LA MORTE DI GUIDO POLIDORO
«Tu non devi pensare: qui l’unico pagato per pensare sono io». Il tono era gentile ma la sostanza inequivocabile tanto da intimidirti davvero, a volte, i pensieri. Che oggi, confusi in un vuoto incolmabile, sono come narcotizzati.
Guido Polidoro era un Maestro. Di giornalismo e di vita. Quando sei anni fa, per le spietate ragioni del mercato, con un semplice fax fu collocato anticipatamente in pensione a 55 anni, «l’ultimo dei miei allievi» (come lui amava chiamare chi scrive, ”promosso” dopo il primo incarico: andare a comprare le sigarette al Capo) gli inviò una lettera: «I maestri non vanno in pensione». La risposta fu inconfondibile in una missiva[1] che, oggi, suona quasi come un testamento morale.
Guido era nato maestro, maestro di scuola elementare. E spesso, con ironia, ricordava la sua prima professione esercitata fino al 1961, quando, dopo l’esordio al Tempo di Chieti, entrò al Messaggero sempre nella redazione chietina. E da allora fu sempre ”il Capo”. Nelle redazioni di Avezzano, Rieti, Teramo e, quindi, alla fine degli anni Sessanta, all’Aquila dove venti anni dopo, nel 1987, fu promosso coordinatore regionale. Dal ‘92 affiancò Paolo Gambescia alla guida della redazione regionale di Pescara. Nel ‘94 il fulmine a ciel sereno per lui e per tutta la ”vecchia” guardia: il prepensionamento. Sopportò in silenzio rimanendo comunque, fino all’ultimo, nella professione attiva. Professione cui ha offerto il suo impegno negli organi di tutela della categoria quale l’Ordine dei giornalisti abruzzesi ed il Gruppo stampa regionale di cui è stato fondatore e presidente.
Un maestro. Non a caso il suo maggior vanto (e come ci teneva!) era quello di «aver lasciato in eredità» una nidiata di pulcini ai quali, ormai, erano cresciute le ali. D’altra parte, sarebbe stato impossibile non mettere a frutto le sue lezioni quotidiane in una redazione trasformata spesso in salotto culturale per il costante pellegrinaggio di chi veniva a trovare “il Capo” per un consiglio, una ”benedizione”, una chiacchierata. Proverbiali le sue battaglie sulle colonne del giornale: storica è rimasta quella, sul fine degli anni Ottanta, contro la realizzazione del megaparcheggio di Collemaggio; dopo 13 anni, l’attivazione della struttura è ancora lontana. Spiccato era il suo senso della notizia. Enciclopedica la conoscenza del “suo” Abruzzo. Granitica la sua autorevolezza nel “Palazzo”. Per i colleghi era una sicurezza: «Chiedi a Polidoro, lui di sicuro lo sa». E molti, anche quando è andato via, hanno continuato a chiedergli pareri e consigli.
Addio, Capo. So già che questo ricordo avrebbe subìto la scure della matita rossa e blu: «Ecco, come sempre, hai pensato troppo».
Guido Polidoro era un Maestro. Di giornalismo e di vita. Quando sei anni fa, per le spietate ragioni del mercato, con un semplice fax fu collocato anticipatamente in pensione a 55 anni, «l’ultimo dei miei allievi» (come lui amava chiamare chi scrive, ”promosso” dopo il primo incarico: andare a comprare le sigarette al Capo) gli inviò una lettera: «I maestri non vanno in pensione». La risposta fu inconfondibile in una missiva[1] che, oggi, suona quasi come un testamento morale.
Guido era nato maestro, maestro di scuola elementare. E spesso, con ironia, ricordava la sua prima professione esercitata fino al 1961, quando, dopo l’esordio al Tempo di Chieti, entrò al Messaggero sempre nella redazione chietina. E da allora fu sempre ”il Capo”. Nelle redazioni di Avezzano, Rieti, Teramo e, quindi, alla fine degli anni Sessanta, all’Aquila dove venti anni dopo, nel 1987, fu promosso coordinatore regionale. Dal ‘92 affiancò Paolo Gambescia alla guida della redazione regionale di Pescara. Nel ‘94 il fulmine a ciel sereno per lui e per tutta la ”vecchia” guardia: il prepensionamento. Sopportò in silenzio rimanendo comunque, fino all’ultimo, nella professione attiva. Professione cui ha offerto il suo impegno negli organi di tutela della categoria quale l’Ordine dei giornalisti abruzzesi ed il Gruppo stampa regionale di cui è stato fondatore e presidente.
Un maestro. Non a caso il suo maggior vanto (e come ci teneva!) era quello di «aver lasciato in eredità» una nidiata di pulcini ai quali, ormai, erano cresciute le ali. D’altra parte, sarebbe stato impossibile non mettere a frutto le sue lezioni quotidiane in una redazione trasformata spesso in salotto culturale per il costante pellegrinaggio di chi veniva a trovare “il Capo” per un consiglio, una ”benedizione”, una chiacchierata. Proverbiali le sue battaglie sulle colonne del giornale: storica è rimasta quella, sul fine degli anni Ottanta, contro la realizzazione del megaparcheggio di Collemaggio; dopo 13 anni, l’attivazione della struttura è ancora lontana. Spiccato era il suo senso della notizia. Enciclopedica la conoscenza del “suo” Abruzzo. Granitica la sua autorevolezza nel “Palazzo”. Per i colleghi era una sicurezza: «Chiedi a Polidoro, lui di sicuro lo sa». E molti, anche quando è andato via, hanno continuato a chiedergli pareri e consigli.
Addio, Capo. So già che questo ricordo avrebbe subìto la scure della matita rossa e blu: «Ecco, come sempre, hai pensato troppo».