A Case Castella il tempo sembra essersi fermato a trent’anni fa. A quella sera del 23 agosto 1990, quando Cristina Capocciti, 7 anni, sparì come inghiottita dal buio: all’alba, le unità cinofile ritroveranno il suo corpicino martoriato, con le mutandine scese, gettato tra i rovi di un cespuglio di more. In questa sperduta contrada della Valle Roveto ai confini con il Lazio che è Case Castella, un pugno di case lungo la strada provinciale per Ridotti (frazione del Comune di Balsorano), tutto pare fermo a quella afosa fine estate quando, in quell’“agosto dei delitti” del 1990 cominciato con l’omicidio (tutt’ora senza un colpevole) di via Poma a Roma, Balsorano fu catapultata in prima pagina come la terra del “mostro”. Il “mostro di Balsorano”.
Cristina, una vispa bimba di 7 anni, non si ritrova. Era scomparsa dalla sera precedente, “scappando” di casa intorno alle 20,30 con uno yoghurt come cena per andare a giocare nella piazzetta del paese con gli amichetti. Venne cercata tutta la notte dai genitori, dai parenti e da tutti i paesani. Era a due passi, a meno di cento metri da casa sua, come si scoprirà all’alba. «Massacrata a colpi di pietra dopo essere stata violentata», si disse e si scrisse sul momento anche se l’autopsia smentirà almeno la violenza carnale che però è rimasta nell’immaginario collettivo. «Strozzata dopo alcuni atti di libidine», hanno poi accertato i tre gradi di giudizio nei quali è stata decretata la condanna definitiva all’ergastolo di Michele Perruzza, muratore all’epoca quarantenne, zio della vittima.
“Il mostro di Balsorano” venne arrestato all’alba del terzo giorno di indagini serrate, al termine della “notte dei misteri”, il 26 agosto. Da allora Michele Perruzza si è sempre proclamato innocente. E gridando la propria innocenza («Dite a tutti che non sono stato io») è morto, nel gennaio del 2003, mentre l’ambulanza lo portava inutilmente dal carcere di Rebibbia a Roma, dove era stato colto da infarto, all’ospedale “Pertini”. Una morte che sembra la conclusione di una tragedia greca che nessun drammaturgo avrebbe saputo inventare.
Perruzza aveva sperato nella revisione del processo dopo che il “processo satellite” di Sulmona aveva gettato, nuovamente e pesantemente, la croce addosso a suo figlio Mauro, all’epoca del fattaccio 13enne. Il quale, a principio, s’era clamorosamente autoaccusato dell’omicidio della cuginetta, per poi ritrattare e puntare il dito contro il padre ed assurgere a supertestimone.
Sono passati trent’anni. Oggi i cartelli stradali sono gli stessi ma consumati dal sole e dalle intemperie. La casa dei Capoccitti è chiusa. La casa dei Perruzza, a due passi, sbarrata e visibilmente disabitata da tempo. Così come sono fermi a quei drammatici giorni del delitto i lavori in quella che doveva essere la nuova abitazione dei Perruzza, una famiglia oggi dilaniata.
Nella radura dove è stato ritrovato il corpicino della povera Cristina, l’edicola a suo ricordo è piena di fiori mentre intorno è tutta un’esplosione di more e di fichi ancora non maturi.
Se non fosse che anche qui, in questo borgo, è arrivata al “fibra”, testimoniata dalla nuova scatola col “cappello” rosso, anche dove sono posizionate le cabine, lungo la strada provinciale che si inerpica fino a Ridotti, della telefonia e dell’Enel, è come trent’anni fa. Da qui, Mauro dirà di aver visto il padre che «la steva a finì» in una delle sue innumerevoli versioni (se ne conteranno 17 tra ufficiali e non). È in abbandono pure la porcilaia (altro luogo cardine di questa storia maledetta), dove il nonno materno di Cristina allevava i maiali e dal cui tetto Mauro disse ai giudici della Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila di aver visto il padre “sopra” la sua cuginetta. Il ragazzo (dopo un sopralluogo dei giudici) fu creduto e Michele condannato all’ergastolo. Ma nel processo-satellite, davanti al Tribunale di Sulmona, una perizia ha dimostrato che all’ora del delitto, Mauro non poteva aver visto nulla perchè era buio. Mauro oggi ha 43 anni.
Case Castella sembra “morta”. Come la piccola Cristina, la cui tomba al cimitero è un’esplosione debordante di peluche, giochini e rosari. Poco vicino c’è la tomba di Michele Perruzza con un piccolo mazzo di fiori di plastica: dopo anni, qualcuno è sepolto nei loculi accanto al suo, rimasti per anni vuoti. Una tragedia piena di croci, il “delitto di Balsorano”. E di ferite. Ancora sanguinanti, dopo trent’anni. Se sono ormai illeggibili le scritte in vernice nera e a caratteri cubitali sui muri di contenimento al bivio per Ridotti dalla Superstrada del Liri che per anni hanno ricordato al passante che questa è la terra del delitto di Balsorano (“Andate via assassini…”, “Maria.., vaff…”), le scritte al lavatoio pubblico del paese (altro luogo cardine della vicenda) contro “Michele e Maria assassini”, invece si leggono ancora. Sbiadite dal tempo e non da una pietosa mano di vernice. Non a caso, quasi tutte le scritte contro Maria Giuseppa Capoccitti, la moglie di Perruzza, la madre di Mauro, la zia di Cristina. I paesani, gli stessi che festeggiarono con i fuochi d’artificio la condanna di Perruzza, hanno dato l’ergastolo anche a lei. La donna che, dovendo scegliere, tra il ruolo di madre e quello di moglie, scelse il primo. L’unica protagonista che, forse, sa la verità.
Angelo De Nicola
Pubblicato sul Messaggero Abruzzo il 21 agosto 2020
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