CONDANNA BIS (21 ANNI) ALL’OMICIDA DI GALLUCCI
L’AQUILA - Il suo pentimento non ha intenerito i giudici. Mario C., l’uomo che il primo luglio dell’87, uccise a Collemarcone, una contrada del Comune di Bucchianico (Chieti), il ventiseienne agente di polizia Domenico Gallucci, ha cercato ieri mattina, forse con sincerità, di farsi compatire dalla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila: s’è presentato in barella proveniente dalla casa di reclusione per minorati fisici di Parma, senza parenti a confortarlo, senza avvocato difensore e senza la forza di dichiarare il suo pentimento.
L’ha scritto in una lettera: «...avrei meritato la più pesante delle condanne, anche la pena di morte se esistesse, per aver ucciso un mio simile. Ma sono rimasto crocefisso, paralizzato a vita, da un’azione della cui gravità, sul momento, non mi sono reso conto a causa dell’alcool. Chiedo perdono... Sono povero, non ho nemmeno un avvocato...»
Non gli ha creduto nessuno: la Corte, dopo appena mezz’ora di camera di consiglio, ha confermato la sentenza emessa, in primo grado, il 9 giugno scorso, dalla Corte di Assise di Chieti, condannando C., 53 anni, a 21 anni di carcere e rigettando l’istanza di concessione degli arresti domiciliari. Anzi, questo suo atteggiamento aveva inasprito sia la pubblica accusa (il Pg Iadecola), sia i rappresentanti delle parti civili, gli avvocati Giancarlo Carlone (per la vedova Norma D.L. e i due figli minori dell’agente) e Giuseppe Di Bartolomeo (per i genitori della vittima). Un pentimento quanto meno strumentale avevano fatto notare ai giudici le parti civili che hanno dichiarato di insistere nella loro costituzione non per il risarcimento («nessuna somma di denaro farebbe rivivere un giovane padre»), ma per salvaguardate la memoria di un uomo caduto sul lavoro, vittima di una stupida ed inutile violenza. Memoria, a giudizio dei i familiari, «infangata» dalla tesi sostenuta nei motivi d’appello dall’avvocato di fiducia di Capitanio, Carlo De Virgilis (a cui ieri si è richiamato l’avvocato d’ufficio, Gaetano Bellisari) secondo la quale l’imputato avrebbe agito in stato di legittima difesa «putativa», cioè sentendosi in pericolo, minacciato dalle pistole dei due agenti intervenuti a sedare la violenta lite.
La Corte d’Appello, nella sua veloce conferma, non deve aver preso in considerazione questa tesi, accettando la valutazione fatta dai giudici dell’Assise chietina, secondo i quali, Capitanio, capace di intendere e di volere nonostante l’ebbrezza, non fu minaccciato. Quando i due agenti della pattuglia del ”113”, il povero Gallucci e Ivan F., arrivarono nell’abitazione del piccolo imprenditore edile, «gran lavoratore ma soggetto di indole violenta e irascibile», cercarono soltanto di far tornare alla ragione C..
L’ha scritto in una lettera: «...avrei meritato la più pesante delle condanne, anche la pena di morte se esistesse, per aver ucciso un mio simile. Ma sono rimasto crocefisso, paralizzato a vita, da un’azione della cui gravità, sul momento, non mi sono reso conto a causa dell’alcool. Chiedo perdono... Sono povero, non ho nemmeno un avvocato...»
Non gli ha creduto nessuno: la Corte, dopo appena mezz’ora di camera di consiglio, ha confermato la sentenza emessa, in primo grado, il 9 giugno scorso, dalla Corte di Assise di Chieti, condannando C., 53 anni, a 21 anni di carcere e rigettando l’istanza di concessione degli arresti domiciliari. Anzi, questo suo atteggiamento aveva inasprito sia la pubblica accusa (il Pg Iadecola), sia i rappresentanti delle parti civili, gli avvocati Giancarlo Carlone (per la vedova Norma D.L. e i due figli minori dell’agente) e Giuseppe Di Bartolomeo (per i genitori della vittima). Un pentimento quanto meno strumentale avevano fatto notare ai giudici le parti civili che hanno dichiarato di insistere nella loro costituzione non per il risarcimento («nessuna somma di denaro farebbe rivivere un giovane padre»), ma per salvaguardate la memoria di un uomo caduto sul lavoro, vittima di una stupida ed inutile violenza. Memoria, a giudizio dei i familiari, «infangata» dalla tesi sostenuta nei motivi d’appello dall’avvocato di fiducia di Capitanio, Carlo De Virgilis (a cui ieri si è richiamato l’avvocato d’ufficio, Gaetano Bellisari) secondo la quale l’imputato avrebbe agito in stato di legittima difesa «putativa», cioè sentendosi in pericolo, minacciato dalle pistole dei due agenti intervenuti a sedare la violenta lite.
La Corte d’Appello, nella sua veloce conferma, non deve aver preso in considerazione questa tesi, accettando la valutazione fatta dai giudici dell’Assise chietina, secondo i quali, Capitanio, capace di intendere e di volere nonostante l’ebbrezza, non fu minaccciato. Quando i due agenti della pattuglia del ”113”, il povero Gallucci e Ivan F., arrivarono nell’abitazione del piccolo imprenditore edile, «gran lavoratore ma soggetto di indole violenta e irascibile», cercarono soltanto di far tornare alla ragione C..
NOTA: Per una sorta di "diritto all'oblio", sono omesse le complete generalità di alcuni protagonisti che, d'altra parte, non aggiungerebbero nulla al dramma e che, peraltro, sono pubblicate nella versione originale cartacea facilmente consultabile nelle pubbliche emeroteche.