ADDIO A GENNARO DE STEFANO, CRONISTA “RANDAGIO”
L’AQUILA - “L’autobiografia di uno dei più grandi cronisti dei nostri tempi”. Stanno tutte nello sfrontato sottotitolo del suo ultimo libro autobiografico, che s’intitola “Un giornalista scomodo”, le contraddizioni del giornalista avezzanese Gennaro De Stefano stroncato, a 56 anni, da un male che non gli ha lasciato scampo. Se è da inserire nel Pantheon dei cronisti con Montanelli ed altri, lo dirà la Storia. Certo, quella di Genni («con la “i”- diceva lui- non con la femminile “y”») è stata una vita più appassionante di un noir di Chandler. Una vita di «successi e frane- scrive nel suo libro-, mestieri infiniti e sogni», compreso quello di emigrante che gli fece conoscere «il sudore della manovalanza italiana in Germania».
Giornalista scomodo, appunto. Dopo un inizio nel 1975 all’Unità dalla quale (manco a dirlo) se ne va subito sbattendo la porta, nel 1989 ricomincia da capo la sua vita e torna al giornalismo iniziando a collaborare con la rivista abruzzese “Vario”. Nel 1990, su alcune riviste patinate nazionali (è stato “inviato” di Visto, Oggi e Gente), la consacrazione come cronista di razza con gli scoop sul delitto di Balsorano dopo aver sposato la prima linea difensiva, quella dell’avvocato Carlo Maccallini. I suoi articoli sui gialli più intricati dell’Italia del Dopoguerra (dal mostro di Firenze al mostro di Foligno, da via Poma a Luigi Chiatti, fino a Cogne) fanno riaprire diverse indagini, destando sempre polemiche.
E spesso la vita di Genni s’è intrecciata con le sue rognose inchieste. Come accadde il 31 agosto 1992, quando un ispettore di polizia di Avezzano, fece infilare della cocaina nell’auto di quel giornalista che stava smontando l’indagine sul “mostro di Balsorano”, Michele Perruzza. De Stefano si fece 56 giorni in carcere. Grazie anche all’avvocato Attilio Cecchini («il maestro» come lo chiamava lui) ne uscì pulito e risarcito dallo Stato per l’ingiusta detenzione continuando a battersi perché la verità su Perruzza venisse a galla: alla morte, d’infarto in carcere, dell’ergastolano Michele, pianse lacrime vere, con Cecchini, con la mano sulla bara del muratore.
La sua autiobiografia, pubblicata il 19 marzo scorso, comincia proprio da questo arresto, «dalla memoria che torna al passato, nel buio di una cella. Perché questa non è la storia di un comune cronista- si legge nella prefazione-. È la storia davvero insolita di un uomo scomodo. Randagio e geniale, avventato e coraggioso. Ma che qui sembra il protagonista di un romanzo».
La malattia che lo aveva assalito alle spalle alcuni anni fa, non lo aveva piegato. Anzi, lui ne aveva fatto uno scoop, raccontandola. «La mia lotta continua- aveva scritto su Gente, nell’ottobre scorso, interrompendo l’intensa collaborazione “per ragioni di salute”-. Vorrei tanto dirvi arrivederci, ma so che questo è un addio».
Giornalista scomodo, appunto. Dopo un inizio nel 1975 all’Unità dalla quale (manco a dirlo) se ne va subito sbattendo la porta, nel 1989 ricomincia da capo la sua vita e torna al giornalismo iniziando a collaborare con la rivista abruzzese “Vario”. Nel 1990, su alcune riviste patinate nazionali (è stato “inviato” di Visto, Oggi e Gente), la consacrazione come cronista di razza con gli scoop sul delitto di Balsorano dopo aver sposato la prima linea difensiva, quella dell’avvocato Carlo Maccallini. I suoi articoli sui gialli più intricati dell’Italia del Dopoguerra (dal mostro di Firenze al mostro di Foligno, da via Poma a Luigi Chiatti, fino a Cogne) fanno riaprire diverse indagini, destando sempre polemiche.
E spesso la vita di Genni s’è intrecciata con le sue rognose inchieste. Come accadde il 31 agosto 1992, quando un ispettore di polizia di Avezzano, fece infilare della cocaina nell’auto di quel giornalista che stava smontando l’indagine sul “mostro di Balsorano”, Michele Perruzza. De Stefano si fece 56 giorni in carcere. Grazie anche all’avvocato Attilio Cecchini («il maestro» come lo chiamava lui) ne uscì pulito e risarcito dallo Stato per l’ingiusta detenzione continuando a battersi perché la verità su Perruzza venisse a galla: alla morte, d’infarto in carcere, dell’ergastolano Michele, pianse lacrime vere, con Cecchini, con la mano sulla bara del muratore.
La sua autiobiografia, pubblicata il 19 marzo scorso, comincia proprio da questo arresto, «dalla memoria che torna al passato, nel buio di una cella. Perché questa non è la storia di un comune cronista- si legge nella prefazione-. È la storia davvero insolita di un uomo scomodo. Randagio e geniale, avventato e coraggioso. Ma che qui sembra il protagonista di un romanzo».
La malattia che lo aveva assalito alle spalle alcuni anni fa, non lo aveva piegato. Anzi, lui ne aveva fatto uno scoop, raccontandola. «La mia lotta continua- aveva scritto su Gente, nell’ottobre scorso, interrompendo l’intensa collaborazione “per ragioni di salute”-. Vorrei tanto dirvi arrivederci, ma so che questo è un addio».
Angelo De Nicola