Il Polo elettronico dell'Aquila - Il fallimento di un sogno
L’AQUILA - Dialogo tra due signore di mezza età al mercato di piazza Duomo, all’Aquila, qualche anno fa. Una chiede: «Dove lavora tua figlia?». L’altra: «In fabbrica, all’Italtel». «Meno male! Dicono che alla Siemens sono tutte poco di buono...». La feroce ironia della scenetta popolare che nel capoluogo abruzzese si racconta ancora, riassume, nella sua paradossalità, la paradossale morte del ”polo elettronico” aquilano. Un sogno dai piedi d’argilla. Così come un sogno è stato quello della nascita, in questa città che nel Quattrocento contava 40 mila abitanti (oggi ne ha 70mila), di una classe operaia che riuscisse a spodestare una borghesia bigotta e opportunista e perciò bollata dal motto (in negativo) della città: ”Immota manet”.
Prima Siemens, poi Italtel, poi ancora Siemens, Marconi Flextronics, Lares-Tecno, Finmek, ecc... Un tourbillon di sigle, nomi, fusioni, subentri, rientri, che sintetizzano la sconfitta, anche in Abruzzo, della grande elettronica italiana ma anche del tentativo di un’uscita di sicurezza fatto di ”spezzatini” di piccole e medie industrie. Dai cinquemila dipendenti degli anni Settanta ai poco più di mille di oggi, gran parte dei quali in cassa integrazione. Dalle Partecipazioni statali ai privati: un fallimento su tutta la linea. In un territorio che, pure, in quegli anni sembrava voler diventare la ”Silicon valley” italiana: la Facoltà di Ingegneria della locale Università lancia subito un Corso di laurea in elettronica; s’insediano i Laboratori e l’Istituto di Fisica nucleare sotto il Gran Sasso; arriva l’Alenia, per non parlare dello sbarco della Ericsson a Sulmona e della Texas (oggi” Micron Technology”) ad Avezzano dove s’espande Telespazio. Sarà una ”Silicon Valley” in salsa locale, all’amatriciana ha detto qualcuno. Per giunta, all’Aquila nasce, griffato Italtel, il primo ”cellulare”: un aggeggio grande come una scatola delle scarpe ma portatile. Il via al telefono targato Italia? Macché, è già archeologia industriale. Così come un flop è pure il ”Dect” (anch’esso Italtel), il ”telefonino da città”: ci sono ancora le antenne in giro all’Aquila (che fece da apripista) ed in altre città italiane: milioni buttati.
Sì, ma perchè crolla un sogno? Solo perchè dopo con gli anni Novanta comincia il ritiro delle Partecipazioni statali e si avvicina la fine dei fondi per l’intervento straordinario nel Mezzogiorno? «Il caso dell’Aquila ha un aggravante rispetto alla crisi dell’intero settore italiano- spiega Luciano Scalia, ex direttore del personale, anche all’Aquila, dell’Italtel, poi ai vertici di Telecom e con l’esperienza di segretario nazionale dei metalmeccanici della Cisl-. Con la crisi i grandi produttori italiani hanno cominciato a non produrre più, vuoi per la concorrenza dei paesi orientali, vuoi per il decremento del contenuto di lavoro della produzione sceso, con le nuove tecnologie, del 50-60%. Ma soprattutto noi italiani non siamo stati pronti a cavalcare l’innovazione. In questo quadro, all’Aquila non si è stati in grado di rendere appetibile il territorio ritenendo, errore ancora più grave vista la congiuntura mondiale, di poter vivere di rendita». Futuro nero? «Credo che quando passa il vento, non lo riprendi più» conclude, amaro, Scalia.
«Quando sono entrata io, facevamo i ”relé”. Era il 1971» racconta Isabella Angelone entrata in fabbrica («un capannone dove su ogni tavolo si lavorava un pezzo») a 16 anni, quando la Sit-Siemens era per metà delle Partecipazioni statali italiane e per metà tedesca. Si producevano pezzi di elettromeccanica. L’elettronica sarebbe arrivata con gli anni Ottanta: la Sit-Siemens diventa Italtel, cioè tutta made in Italy. E arrivano anche gli ammortizzatori sociali grazie all’Iri. Arrivano Alenia Spazio e Telespazio, s’insedia anche Alenia Industria. «In stragrande maggioranza-continua la Angelone-, in fabbrica eravamo donne: almeno l’80%».
Donne, donne. Come «donna con gli attributi», come amava definirla Craxi, è Marisa Bellisario, nuovo amministratore delegato Italtel, prima donna in Italia a guidare un’azienda così grande e non per eredità. La Bellisario si lancia nel sogno ”Telit”, un polo elettronico italiano, da fondare sul matrimonio tra l’Italtel (Iri) e la Telettra (Fiat). Ma l’accordo saltò: l’avvocato Agnelli s’irrigidì e finì col cedere la Telettra agli amici francesi della Alstom. L’Aquila sembra trarre vantaggio dalla svolta: la Bellisario individuò nella Siemens il partner straniero preferendolo all’americana ”At&t” ed in Abruzzo si attiva la produzione dei mitici ”armadi” (le centraline elettroniche). «Noi sindacati eravamo invece per gli americani - ricorda Gianni Di Cesare, ex segretario della Fiom dell’Aquila e poi della Cgil cittadina - che in Europa ci sarebbe stato posto al massimo per due produttori nell’elettronica, era per questo che la Siemens voleva l’Italtel». È l’inizio della fine, per L’Aquila (e non solo) proprio mentre si apre l’era della tecnologia: le partecipazioni statali si ritirano, l’Iri crolla, la Stet vende l’Italtel che viene acquisita da Siemens. La quale vende alla multinazionale americana Flextronics. Nuova girandola e, dopo due anni, Flextronics rivende alla italiana Finmek, assistita da Sviluppo Italia. Il pout pourrì di aziende ed azienduole (si è arrivati ad una quindicina) va a male ed anche la Finmek si rivela un flop.
Prima Siemens, poi Italtel, poi ancora Siemens, Marconi Flextronics, Lares-Tecno, Finmek, ecc... Un tourbillon di sigle, nomi, fusioni, subentri, rientri, che sintetizzano la sconfitta, anche in Abruzzo, della grande elettronica italiana ma anche del tentativo di un’uscita di sicurezza fatto di ”spezzatini” di piccole e medie industrie. Dai cinquemila dipendenti degli anni Settanta ai poco più di mille di oggi, gran parte dei quali in cassa integrazione. Dalle Partecipazioni statali ai privati: un fallimento su tutta la linea. In un territorio che, pure, in quegli anni sembrava voler diventare la ”Silicon valley” italiana: la Facoltà di Ingegneria della locale Università lancia subito un Corso di laurea in elettronica; s’insediano i Laboratori e l’Istituto di Fisica nucleare sotto il Gran Sasso; arriva l’Alenia, per non parlare dello sbarco della Ericsson a Sulmona e della Texas (oggi” Micron Technology”) ad Avezzano dove s’espande Telespazio. Sarà una ”Silicon Valley” in salsa locale, all’amatriciana ha detto qualcuno. Per giunta, all’Aquila nasce, griffato Italtel, il primo ”cellulare”: un aggeggio grande come una scatola delle scarpe ma portatile. Il via al telefono targato Italia? Macché, è già archeologia industriale. Così come un flop è pure il ”Dect” (anch’esso Italtel), il ”telefonino da città”: ci sono ancora le antenne in giro all’Aquila (che fece da apripista) ed in altre città italiane: milioni buttati.
Sì, ma perchè crolla un sogno? Solo perchè dopo con gli anni Novanta comincia il ritiro delle Partecipazioni statali e si avvicina la fine dei fondi per l’intervento straordinario nel Mezzogiorno? «Il caso dell’Aquila ha un aggravante rispetto alla crisi dell’intero settore italiano- spiega Luciano Scalia, ex direttore del personale, anche all’Aquila, dell’Italtel, poi ai vertici di Telecom e con l’esperienza di segretario nazionale dei metalmeccanici della Cisl-. Con la crisi i grandi produttori italiani hanno cominciato a non produrre più, vuoi per la concorrenza dei paesi orientali, vuoi per il decremento del contenuto di lavoro della produzione sceso, con le nuove tecnologie, del 50-60%. Ma soprattutto noi italiani non siamo stati pronti a cavalcare l’innovazione. In questo quadro, all’Aquila non si è stati in grado di rendere appetibile il territorio ritenendo, errore ancora più grave vista la congiuntura mondiale, di poter vivere di rendita». Futuro nero? «Credo che quando passa il vento, non lo riprendi più» conclude, amaro, Scalia.
«Quando sono entrata io, facevamo i ”relé”. Era il 1971» racconta Isabella Angelone entrata in fabbrica («un capannone dove su ogni tavolo si lavorava un pezzo») a 16 anni, quando la Sit-Siemens era per metà delle Partecipazioni statali italiane e per metà tedesca. Si producevano pezzi di elettromeccanica. L’elettronica sarebbe arrivata con gli anni Ottanta: la Sit-Siemens diventa Italtel, cioè tutta made in Italy. E arrivano anche gli ammortizzatori sociali grazie all’Iri. Arrivano Alenia Spazio e Telespazio, s’insedia anche Alenia Industria. «In stragrande maggioranza-continua la Angelone-, in fabbrica eravamo donne: almeno l’80%».
Donne, donne. Come «donna con gli attributi», come amava definirla Craxi, è Marisa Bellisario, nuovo amministratore delegato Italtel, prima donna in Italia a guidare un’azienda così grande e non per eredità. La Bellisario si lancia nel sogno ”Telit”, un polo elettronico italiano, da fondare sul matrimonio tra l’Italtel (Iri) e la Telettra (Fiat). Ma l’accordo saltò: l’avvocato Agnelli s’irrigidì e finì col cedere la Telettra agli amici francesi della Alstom. L’Aquila sembra trarre vantaggio dalla svolta: la Bellisario individuò nella Siemens il partner straniero preferendolo all’americana ”At&t” ed in Abruzzo si attiva la produzione dei mitici ”armadi” (le centraline elettroniche). «Noi sindacati eravamo invece per gli americani - ricorda Gianni Di Cesare, ex segretario della Fiom dell’Aquila e poi della Cgil cittadina - che in Europa ci sarebbe stato posto al massimo per due produttori nell’elettronica, era per questo che la Siemens voleva l’Italtel». È l’inizio della fine, per L’Aquila (e non solo) proprio mentre si apre l’era della tecnologia: le partecipazioni statali si ritirano, l’Iri crolla, la Stet vende l’Italtel che viene acquisita da Siemens. La quale vende alla multinazionale americana Flextronics. Nuova girandola e, dopo due anni, Flextronics rivende alla italiana Finmek, assistita da Sviluppo Italia. Il pout pourrì di aziende ed azienduole (si è arrivati ad una quindicina) va a male ed anche la Finmek si rivela un flop.