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LA MORTE E' ARRIVATA COME UN SIBILO



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L’AQUILA - Dormivo. Come molti, avevo fatto spallucce all’ennesima scossa da dicembre, poco prima delle 23, dopo aver imprecato, io interista, per il doppio gol del Milan nel finale. «Lella- dico a mia moglie- che botta! La piccola Camilla dorme? Non s’è svegliata, meno male: è così stressata da tutte queste scosse. Beh, allora andiamo a dormire pure noi: se proprio dobbiamo, moriremo nel sonno...».

La morte è arrivata come un sibilo. Un ululato sordo, assassino. Mentre tutto attorno alla camera da letto ondeggiava e sussultava, sussultava ed ondeggiava. «Camillaaaaa!» urlo con tutto il fiato che ho in gola mentre volo a piedi scalzi su spine di macerie per arrivare alla cameretta della mia piccolotta. Ho il tempo di pensare che se non ho risposta è meglio morire. Ora! Mia moglie, non so come, è arrivata prima di me: abbraccia Camilla su quel che è rimasto del pavimento ai piedi dei muri portanti, mentre intorno, in più punti, si vede il piano di sotto e l’appartamento accanto. Qualche giorno fa, nella scossa più forte (magnitudo 4), mi ero fatto prendere dal panico e mia figlia, dopo aver letto il giornale, mi aveva rimproverato: «Papà, i grandi devono dare l’esempio ai più piccoli...». Stavolta non ho urlato. Ho preso per mano Camilla e Lella e abbiamo cercato di guadagnare la porta: siamo al piano terra, ce la possiamo fare. Intorno il maledetto sibilo che torna più e più volte. Un odore acre, gas forse, mi prende le narici.

Ecco la porta: «Attenzione alla bottiglie ed ai bicchieri rotti del mobiletto bar...» dico a Camilla. «Papà, ma il mobiletto non era nell’altra stanza?». Ecco la porta. «Sieti vivi? Tutto bene?» mi chiede nonna Fausta che abita al piano di sotto (il palazzo a cinque piani è incastrato nella roccia fin ad un ulteriore piano delle cantine) e che, gazzella ottantenne, ha risalito con i denti la tromba delle scale traballanti. «Sì, nonna- urlo- ma la porta non si apre, è bloccata. Chieda aiuto, la prego, nonna! Vada fuori, chiami qualcuno». «Angelo, qui non c’è nessuno. Provo io con questo mattone...». I colpi della nonna sono carezze per la porta di legno massello.

Camilla piange disperata. Mia moglie è sparita (saprò soltanto dopo che è tornata in camera a prendere qualche indumento e soprattutto le chiavi della piccola casa al mare a Francavilla). Io non urlo ma sono disperato dentro. Lo so che nonna Fausta non ce la farà mai a sfondare quella maledetta porta. Devo trovare una via alternativa: se torna la morte facciamo la fine dei topi in trappola. Giro l’angolo, mi dirigo verso l’uscita che dà sul giardino. Provo ad aprirla. Ed è lì che viene giù una cascata di detriti. Resto sotto, stordito, col sangue che mi cola sugli occhi fino alla bocca. Mi libero. Mi rialzo e torno indietro. Stavolta urlo: «Nonna chiami aiuto». E l’aiuto arriva. Ci vorranno una trentina di colpi d’ariete per sfondare la porta. Si apre, si apre, si apre! Siamo salvi!

Noi, siamo salvi! Intorno al mio condominio c’è solo puzza di morte: il palazzo attiguo s’è incassato al suolo di un piano facendo scoppiare le porte dei garage. Due palazzi vicini sono collassati. Si sentono urla. Lamenti. Rantoli allucinati. Qualcuno scava con le mani. E piange, urla. «Aiutateci!»

E torna il sibilo. Più volte. Nel piazzale, con i guanti di lana come ciocie, i più in pigiama (il mio, ormai, è diventato rosso), i bambini delle poche auto che si sono salvate e che abbiamo messo al sicuro. Alla finestra del palazzo vicino, dopo un’ora s’affaccia una voce in inglese: «Help!». È la badante rumena di un’anziana signora. Verrà il figlio a salvarla, non so come visto che il portone d’ingresso non c’è più. Ci stringiamo attorno ai “nostri” studenti fuori sede che cercano di chiamare i genitori lontani. I telefonini non funzionano. Che facciamo? Aspettiamo che faccia giorno.

Apriamo un varco, con le unghie, tra le vecchie mura crollate dove è passato un genitore di una studentessa piombato da Teramo chissà come. Una ringhiera è una scala improvvisata. Ovunque è morte. Due almeno i condomini collassati, tutti gli edifici lesionati, in una delle due enormi voragini tra i vicoli, si sono adagiate due auto una sopra all’altra. La gente si aggira allucinata. «Attenti lì: crolla tutto». Passando per via XX Settembre, arriviamo alla Villa comunale. Speriamo in un’ambulanza. Non c’è. C’è solo una camionetta della Protezione civile con un po’ d’acqua e nemmeno una garza: «Vada all’ospedale!». Sì, ma come? Non fa niente per la mia testa fasciata come fossi un vietkong (all’ospedale di Pescara mi metteranno dieci punti di sutura ma alla Tac non risulterà nulla). Anche la fontanella della Villa comunale è guasta. «Che facciamo?». «Andiamo a Francavilla e ti fai medicare all’ospedale di Pescara» dice mia moglie. «Anche lì dobbiamo sfondare la porta». «No: ho preso io le chiavi», donna previdente. «E l’auto? E i soldi? La benzina? la patente? Il telefonino? Non abbiamo più nulla!». «Qualche amico mi aiuterà... Ricominceremo da Francavilla».

Angelo De Nicola