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LA COMUNITA' DEGLI SFOLLATI TENUTA UNITA DAI CELLULARI



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L'AQUILA - Siamo sfollati. Ce l'abbiamo scritto negli occhi se lungo la costa, dove abbiamo trovato rifugio, nei bar i camerieri non ci fanno pagare la colazione, il gelataio offre lui («Lo consideri un mio piccolo aiuto...») il cono per i figli stralunati e con gli occhi tristi, ed in trattoria ci fanno lo sconto («Sarebbe 90, facciamo 50...»).

Sfollati. Una comunità civica tenuta insieme dai telefonini. Quei benedetti cellulari che, fuggendo di casa, tutti ma proprio tutti (cosa singolare, anche le persone anziane) hanno cercato di acchiappare al volo ancor prima di scarpe, cappotti e coperte che avrebbero fatto molto ma molto comodo. Così, grazie ai telefonini, gli sfollati cercano di tenere unita una città dilaniata dal dolore, dalle macerie, dalla paura delle nuove scosse, dagli allarmi falsi e veri, dalle preoccupazioni immediate e da quelle future. Nella maledetta notte, dopo il primo momentaneo black-out delle linee impazzite per un sovraccarico di richiesta, il telefonino è servito per sincerarsi della sopravvivenza di parenti e amici: «Siamo vivi... E voi? Grazie a Dio!».

E se qualcuno aveva il cellulare staccato era un tuffo al cuore che diventava angoscia se, invece, l'apparecchio squillava a vuoto. Io non sono riuscito a prendere il cellulare. Nè c'erano sono riuscite mia moglie e mia figlia. Nè, con l'abitudine di memorizzarli direttamente nell'apparecchio (mai più fammi uno squillo: i numeri, da domenica notte, me li scrivo su una piccola rubrica di carta), riuscivo a ricordare a memoria i numeri. Ne ho ricordato uno solo, di un amico e, facendomi prestare un cellulare, sono riuscito a prendere la linea per chiedergli che avvertisse a catena che eravamo vivi, per miracolo, ma vivi e che mi facesse sapere dei miei cari, dei miei genitori, della famiglia di mio fratello, di mio cognato, degli amici: «Ti prego, richiamami a questo numero».

Solo verso le 13, dopo la nottata del terrore e la mattinata tragica, ho trovato il coraggio di rientrare, a mio rischio e pericolo, nella mia casa devastata. Col cuore in gola, scavalcando cumuli di macerie e mobili in frantumi, sono andato a colpo sicuro per prendere il portafogli (per i documenti, la carta di credito e qualche contante) e soprattutto il cellulare. L'ho trovato. C'erano 86 chiamate senza risposta e 56 messaggi: ho richiamato e risposto a tutti.

E prova e riprova, chiama e ricevi telefonate, la batteria si è andata esaurendo. Nel concentramento della Villa comunale ho trovato una ragazza, con un telefonino del mio stesso tipo, che aveva scoperto delle prese dell'elettricità accanto allo chalet. Aveva pensato a prendere anche il ricaricatore! La salvezza... Sono ricominciate le telefonate. Ininterrotte anche per tutta la giornata di ieri. Tutte uguali. «Siete vivi? Questo conta... Sì, ma non abbiamo più nulla... Ora che faremo? Non lo so». Tutte le conversazioni si concludono con il drammatico interrogativo: che fare, ora... che fare, domani? Nessuno ha la risposta. Tanto che si organizza un forum improvvisato: «Fai un giro di telefonate ed io faccio altrettanto. Poi ci risentiamo e facciamo un punto».

Tra un forum e l'altro arrivano telefonate con commoventi offerte di aiuto. Un caro amico, non potendo far altro, mi invita in sua casa sgombra a Secinaro: «Qui non ci sono stati danni: casa mia è casa tua». Grazie! E ieri sera, all'ennesima scossa forte, il telefonino è tornato ad essere la cartina al tornasole della tragedia. «Hai sentito? Sì, sarà stata oltre il quinto grado. All'Aquila deve essere stata una nuova apocalisse». «Tu sei all'Aquila? Sai se casa mia è crollata? Qui sulla costa? S'è sentito lo stesso: non ci salveremo da quest'incubo».

Angelo De Nicola