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UN’INTERA FAMIGLIA ACCUSATA DI OMICIDIO



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L’AQUILA - Una storia d’altri tempi, di quando molti si facevano giustizia da soli con l’appoggio dalla propria famiglia, del proprio ”clan”. È la storia della faida avvenuta il 29 settembre 1988 a Casali d’Aschi, una borgata della Marsica, tra la famiglia dei Mari e quella dei D.S.. Nell’ennesimo litigio tra i due clan, i Mari hanno perduto il loro capofamiglia, Attilio, di 65 anni, morto accoltellato, e rischiato di perdere un giovane membro, Ersilio, di 35, ferito gravemente; i D.S., invece, non hanno subito ”perdite” ma rimarranno ”segnati” da questa assurda vicenda per tutta la vita. Dal 29 settembre Armando D.S., di 63 anni, pastore, sua moglie Maria G., di 55, casalinga, e i due figli Pietro, 34 anni, ingegnere e insegnante, e Tonino, di 24, geometra, sono in carcere con la pesante accusa di omicidio volontario premeditato. Per loro, comunque andrà il processo che prende avvio stamattina davanti alla Corte d’Assise dell’Aquila, l’aver vinto la faida sul campo significherà, probabilmente, aver perduto per tutta la vita.

Ad uccidere Attilio Mari, secondo il magistrato che ha condotto le indagini, il sostituto procuratore della Repubblica di Avezzano, Mario Pinelli, furono tutti e quattro i Di Salvatore, non solo il ”capofamiglia” Armando che fin dalla sera stessa, si è autoaccusato dell’omicidio. I quattro, secondo la ricostruzione fatta del magistrato, quella sera si recarono in casa Mari con l’intenzione di vendicarsi dell’aggressione che aveva dovuto subire Armando nel pomeriggio. Qualche ora prima infatti, Attilio Mari e suo figlio Ersilio avevano saputo che il piccolo gregge (una decina di pecore) dei D.S. aveva ”scapotato”, era cioè sconfinato pascolando in un terreno di loro proprietà coltivato a erba medica; perciò avevano raggiunto il pastore e certo non si erano fermati alle parole, approfittando anche della loro superiorità fisica. Rientrato a casa malconcio e sanguinante, i quattro D.S., sempre secondo l’accusa, avrebbero organizzato la ”spedizione punitiva”. Il più giovane Tonino avrebbe tirato un sasso rompendo una finestra della casa dei Mari per far uscire allo scoperto qualcuno. Una volta uscito Attilio Mari e il figlio Ersilio, si sarebbe compiuta l’aggressione. Con la partecipazione di tutti secondo il Pm Pinelli che non ha ritenuto nemmeno chiedere la formalizzazione dell’istruttoria chiudendo l’inchiesta ”sommaria” in poco più di un mese col rinvio a giudizio dei quattro.

Fin qui l’accusa. Ma c’è stata davvero premeditazione? Che ruolo hanno avuto i quattro nell’aggressione? Chi ha inferto a Attilio Mari con un coltello il colpo mortale che secondo la perizia medico-legale sembra essere stato quello che dal torace ha trafitto il cuore? Chi ha colpito la vittima al capo producendogli una ferita, sicuramente non da coltello, molto simile a quelle provocate da un colpo di mannaia? Quanti coltelli sono stati usati per colpire a morte Attilio Mari e ferire suo figlio Ersilio? Sono questi i principali interrogativi a cui dovrà rispondere la Corte d’Assise dell’Aquila (Villani presidente, Cappa a latere più sei giudici popolari). Un compito non facile ed importante soprattutto nella considerazione delle conseguenze del processo sui D.S.: con la premeditazione si rischia l’ergastolo.

Armando D.S. si è accusato di tutto, escludendo gli altri tre. Soprattutto il figlio Pietro, laureato in Ingegneria e insegnante all’Istituto tecnico commerciale di Avezzano, il quale si è sempre dichiarato estraneo ai fatti, anzi avrebbe cercato di distogliere il padre e quindi di dividerlo mentre è entrato in colluttazione con i Mari. Avrebbe anche scritto una lettera dal carcere per ribadire la propria innocenza. Il ”capofamiglia” avrebbe anche cercato di scagionare da ogni eventuale partecipazione alla spedizione punitiva la moglie. Ma sui due coniugi pesano alcuni precedenti penali (anche per rissa, violazione di domicilio e lesioni) ma tutta la famiglia D.S. è nota per la sua indole violenta. Su di loro pesano anche i racconti di alcuni testimoni presenti sul posto quella sera a cui il magistrato deve aver dato credito se è vero, come è vero, che ha sempre rigettato le istanze di rimessione in libertà presentate dai difensori dei quattro.

La difesa appunto. Padre e due figli saranno difesi dagli avvocati Enzo Gaito del foro di Roma e da Bernardino Marinucci dell’Aquila; la Garofali sarà invece assistita da Ferdinando Margutti e dall’avvocato Callisto Terra di Avezzano: nello studio di quest’ultimo Armando Di Salvatore e i suoi due figli furono rintracciati dai carabinieri ed arrestati la sera del delitto. Contro di loro le parti civili: i due figli della vittima, Ersilio e Enzo (avvocato Cesidio Di Salvatore) e la moglie di Attilio Mari, tra l’altro cugina della G., Maria D.I. (avvocato Alcide Lucci).

NOTA: Per una sorta di "diritto all'oblio", sono omesse le complete generalità di alcuni protagonisti che, d'altra parte, non aggiungerebbero nulla al dramma e che, peraltro, sono pubblicate nella versione originale cartacea facilmente consultabile nelle pubbliche emeroteche.