DELITTO DI BALSORANO: VENTI ANNI DOPO
RITORNO A CASE CASTELLA DOVE IL TEMPO S'E' FERMATO
BALSORANO - Cristina avrebbe 27 anni. Gli stessi anni della giovane, dal volto di bambina, che, sorpresa dalle telecamere che frugano nel passato fin dentro il cimitero di Ridotti, rimette a fuoco i ricordi della compagnuccia di giochi «Capoccitti Cristina, gioviale, altruista, amica di tutti».
I bambini sono cresciuti, a Case Castella dove, invece il tempo s’è fermato a vent’anni fa. Le lancette non hanno fatto scattai in avanti rispetto a quelle interminabili ore tra la sera del 23 agosto 1990, quando Cristina sparì inghiottita dal buio, e l’alba di quel 24 agosto, quando le unità cinofile ritroveranno il suo corpicino martoriato, con le mutandine scese, gettato tra i rovi di un cespuglio di more.
In questa sperduta contrada della Valle Roveto ai confini con il Lazio che è Case Castella, un pugno di case lungo la strada provinciale per Ridotti (frazione del Comune di Balsorano), si respira la stessa atmosfera di venti anni fa. Un dolore sordido. Un fastidio, nervoso, palpabile fisicamente, contro «i soliti sciacalli di giornalisti. Andate via! Che altro volete! Basta...».
Sono passati vent’anni. Ma tutto è fermo al delitto di Balsorano, quando in quell’“agosto dei delitti” del 1990 cominciata con l’omicidio (tutt’ora senza un colpevole) di via Poma a Roma, Balsorano fu catapultato in prima pagina come la terra del mostro. Il “mostro di Balsorano”. Cristina, una vispa bimba di 7 anni, non si ritrova. Era scomparsa dalla sera precedente, il 23 agosto, “scappando” di casa intorno alle 20,30 con uno yoghurt come cena per andare a giocare nella piazzetta del paese con gli amichetti. Venne cercata tutta la notte dai genitori, dai parenti e da tutti i paesani. Era a due passi, a meno di cento metri da casa sua, come si scoprirà all’alba. «Massacrata a colpi di pietra dopo essere stata violentata», si disse e si scrisse sul momento anche se l’autopsia smentirà almeno la violenza carnale che pure è rimasta nell’immaginario collettivo. «Strozzata dopo alcuni atti di libidine», hanno poi accertato i tre gradi di giudizio nei quali è stata decretata la condanna definitiva all’ergastolo di Michele Perruzza, muratore all’epoca quarantenne, zio della vittima. «Il mostro di Balsorano»: così venne chiamato subito dopo l’arresto, avvenuto all’alba del terzo giorno dopo il delitto, il 26 agosto. Da allora Michele Perruzza si è sempre proclamato innocente. Ed è morto, nel gennaio 2003, gridando la propria innocenza («Dite a tutti che non sono stato io») mentre l’ambulanza lo portava inutilmente dal carcere di Rebibbia, dove era stato colto da infarto, all’ospedale. Una morte che sembra la conclusione di una tragedia greca che nessun drammaturgo avrebbe saputo inventare.
Perruzza aveva sperato nella revisione del processo dopo che il “processo satellite” di Sulmona aveva gettato, nuovamente e pesantemente, la croce addosso a suo figlio Mauro, all’epoca 13enne. Il quale, a principio, s’era autoaccusato dell’omicidio della cuginetta, per poi ritrattare e puntare il dito contro il padre ed assurgere a super-testimone. Dirà l’avvocato Attilio Cecchini che combattè (gratis) per difendere dall’ergastolo un semplice muratore: «La mia è stata una battaglia di civiltà. Il sistema doveva avere il coraggio di ammettere l’errore giudiziario che, d’altra parte, è connaturato al processo penale che è un procedimento lungo, fatto dagli uomini che, appunto, sbagliano. Michele Perruzza, un innocente condannato all’ergastolo, non chiedeva vendette. Chiedeva che la giustizia, dal suo interno, ammettendo l’errore, facesse giustizia».
Sono passati vent’anni. Case Castella è rimasta come una sorte di “via Crucis” salendo la strada fatta di tornanti che va a morire alla piazzetta principale di Ridotti, proprio sotto la montagna confinante col territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo.
La prima “stazione” è stata attaccata dal tempo. Sono ormai sbiadite le scritte in vernice nera e a caratteri cubitali sui muri al bivio per Ridotti dalla Superstrada del Liri ricordano al passante che questa è la terra del delitto di Balsorano. “Cristina rimane nel nostro cuore...”, “Andate via assassini...”, “Maria.., vaff...”. Nessuno, invece, ha voluto cancellare le scritte al lavatoio comunale, uno dei luoghi cardine nella ricostruzione del delitto visto che Mauro raccontò di esservi andato a lavarsi dopo aver assistito al delitto. C’è scritto: “Michele, Maria assassini”... “Maria, non sporcare l’acqua con le tue mani piene di sangue”. Non a caso quasi tutte le scritte sono contro Maria Giuseppa Capoccitti, la moglie di Perruzza, la madre di Mauro, la zia di Cristina. I paesani, gli stessi che hanno festeggiato con i fuochi d’artificio la condanna di Perruzza, hanno dato l’ergastolo anche a lei.
Un’altra stazione è il borgo, un pugno di case racchiuse in un tornante e diviso da una scalinata (dove fu vista per l’ultima volta la piccola) che collega la Provinciale da sotto a sopra concludendo con la casa dei Capoccitti, chiusa da tempo a vederla da fuori. Mai più riaperta, da vent’anni, è invece la casa dei Perruzza, al civico 23, così come sono fermi i lavori in quella che doveva essere la nuova abitazione di una famiglia oggi dilaniata: Perruzza è morto, la moglie (che aveva chiesto da tempo il divorzio) s’è rifatta una vita al Nord dove portò anche i suoi due figli mentre Mauro è stato adottato da una famiglia di Gubbio ed ha pure cambiato cognome. È in abbandono anche il capanno, un altro luogo cardine di questa storia maledetta, dove il nonno di Cristina allevava i maiali e dal cui tetto Mauro disse ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di aver visto il padre sopra la sua cuginetta «che la steva a finì». Il ragazzo (dopo un sopralluogo dei giudici) fu creduto e Michele condannato all’ergastolo. Ma nel processo-satellite, davanti al Tribunale di Sulmona, una perizia ha dimostrato che a quell’ora Mauro non poteva aver visto nulla perchè era buio.
Ma la “stazione” più triste, viene dopo il borgo, racchiuso da un ornate. A Case Castella agosto è tempo di more. Ne sono stracolmi i cespugli che accerchiano una piccola radura dove, fin dal primo anniversario, è stata eretta una “edicola” nella cui bacheca c’è la foto di una bimba che sorride senza un dentino. Ci sono anche alcuni oggettini: ricordo di Loreto, delle cascate del Niagara. Una bambolina. E tanti mazzi di fiori, compresa una siepe che sta crescendo bassa con la forma del nome di Cristina. Nome richiamato anche da un scritta in legno multicolore.
L’ultima stazione è al cimitero di Ridotti dove si arriva dopo avere superato la chiesetta in cui si celebrò il funerale di Cristina, nella sua piccola bara bianca, e quello di Perruzza, sulla cui bara, l’avvocato Cecchini, disse: «Sulla tua tomba vorrei scrivere: Michele Perruzza ergastolano innocente, simbolo di una giustizia ingiusta». La tomba di Perruzza, al cimitero, è in un loculo nella parte sinistra mentre a destra c’è quella di Cristina che è un’esplosione di bambolotti e di “ricordini”. Sulla lapide di Michele ci sono soltanto le date di nascita e di morte. Intorno, ormai dopo sette anni, non c’è nessuna sepoltura. Tutti loculi vuoti. Nessuno vuole stare “vicino” al “mostro di Balsorano”.
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I bambini sono cresciuti, a Case Castella dove, invece il tempo s’è fermato a vent’anni fa. Le lancette non hanno fatto scattai in avanti rispetto a quelle interminabili ore tra la sera del 23 agosto 1990, quando Cristina sparì inghiottita dal buio, e l’alba di quel 24 agosto, quando le unità cinofile ritroveranno il suo corpicino martoriato, con le mutandine scese, gettato tra i rovi di un cespuglio di more.
In questa sperduta contrada della Valle Roveto ai confini con il Lazio che è Case Castella, un pugno di case lungo la strada provinciale per Ridotti (frazione del Comune di Balsorano), si respira la stessa atmosfera di venti anni fa. Un dolore sordido. Un fastidio, nervoso, palpabile fisicamente, contro «i soliti sciacalli di giornalisti. Andate via! Che altro volete! Basta...».
Sono passati vent’anni. Ma tutto è fermo al delitto di Balsorano, quando in quell’“agosto dei delitti” del 1990 cominciata con l’omicidio (tutt’ora senza un colpevole) di via Poma a Roma, Balsorano fu catapultato in prima pagina come la terra del mostro. Il “mostro di Balsorano”. Cristina, una vispa bimba di 7 anni, non si ritrova. Era scomparsa dalla sera precedente, il 23 agosto, “scappando” di casa intorno alle 20,30 con uno yoghurt come cena per andare a giocare nella piazzetta del paese con gli amichetti. Venne cercata tutta la notte dai genitori, dai parenti e da tutti i paesani. Era a due passi, a meno di cento metri da casa sua, come si scoprirà all’alba. «Massacrata a colpi di pietra dopo essere stata violentata», si disse e si scrisse sul momento anche se l’autopsia smentirà almeno la violenza carnale che pure è rimasta nell’immaginario collettivo. «Strozzata dopo alcuni atti di libidine», hanno poi accertato i tre gradi di giudizio nei quali è stata decretata la condanna definitiva all’ergastolo di Michele Perruzza, muratore all’epoca quarantenne, zio della vittima. «Il mostro di Balsorano»: così venne chiamato subito dopo l’arresto, avvenuto all’alba del terzo giorno dopo il delitto, il 26 agosto. Da allora Michele Perruzza si è sempre proclamato innocente. Ed è morto, nel gennaio 2003, gridando la propria innocenza («Dite a tutti che non sono stato io») mentre l’ambulanza lo portava inutilmente dal carcere di Rebibbia, dove era stato colto da infarto, all’ospedale. Una morte che sembra la conclusione di una tragedia greca che nessun drammaturgo avrebbe saputo inventare.
Perruzza aveva sperato nella revisione del processo dopo che il “processo satellite” di Sulmona aveva gettato, nuovamente e pesantemente, la croce addosso a suo figlio Mauro, all’epoca 13enne. Il quale, a principio, s’era autoaccusato dell’omicidio della cuginetta, per poi ritrattare e puntare il dito contro il padre ed assurgere a super-testimone. Dirà l’avvocato Attilio Cecchini che combattè (gratis) per difendere dall’ergastolo un semplice muratore: «La mia è stata una battaglia di civiltà. Il sistema doveva avere il coraggio di ammettere l’errore giudiziario che, d’altra parte, è connaturato al processo penale che è un procedimento lungo, fatto dagli uomini che, appunto, sbagliano. Michele Perruzza, un innocente condannato all’ergastolo, non chiedeva vendette. Chiedeva che la giustizia, dal suo interno, ammettendo l’errore, facesse giustizia».
Sono passati vent’anni. Case Castella è rimasta come una sorte di “via Crucis” salendo la strada fatta di tornanti che va a morire alla piazzetta principale di Ridotti, proprio sotto la montagna confinante col territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo.
La prima “stazione” è stata attaccata dal tempo. Sono ormai sbiadite le scritte in vernice nera e a caratteri cubitali sui muri al bivio per Ridotti dalla Superstrada del Liri ricordano al passante che questa è la terra del delitto di Balsorano. “Cristina rimane nel nostro cuore...”, “Andate via assassini...”, “Maria.., vaff...”. Nessuno, invece, ha voluto cancellare le scritte al lavatoio comunale, uno dei luoghi cardine nella ricostruzione del delitto visto che Mauro raccontò di esservi andato a lavarsi dopo aver assistito al delitto. C’è scritto: “Michele, Maria assassini”... “Maria, non sporcare l’acqua con le tue mani piene di sangue”. Non a caso quasi tutte le scritte sono contro Maria Giuseppa Capoccitti, la moglie di Perruzza, la madre di Mauro, la zia di Cristina. I paesani, gli stessi che hanno festeggiato con i fuochi d’artificio la condanna di Perruzza, hanno dato l’ergastolo anche a lei.
Un’altra stazione è il borgo, un pugno di case racchiuse in un tornante e diviso da una scalinata (dove fu vista per l’ultima volta la piccola) che collega la Provinciale da sotto a sopra concludendo con la casa dei Capoccitti, chiusa da tempo a vederla da fuori. Mai più riaperta, da vent’anni, è invece la casa dei Perruzza, al civico 23, così come sono fermi i lavori in quella che doveva essere la nuova abitazione di una famiglia oggi dilaniata: Perruzza è morto, la moglie (che aveva chiesto da tempo il divorzio) s’è rifatta una vita al Nord dove portò anche i suoi due figli mentre Mauro è stato adottato da una famiglia di Gubbio ed ha pure cambiato cognome. È in abbandono anche il capanno, un altro luogo cardine di questa storia maledetta, dove il nonno di Cristina allevava i maiali e dal cui tetto Mauro disse ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di aver visto il padre sopra la sua cuginetta «che la steva a finì». Il ragazzo (dopo un sopralluogo dei giudici) fu creduto e Michele condannato all’ergastolo. Ma nel processo-satellite, davanti al Tribunale di Sulmona, una perizia ha dimostrato che a quell’ora Mauro non poteva aver visto nulla perchè era buio.
Ma la “stazione” più triste, viene dopo il borgo, racchiuso da un ornate. A Case Castella agosto è tempo di more. Ne sono stracolmi i cespugli che accerchiano una piccola radura dove, fin dal primo anniversario, è stata eretta una “edicola” nella cui bacheca c’è la foto di una bimba che sorride senza un dentino. Ci sono anche alcuni oggettini: ricordo di Loreto, delle cascate del Niagara. Una bambolina. E tanti mazzi di fiori, compresa una siepe che sta crescendo bassa con la forma del nome di Cristina. Nome richiamato anche da un scritta in legno multicolore.
L’ultima stazione è al cimitero di Ridotti dove si arriva dopo avere superato la chiesetta in cui si celebrò il funerale di Cristina, nella sua piccola bara bianca, e quello di Perruzza, sulla cui bara, l’avvocato Cecchini, disse: «Sulla tua tomba vorrei scrivere: Michele Perruzza ergastolano innocente, simbolo di una giustizia ingiusta». La tomba di Perruzza, al cimitero, è in un loculo nella parte sinistra mentre a destra c’è quella di Cristina che è un’esplosione di bambolotti e di “ricordini”. Sulla lapide di Michele ci sono soltanto le date di nascita e di morte. Intorno, ormai dopo sette anni, non c’è nessuna sepoltura. Tutti loculi vuoti. Nessuno vuole stare “vicino” al “mostro di Balsorano”.
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Angelo De Nicola