere tante cose sul mondo dello spettacolo e magari farci raccontare qualche barzelletta. Tutti però pensavamo di dargli fastidio. Quasi alla fine della cena, dopo due ore di convenevoli, improvvisamente disse: “Mi sembra di aver visto di là una chitarra…”. Un istante dopo iniziò lo spettacolo. Credo che non tralasciò nulla del suo infinito carnet, condito con intermezzi inventati ad hoc riguardanti ognuno di noi. La sua immagine era camaleontica e si adattava immediatamente al suo interlocutore, ma il bello era che si divertiva un mondo alle sue battute e ci rideva sopra dapprima con moderazione, poi sganasciandosi e trascinandoci nell’allegria».

Questa era L’Aquila degli anni Settanta. Che non c’è più. E ora non c’è più nemmeno Proietti a testimoniarla. Perciò l’obiettivo è fermare il ricordo. C’è chi (l’assessore comunale Piero Di Stefano del Pd) propone la cittadinanza onoraria e chi (sempre dal Pd: Stefania Pezzopane, Pierpaolo Pietrucci e Stefano Palumbo) di intitolargli la Sala Rossa del Teatro comunale «a testimonianza della gratitudine cittadina e del ricordo che per sempre dovremo conservarne».

«Ricordare Proietti- ha scritto nel suo ricordo il sindaco, Pierluigi Biondi-, oggi che ci ha lasciati, come un giovane entusiasta e curioso artista che si confrontava con una realtà di provincia colta e creativa, come era L’Aquila di quegli anni, ricca di fermenti culturali e di uomini visionari, credo che sia il sentimento più vero e sincero con il quale la nostra città può tributargli l’affetto e la stima che è presente in ognuno di noi».

Angelo De Nicola
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I primi novant’anni (e alla grande) dell’on. Ricciuti

L’on. Romeo Ricciuiti

L’AQUILA – «Se in quel 1980 non mi avessero malauguratamente messo da parte per gli equilibri interni della Democrazia cristiana di allora tra gaspariani e nataliani, avrei potuto fare molto molto di più per il mio Abruzzo». A dispetto dei 90 anni che domani festeggerà con gli adorati figli Paola e Luca e soprattutto i nipoti, l’on. Romeo Ricciuti, che è stato uno dei potenti d’Abruzzo, non ha affatto perduto quella tigna che contrasta col sua faccione così rassicurante. Nemmeno una recente brutta caduta, lo ha fermato: è ancora in “attività”, pur avendo lasciato la politica, e persino sulla sedia a rotelle (che da qualche tempo è riuscito ad abbandonare) ha partecipato alle riunioni del direttivo del Circolo Aquilano, la più antica associazione del capoluogo abruzzese (fondata nel 1865) di cui è, con orgoglio, il presidente.

Novant’anni. Sono un bel traguardo, sopratutto ad arrivarci così in forma, soprattutto nella mente. Esponente della Democrazia Cristiana e militante della corrente fanfaniana e leader storico della Coldiretti, Ricciuti, nativo di Giuliano Teatino (CH), dal 1975 al 1980 fu presidente della Regione Abruzzo. Nel 1985 fu, per un brevissimo periodo, sindaco dell’Aquila, succedendo in tale carica a Tullio De Rubeis. Eletto alla Camera nel 1983, viene riconfermato nel 1987 e nel 1992. «Sono stato-ricorda- sempre il primo degli eletti in provincia dell’Aquila anche con 30mila preferenze». E’ stato sottosegretario all’Industria, commercio e artigianato nel Governo Goria, nel Governo Andreotti VI ricopre la carica di sottosegretario all’Agricoltura e foreste, carica mantenuta anche nel successivo Governo Andreotti VII. Nel 1994 lascia definitivamente la politica e viene nominato da Berlusconi presidente della Selex, azienda di livello internazionale.

«Nel 1980- racconta al Messaggero- avevo portato l’Abruzzo a essere vincente, una delle prime regioni italiane per reddito e occupazione. Ma aspettavo di poter continuare il lavoro. Invece gli equilibri della Dc portarono all’elezione a presidente dell’on. Anna Nenna D’Antonio. Eppure era stato propri Remo Gaspari ad avermi voluto come presidente nel 1975. Resta un mio rammarico. Per il resto ho fatto quello che potevo: impianti industriali nel Fucino, irrigazione di tutta la Valle Peligna, estensione della rete gas a tutta la regione, i Laboratori del Gran Sasso, tanto per citare alcuni dei progetti che ho portato avanti come membro dei vario Governi. Per l’Abruzzo»
Auguri, onorevole Ricciuti!!!

Angelo De Nicola

Pubblicato sul Messaggero Abruzzo il 4 ottobre 2020
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In prima pagina

Non capita tutti i giorni di essere in prima pagina e nello stesso giorno sul Messaggero e sul Mattino…

LA STORIA
L’AQUILA Ai ladri del valore simbolico, planetario, di quel murale non interessava un fico secco: l’importante era far soldi con l’opera d’arte di un sempre più quotato “street artist” quale Banksy. Sembrerebbe esserci “solo” una banda italo-francese di manigoldi dietro la famosa porta del teatro Bataclan di Parigi, su cui l’artista Banksy aveva realizzato un murale per ricordare le 90 vittime del terribile attentato terroristico del 13 novembre 2015, ricomparsa l’altra notte in una cascina in Abruzzo, nelle campagne di Sant’Omero nel Teramano. A ritrovarla sono stati i carabinieri della Compagnia di Alba Adriatica (Teramo), nell’ambito delle indagini dirette dal procuratore distrettuale antimafia e antiterrorismo dell’Aquila, Michele Renzo. Secondo quanto trapelato, all’attività investigativa hanno preso parte non solo i carabinieri della Tutela patrimonio culturale di Ancona ma anche la stessa polizia francese che avrebbe partecipato anche alla stessa perquisizione nella cascina. Dove l’oggetto sarebbe finito, in momentaneo “deposito”, dopo gli spostamenti in vari nascondigli tra la Francia e l’Italia.
LE INDAGINI
Nell’ambito dell’inchiesta, i cui dettagli verranno resi noti stamane alle 11 in una conferenza stampa all’Aquila dello stesso Procuratore Renzo, c’è un indagato. Si tratta di G.P., imprenditore nato in Francia ma di Tortoreto (Teramo), non si sa se nella sola veste di proprietario della cascina, in cui risiede una donna cinese, oppure di ricettatore. L’uomo, al momento del blitz, quando i carabinieri a colpo sicuro hanno cercato l’opera d’arte trovandola in un sottotetto adibito a soffitta, avrebbe mostrato di cadere dalle nuvole dichiarando di non sapere nulla né del furto né della valenza della porta. L’attività di polizia giudiziaria, che non è affatto conclusa, non sembrerebbe orientata nel mondo del terrorismo o del finanziamento allo stesso, nonostante la provincia di Teramo (in particolare nelle note località della costa, Martinsicuro e Alba Adriatica) sia stata interessata, nel settembre dello scorso anno, da una importante inchiesta del Ros dei carabinieri e Scico delle Fiamme gialle (sempre targata Direzione distrettuale antimafia e antiterrorismo dell’Aquila, pubblici ministeri lo stesso Renzo e il sostituto David Mancini) su un presunto giro di denaro volto a finanziare, dietro la vendita di tappeti e lavori edili, l’organizzazione radicale islamica “Al-Nusra” con base in Siria. Nell’inchiesta fu coinvolto anche l’imam di una moschea a Martinsicuro.
GRANDE VALORE
L’opera recuperata, con tecnica “stencil” bianca, è l’immagine di una ragazza in atteggiamento di lutto per le vittime, dipinta su una delle porte d’emergenza del famoso locale della capitale francese dove novanta persone furono uccise nell’attacco terroristico sferrato da un gruppo armato ricollegabile all’Isis durante un concerto degli “Eagles of Death Metal”, mentre gli stessi suonavano la canzone “Kiss the Devil”. La porta col murale era stata divelta e portata via il 26 gennaio 2019. Il furto aveva choccato la Francia. La Direzione del Bataclan aveva parlato di «profonda indignazione» per il furto di un’opera che «apparteneva a tutti: residenti locali, parigini, cittadini del mondo…». Il teatro aveva poi commentato, via Twitter, che «l’essenza stessa dell’arte urbana è quella di dare vita a un’opera d’arte in un ambiente particolare e noi siamo convinti che questa opera aveva senso solo in questo particolare luogo. Questa è la ragione per la quale noi l’avevamo lasciata lì, libera, sulla strada, accessibile a tutti».
I murales di Banksy, l’artista la cui vera identità rimane ancora sconosciuta, sono ormai diventati molto ricercati dai collezionisti d’arte. Una sua opera realizzata in Galles, raffigurante una bambina in una nuvola di inquinamento simile alla neve, è stata di recente venduta all’asta per centomila sterline (115 mila euro).
Angelo De Nicola
(ha collaborato Marcello Ianni)
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