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DUE ANNI FA - SETTECENTOTRENTA GIORNI DA "SISMOLESO"



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L’AQUILA - Settecentotrenta notti. Ogni notte, prima di addormentarmi, il mio ultimo pensiero va a quella notte. Ed è un accavallarsi di ricordi, di rumori (quel rombo che si “ricaricava”), di odori (quello del gas che di attanagliava la gola), di colori (quello del sangue), di sensazioni (terrore, gioia, strazio, speranza). Tutte le notti. Sono un malato di terremoto.

Lavoro, soffro, gioisco, parto, ritorno, spero, pago, impreco, faccio il tifo per l’Inter, vado allo stadio per vedere L’Aquila Calcio, mi arrabbio per le sconfitte dell’Italia di rugby al 6 Nazioni (ma che gioia per la batosta data ai francesi!), vado a sciare e ogni tanto a prendere una pizza con gli amici, mi indigno spesso davanti alla Tv... una vita normale, come tanti, come prima. Sono tornato alla normalità (o quasi) di una bella casa nella frazione di Pagliare di Sassa. Eppure non va. Sono malato dentro. Sono, come tantissimi aquilani, un “sismoleso”.

Certe volte mi chiedo: «Come ho fatto ad andare avanti?». Poi mi consolo: «C’è chi è stato e sta peggio. Non lamentarti. Coraggio, passerà...». E mi analizzo. «Perchè non guarisco?». L’altro giorno ho trovato una prima risposta: «Perchè non ho la speranza di rivedere la mia città in piedi». Possibile? Sì. Questo è il problema: la mancanza della speranza.

Sono arrivato a questa conclusione durante l’ennesimo trasloco, ai primi del marzo scorso, nella “Zona Rossa”. I miei genitori, ultrasettantenni, a lungo “sfollati” nella loro casetta al mare a Silvi Marina, hanno trovato un alloggio in affitto nel quartiere aquilano di San Francesco, tra i meno colpiti. Una bella casa. Fin troppo grande. «Meglio- ha detto mio padre- così possiamo finalmente riprenderci i nostri mobili». I mobili, infatti, li avevano lasciati nella casa nel quartiere di San Pietro, la “piccola Dresda”: abitazione classificata “E”, con danni gravi ma senza crolli. Sicchè, a quasi due anni, abbiamo organizzato il trasloco. Come da procedura: richiesta al Comando dei vigili del fuoco (che siano sempre benedetti!) i quali rilasciano un permesso alla ditta di traslochi soprattutto per poterlo mostrare, come lasciapassare, ai militari che sorvegliano gli ingressi all’ancora innaccessibile “Zona Rossa”.

Caschetti da cantiere in testa (io e mia madre di colore blu, mio padre giallo, mio fratello rosso), abbiamo aiutato l’infaticabile squadra di giovani traslocatori a tirar fuori da polvere e calcinacci di tramezzi sventrati, i sacrifici di una vita. Compresa l’intera camera da letto (letto matrimoniale, comodini e “settimino”) che ha due anni in più della mia età: 48 anni. In silenzio, abbiamo lavorato sodo spostando, smontando, impacchettando piatti, bicchieri e cianfrusaglie, scartando dolorosamente quello che ormai non serve più. Una pena infinita. Io c’ero già passato, a caldo, qualche settimana dopo il 6 aprile quando si pensava che il palazzo dove abitavo potesse crollare. Ma i miei genitori no. Sono certo che, lontani dalla vista dei due figli, hanno pianto.

Mentre fervevano le operazioni del trasloco, sono riuscito a sfuggire alla vista della squadra dei vigili del fuoco, giustamente inflessibili per evitare inutili rischi, ed ho girato l’angolo dell’isolato tra via Arischia e via Coppito, per cercare di arrivare in piazza San Pietro, ricalpestando, in un assordante silenzio, i luoghi della mia infanzia e adolescenza spensierate. All’angolo di via San Pietro, una fitta al cuore. Sotto il crollo di una casa antica, disabitata quella notte del 6 aprile, c’era ancora l’auto, una berlina Ford scura, del mio amico Sandro la cui abitazione, lì accanto, è ora tutta puntellata. Quella stessa auto che vidi la mattina del 6 aprile di due anni fa, quando, con un paio di ciabatte numero 48 (porto il 41), in pigiama, con una canottiera insanguinata sulla testa a mo’ di turbante a tamponare la ferita aperta sul capo dopo esser rimasto ferito sotto un piccolo crollo, ero arrivato come “Conan il barbaro” a sincerarmi che i miei genitori fossero vivi.

Due anni sono passati ma quella carcassa di auto è ancora lì: l’ho fotografata col telefonino. Più di ogni altra parola, a testimonianza che nulla si muove nel centro storico dell’Aquila. Sì, è vero: l’operazione è titanica. Per la prima volta, probabilmente al mondo, un centro storico così grande (il sesto in Italia per numero di monumenti) viene distrutto da un sisma. Sì, è vero: la ricostruzione dell’Aquila è difficilissima. Ma in due anni non è ancora cominciata, purtroppo. La Ford del mio amico Sandro. È ancora lì. Monumento al sisma. Monumento alla Ricostruzione Zero.

Ogni aquilano, tutti i giorni, ha un solo pensiero: ricostruire. Se ci si incontra tra aquilani, dentro o fuori dall’Aquila, si parla soltanto di questo: il dopo terremoto. I ricordi hanno lasciato spazio al desiderio di speranza. Alla voglia di fare. Di rimboccarsi le maniche. Ma le speranze, ogni giorno che passa, prendono sempre più i contorni di un tunnel di cui, in fondo in fondo in fondo, non si vede la luce.

Sono passati due anni, ma della mia casa bombardata in via Cola dell’Amatrice (una traversa della martoriata via XX Settembre) non so nulla. Deve essere abbattuta? Non lo so. Avrò un contributo e di che quantità per ricostruirla? Non lo so. I decisivi sottoservizi (gas, luce acqua: le tubature sono tutte rotte) verranno subito ripristinati nella Zona Rossa? Non lo so. Quando potrò rientrare a casa mia senza dover prima chiedere permesso ai vigili del fuoco ed ai militari? Non lo so. Non so nulla.

E dopo 730 giorni cerco di spiegarlo a chi, parenti o amici, da fuori città mi chiede notizie. «Ma come, non sapete ancora nulla? Ma ho letto che la città è ripartita...» mi chiedono, increduli. No, non sappiamo nulla. Tutto come due anni fa. Difficile crederci, se non vivi questo incubo, tutti i giorni e tutte le notti. Difficile crederci se a “Forum” una finta aquilana va a recitare, a pagamento, che all’Aquila è tutto a posto.

Perciò questo secondo anniversario del 6 aprile, una sorta di Capodanno al rovescio, vorrei che passasse in fretta. Vorrei che fosse già il 7 aprile, come quando il 7 aprile del 2009, un paio di pantaloni ed un giubbetto smanicato usati, presi alla Caritas di Francavilla al Mare, segnarono per me l’inizio di un nuovo giorno e di una nuova vita.
Voglio guardare avanti. Non voglio tristi anniversari.

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Angelo De Nicola