UN ANNO FA - DORMIVO...
L’AQUILA - Dormivo, quella maledetta notte di un anno fa quando l’orco è arrivato ruggendo. Sarà per questo che, ogni sera, tutte le sere che vado a letto, l’orco torna a tirarmi i piedi. A ricordarmi, se ce ne fosse bisogno, quel risveglio da incubo alle 3,32 del 6 aprile.
6 aprile, un anno fa. Nella mia casa (la “casetta” delle vacanze a Francavilla al Mare), la casa che mi ha ospitato fino a qualche giorno fa, quasi ogni notte mi sveglio di soprassalto. Un minimo rumore (la portiera di un’auto nel cortile, il treno che sfreccia a due passi, il rombo di un motorino truccato, una folata di vento che fa sbattere d’improvviso le serrande...) mi fa trasalire. Allora mi alzo. Al buio, dò un bacio sulla testolina di mia figlia Camilla che, come sempre da quella maledetta notte, ha l’imbottita tirata fin sopra la fronte scoprendosi così i pieducci. Da quella maledetta notte (in cui la mia piccolotta restò quasi pietrificata nel suo letto coprendosi la faccia con il lenzuolo mentre attorno tutto crollava: non rispondeva alle urla disperate mie e della madre e così ci dicemmo: «Allora è meglio morire») dorme sempre con le calze infilate pronta a scappare, se dovesse servire, senza ferirsi i piedi su spine di macerie. Camilla non vuole che si chiuda la porta di casa a chiave, quella porta che quella maledetta notte non voleva saperne di aprirsi, compressa dall’orco che ci ha lasciati vivi non senza prima divertirsi a guardarci negli occhi per interminabili minuti. Ricordi. Ricordi. Ricordi.
Il 15 marzo scorso, dopo il “soggiorno” forzato durato quasi un anno, sono tornato a vivere all’Aquila: ho trovato posto (la mia famiglia tornerà quando Camilla avrà finito la terza media: l’abbiamo iscritta a Francavilla) sul divano-letto della casa che occupano i miei genitori, tornati dall’esilio durato dieci mesi a Silvi Marina dopo l’esodo dal loro quartiere, quello di San Pietro, la piccola Dresda. È un appartamento nuovo, in un quartiere (quello del “Torrione”) che l’orco ha quasi risparmiato. Al terzo piano, però. La prima notte non ho chiuso occhio e, certo, non per il cuscino scomodo ed il materasso in lattice. Alle 7 meno dieci del mattino, l’orco mi ha dato la sveglia di benvenuto: due-punto-sette. La finestra ha tremato per una decina di secondi, come il mio cuore. Eccolo. Rieccolo l’orco. Ma non ho gridato. Nè sono fuggito. Ho affrontato il nemico a petto in fuori. Mi hai distrutto tutto quello che avevo (meno il lavoro, che è la priorità assoluta, prima delle case e delle chiese: lo sa bene chi l’ha perduto). Ti sei preso tanti amici (quella madre trovata abbracciata ai suoi due figlioletti: eravamo cresciuti insieme). Hai inghiottito tanti studenti (tutti figli nostri). Hai rubato l’identità alla mia città (niente più profumi, riflessi del sole sulle antiche pietre bianche, l’urlare di ambulanti nella piazza del Mercato e le passeggiate sotto i Portici...). Hai costretto un intero popolo alla diaspora (eccome “sa di sale lo pane altrui”). Ma, stanne certo, non avrai il mio scalpo. Nel Quattrocento e nel Settecento gli aquilani ce l’hanno fatta. Ce la faremo anche oggi.
Oggi, 6 aprile. Un anno fa. La voglia è di scappare. Di non esserci. Di non partecipare alla sarabanda (non tutta in buona fede), del triste anniversario annunciata da giorni. Molti “turisti del dolore” non mancheranno, approfittando della Pasquetta, di assistere allo “spettacolo”. Tanti aquilani, invece, non ci saranno. Certo, non per fare il ponte di Pasqua fuori città. Molti, al contrario, hanno deciso che devono esserci ma nel totale riserbo. In punta di piedi. Con quella dignità che, un anno fa, ha commosso il mondo intero prima che nella scala delle tragedie epocali arrivasse quella di Haiti e, poi, quella del Cile. Ma per gli aquilani, la totale distruzione del centro storico, dell’Acropoli cuore pulsante non soltanto economicamente e socialmente ma soprattutto sotto il profilo psicologico della città e del suo territorio, è stata la fine del mondo. Di un mondo che, dopo un anno, non potrà tornare in tempi brevi. Forse non potrà tornare più come prima.
Oggi, 6 aprile. Una data che per noi aquilani rappresenta e rappresenterà uno spartiacque. Più di un aquilano, con l’enfasi dell’estremizzazione tipica delle tragedie epocali, s’è sorpreso ad affermare che addirittura questa data ha la stessa valenza dell’anno zero, del prima e del dopo di Cristo. Certo, nulla sarà come “prima” di quelle due lancette ferme, non soltanto idealmente, alle 3,32. Ventidue secondi. La fine del mondo, o almeno di quel nostro piccolo mondo. L’inizio e la fine. La fine e l’inizio. Il 6 aprile.
Ogni aquilano, tutti i giorni, ha un solo pensiero: ricostruire. Se ci si incontra tra aquilani, dentro o fuori dall’Aquila, si parla soltanto di questo: il dopo terremoto. I ricordi hanno lasciato spazio alle speranze. Alla voglia di fare. Di rimboccarsi le maniche. Ma le speranze, ogni giorno che passa, prendono sempre più i contorni di un tunnel di cui, in fondo in fondo in fondo, non si vede la luce. Ricostruire sì, ma come? In che tempi? Con quali risorse?
È passato un anno, ma della mia casa bombardata in via Cola dell’Amatrice (una traversa della martoriata via XX Settembre) non so nulla. Deve essere abbattuta? Non lo so. Avrò un aiuto e di che quantità per ricostruirla? Non lo so. I decisivi sottoservizi (gas, luce acqua: le tubature sono tutte rotte) verranno subito ripristinati nella zona rossa? Non lo so. Quando potrò rientrare a casa mia senza chiedere permesso ai vigili del fuoco? Non lo so. Non so nulla.
E dopo 365 giorni cerco di spiegarlo ai tanti che, con lo stesso affetto di un anno fa, mi fanno gli auguri non tanto per la Pasqua quanto per il lutto collettivo che il 6 aprile porterà sempre con sè. «Ma come, non sapete ancora nulla?» mi chiedono, increduli. No, non sappiamo nulla. Tutto come un anno fa. Difficile crederci se non vivi questo incubo, tutti i giorni e tutte le notti.
Perciò questo anniversario, questa nottata lunga lunga, una sorta di Capodanno al rovescio, vorrei che passasse in fretta. Vorrei che fosse già il 7 aprile, come quando il 7 aprile dell’anno scorso, un paio di pantaloni ed un giubbetto presi alla Caritas segnarono per me l’inizio di un nuovo giorno e di una nuova vita.
Voglio guardare avanti. Non voglio tristi anniversari. Domani, 7 aprile, è un altro giorno. Un’altra vita. Ce la farò. Ce la faremo. Ce la dobbiamo fare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
6 aprile, un anno fa. Nella mia casa (la “casetta” delle vacanze a Francavilla al Mare), la casa che mi ha ospitato fino a qualche giorno fa, quasi ogni notte mi sveglio di soprassalto. Un minimo rumore (la portiera di un’auto nel cortile, il treno che sfreccia a due passi, il rombo di un motorino truccato, una folata di vento che fa sbattere d’improvviso le serrande...) mi fa trasalire. Allora mi alzo. Al buio, dò un bacio sulla testolina di mia figlia Camilla che, come sempre da quella maledetta notte, ha l’imbottita tirata fin sopra la fronte scoprendosi così i pieducci. Da quella maledetta notte (in cui la mia piccolotta restò quasi pietrificata nel suo letto coprendosi la faccia con il lenzuolo mentre attorno tutto crollava: non rispondeva alle urla disperate mie e della madre e così ci dicemmo: «Allora è meglio morire») dorme sempre con le calze infilate pronta a scappare, se dovesse servire, senza ferirsi i piedi su spine di macerie. Camilla non vuole che si chiuda la porta di casa a chiave, quella porta che quella maledetta notte non voleva saperne di aprirsi, compressa dall’orco che ci ha lasciati vivi non senza prima divertirsi a guardarci negli occhi per interminabili minuti. Ricordi. Ricordi. Ricordi.
Il 15 marzo scorso, dopo il “soggiorno” forzato durato quasi un anno, sono tornato a vivere all’Aquila: ho trovato posto (la mia famiglia tornerà quando Camilla avrà finito la terza media: l’abbiamo iscritta a Francavilla) sul divano-letto della casa che occupano i miei genitori, tornati dall’esilio durato dieci mesi a Silvi Marina dopo l’esodo dal loro quartiere, quello di San Pietro, la piccola Dresda. È un appartamento nuovo, in un quartiere (quello del “Torrione”) che l’orco ha quasi risparmiato. Al terzo piano, però. La prima notte non ho chiuso occhio e, certo, non per il cuscino scomodo ed il materasso in lattice. Alle 7 meno dieci del mattino, l’orco mi ha dato la sveglia di benvenuto: due-punto-sette. La finestra ha tremato per una decina di secondi, come il mio cuore. Eccolo. Rieccolo l’orco. Ma non ho gridato. Nè sono fuggito. Ho affrontato il nemico a petto in fuori. Mi hai distrutto tutto quello che avevo (meno il lavoro, che è la priorità assoluta, prima delle case e delle chiese: lo sa bene chi l’ha perduto). Ti sei preso tanti amici (quella madre trovata abbracciata ai suoi due figlioletti: eravamo cresciuti insieme). Hai inghiottito tanti studenti (tutti figli nostri). Hai rubato l’identità alla mia città (niente più profumi, riflessi del sole sulle antiche pietre bianche, l’urlare di ambulanti nella piazza del Mercato e le passeggiate sotto i Portici...). Hai costretto un intero popolo alla diaspora (eccome “sa di sale lo pane altrui”). Ma, stanne certo, non avrai il mio scalpo. Nel Quattrocento e nel Settecento gli aquilani ce l’hanno fatta. Ce la faremo anche oggi.
Oggi, 6 aprile. Un anno fa. La voglia è di scappare. Di non esserci. Di non partecipare alla sarabanda (non tutta in buona fede), del triste anniversario annunciata da giorni. Molti “turisti del dolore” non mancheranno, approfittando della Pasquetta, di assistere allo “spettacolo”. Tanti aquilani, invece, non ci saranno. Certo, non per fare il ponte di Pasqua fuori città. Molti, al contrario, hanno deciso che devono esserci ma nel totale riserbo. In punta di piedi. Con quella dignità che, un anno fa, ha commosso il mondo intero prima che nella scala delle tragedie epocali arrivasse quella di Haiti e, poi, quella del Cile. Ma per gli aquilani, la totale distruzione del centro storico, dell’Acropoli cuore pulsante non soltanto economicamente e socialmente ma soprattutto sotto il profilo psicologico della città e del suo territorio, è stata la fine del mondo. Di un mondo che, dopo un anno, non potrà tornare in tempi brevi. Forse non potrà tornare più come prima.
Oggi, 6 aprile. Una data che per noi aquilani rappresenta e rappresenterà uno spartiacque. Più di un aquilano, con l’enfasi dell’estremizzazione tipica delle tragedie epocali, s’è sorpreso ad affermare che addirittura questa data ha la stessa valenza dell’anno zero, del prima e del dopo di Cristo. Certo, nulla sarà come “prima” di quelle due lancette ferme, non soltanto idealmente, alle 3,32. Ventidue secondi. La fine del mondo, o almeno di quel nostro piccolo mondo. L’inizio e la fine. La fine e l’inizio. Il 6 aprile.
Ogni aquilano, tutti i giorni, ha un solo pensiero: ricostruire. Se ci si incontra tra aquilani, dentro o fuori dall’Aquila, si parla soltanto di questo: il dopo terremoto. I ricordi hanno lasciato spazio alle speranze. Alla voglia di fare. Di rimboccarsi le maniche. Ma le speranze, ogni giorno che passa, prendono sempre più i contorni di un tunnel di cui, in fondo in fondo in fondo, non si vede la luce. Ricostruire sì, ma come? In che tempi? Con quali risorse?
È passato un anno, ma della mia casa bombardata in via Cola dell’Amatrice (una traversa della martoriata via XX Settembre) non so nulla. Deve essere abbattuta? Non lo so. Avrò un aiuto e di che quantità per ricostruirla? Non lo so. I decisivi sottoservizi (gas, luce acqua: le tubature sono tutte rotte) verranno subito ripristinati nella zona rossa? Non lo so. Quando potrò rientrare a casa mia senza chiedere permesso ai vigili del fuoco? Non lo so. Non so nulla.
E dopo 365 giorni cerco di spiegarlo ai tanti che, con lo stesso affetto di un anno fa, mi fanno gli auguri non tanto per la Pasqua quanto per il lutto collettivo che il 6 aprile porterà sempre con sè. «Ma come, non sapete ancora nulla?» mi chiedono, increduli. No, non sappiamo nulla. Tutto come un anno fa. Difficile crederci se non vivi questo incubo, tutti i giorni e tutte le notti.
Perciò questo anniversario, questa nottata lunga lunga, una sorta di Capodanno al rovescio, vorrei che passasse in fretta. Vorrei che fosse già il 7 aprile, come quando il 7 aprile dell’anno scorso, un paio di pantaloni ed un giubbetto presi alla Caritas segnarono per me l’inizio di un nuovo giorno e di una nuova vita.
Voglio guardare avanti. Non voglio tristi anniversari. Domani, 7 aprile, è un altro giorno. Un’altra vita. Ce la farò. Ce la faremo. Ce la dobbiamo fare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Angelo De Nicola