Il Brigantaggio nell'Aquilano
PREMESSA
Ecco quindi che ci apprestiamo a trattare questo problema. Fenomeno politico? No di certo! Fenomeno sociale? Molto probabilmente. Ed infatti proprio sulle cause che spinsero la povera gente della nostra zona a costituirsi in bande di briganti o pseudo tali, abbiamo rivolto la nostra attenzione, non tralasciando però di cercare documenti riguardanti i vari "Zeppetella", Viola, etc., insomma quei nomi che sono stati consacrati dalla tradizione popolare nella nostra zona.
E' chiaro però che essendo questo del brigantaggio nell'Aquilano solo un marginale aspetto di quel fenomeno di vaste proporzioni che riguardò tutta l'Italia meridionale, cioè il brigantaggio, non potevamo non occuparci di questo fenomeno in generale, ecco il perchè della prime parte di questa trattazione.
PRIMA PARTE
IL FENOMENO DEL BRIGANTAGGIO NELLE PROVINCE MERIDIONALI
"Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani". Con questa emblematica frase del D'Azeglio possiamo iniziare la trattazione in generale su cosa rappresentò il brigantaggio nell'Italia meridionale negli anni immediatamente successivi all'unificazione della nostra Penisola.
La maggior parte dei critici che si sono occupati di questo problema è più o meno concorde nell'affermare che nonostante il brigantaggio affondi le sue radici molto più indietro dal 1861 nonostante esso sia stato causato da tanti fattori che già sussistevano nell'Italia Meridionale ancor prima dell'unificazione. Questa del brigantaggio fu una malattia che si aggiunse ad altre malattie; e come un'infezione scoppia per un semplice colpo di freddo, così il brigantaggio scoppiò per tutti quei problemi che l'unificazione d'Italia comportò.
Innanzitutto la proclamazione del Regno d'Italia del 1861 non poteva identificarsi con la soluzione del problema della unità d'Italia. Questo di unificazione, non possiamo negarlo, fu nella sua sostanza un processo elitario, di Casa Savoia insomma, una questione cioè che riguardava il Piemonte desideroso di annettersi tutto il resto della penisola. Questa nobile idea di un'Italia unita, per la quale tanti alti spiriti avevano combattuto doveva essere portata al livello di esperienza vissuta, era necessario cioè passare dalla teoria alla pratica.
E questo passaggio in tutti i campi, non è mai stato facile; tanto più in quel momento in cui l'Italia perdette l'unico suo figlio che avrebbe reso questo passaggio più facile: il 6 giugno del l861 moriva infatti il Conte di Cavour.
Passato lo slancio patriottico, gli "Italiani" dovettero rendersi conto che ormai si erano quasi assuefatti all'idea di far parte di un mosaico di stati, tanto è vero che addirittura il sistema di pesi e misure era diverso da stato a stato e i dialetti erano vere e proprie lingue nazionali che non permettevano la completa comprensione tra un italiano del nord ed un italiano del sud.
Di ciò dovettero rendersi conto i successori di Cavour, la Destra, che decise di rimboccarsi le maniche e cominciare ad attuare dei programmi che avrebbero reso questa unità non più un'esigenza di pochi eletti, ma di tutti gli Italiani. E così nell'ansia di caratterizzare l'Italia unita, la Destra, certamente in buona fede, decise di estendere le leggi del Regno del Piemonte a tutta la penisola cercando di creare un comune denominatore. Ma purtroppo se alcuni ordinamenti potevano andar bene per il piccolo e compatto Regno del Piemonte, non era così per il resto dell'Italia, abbastanza grande e per nulla compatta. Ad esempio lo Statuto Albertino concedeva il diritto di voto soltanto a chi avesse un determinato reddito, e tale disposizione poteva andare bene per il ricco Piemonte, ma non per tutta l'Italia dove tale provvedimento portò alle urne solo il 2% dell'intera popolazione; inoltre il fatto che vi fosse un così modesto numero di elettori faceva sì che nel Parlamento i deputati fossero l'espressione di una particolare classe sociale, cioè la borghesia, proveniente tutta dallo stesso a ceto e quindi espressione dei propri interessi e dei propri problemi, senza che vi fosse un'opposizione, vista appunto la comunanza di interessi.
Figuriamoci, quindi, la rabbia delle masse popolari meridionali, le quali dopo aver votato per l'unità, ora erano escluse al diritto di voto e come se non bastasse dovevano subire le bizze di un governo estraneo e straniero che, sostituendosi alle vecchie istituzioni non aveva apportato nessun vantaggio, anzi aveva aggravato la condizione contadina. Infatti l'estensione delle leggi piemontesi prevedeva anche la applicazione delle leggi Siccardi, cioè la soppressione di tutti i beni ecclesiastici, molto estesi nel Sud; i contadini meridionali sperarono di ottenere delle terre, ma a loro non andò nulla, poichè il governo, bisognoso di soldi, vendette queste terre in grossi lotti e quindi ai grossi proprietari terrieri. Non possiamo certo accusare di questo il governo, poichè probabilmente le terre meridionali, ripartite in piccoli appezzamenti, non avrebbero apportato grossi vantaggi, ma certo si sarebbero potute costituire delle cooperative tra i vari contadini: il governo preferì la strada più redditizia e sbrigativa, vendendo questi grandi appezzamenti al migliore offerente, facendo salire il malcontento delle regioni del Sud, poichè ora, ai benevoli parroci si erano sostituiti gli assillanti e pretenziosi proprietari borghesi, e incrementando il latifondo.
E se a tutto ciò aggiungiamo che altro motivo di profondo malcontento per le popolazioni meridionali veniva paradossalmente dalla efficienza del nuovo governo, visto che l'"ancien regime" non dava nulla, ma non chiedeva nemmeno nulla, e visto che invece alla monarchia borbonica, che era lieve nella tasse e che permetteva il pascolo o il tagliar legna dovunque, si sostituisce il governo piemontese e nelle campagne comincia ad apparire la figura dell'esattore delle tasse, della guardia campestre e del carabiniere; se a tutto ciò aggiungiamo l'imposizione della coscrizione obbligatoria che sembrò fatta apposta per opprimere di più la povera gente meridionale che doveva privarsi di braccia forti utilissime per il lavoro dei campi; e se aggiungiamo ancora una legge sull'istruzione obbligatoria (legge Coppino) indubbiamente ben pensata, ma un po' astratta dalla realtà, che per i contadini aveva come unica funzione quella di togliere altre braccia dalla terra, possiamo capire facilmente come fosse quasi inevitabile l'esplosione di una rivoluzione armata proprio come Mazzini l'aveva sognata, però questa volta contro l'Italia e non per l'Italia. Fu sì una selvaggia reazione, ma non certo gratuita, ed il governo dovette subito accorgersi della sua gravità e cercò di provvedere (vedi parte dedicata alle leggi eccezionali), ma non potè evitare lo scontro militare, anche perchè, almeno in un primo momento, soffiò su questa su questa spontanea reazione di popolo sia la Chiesa sia il decaduto governo borbonico, la prima nel suo tentativo di disturbare in ogni modo lo Stato italiano, il secondo nel suo intento di tornare sul trono.
Il brigantaggio fu quindi nel suo insieme un fenomeno politico; ma questo carattere politico dobbiamo riferirlo a quello che fu il "grande" brigantaggio, quello, cioé, organizzato in bande addirittura di duemila uomini, con a capo ex ufficiali borbonici, ogni componente delle quali portava un anello indicante il suo grado (vedi parte dedicata all'organizzazione delle bande), mentre invece il brigantaggio "minore" ebbe un carattere essenzialmente sociale, le cui cause, come abbiamo già detto, risalgono ancora più indietro del 1861.
E' il caso, questo, del brigantaggio nell'Aquilano, una propaggine sociale del brigantaggio politico, ed ecco perchè tratteremo anche del brigantaggio nell'Aquilano riguardante gli anni prima dell'unità d'Italia (vedi parte riguardante i primordi del brigantaggio nell'Aquilano).
Ci fornisce un valido aiuto per procedere lungo questa linea l'opera di Cesare Cesari: "Il brigantaggio e l'opera dell'esercito italiano dal 1860 al 1870". Il critico, molto opportunamente, sottolinea il momento storico che caratterizza e, in un certo qual modo, origine tale fenomeno: si è da poco raggiunta l'unità politica in Italia, ma i rapporti con la Santa Sede non sono dei migliori, tanto più che Francesco II, il deposto sovrano del regno delle Due Sicilie, con tutta la corte era ospite proprio del Papa presso Palazzo Farnese; il Re da lì dirigeva quel movimento reazionario che ostacolava l'opera di unificazione del paese; l'operato delle prime bande ebbe dunque un carattere reazionario, insurrezionale ed antiunitario, mentre poi venne pian piano perdendo ogni forma politica.
La venuta dei Piemontesi nel 1861 appariva dunque alle popolazioni del Sud come un altro atto di usurpazione; esse non si aspettano altro che nuove persecuzioni e sfruttamenti e l'unica forma di difesa e di reazione non potè che essere la rivolta illegittima, ma con il libero arbitrio di fare nuove leggi in opposizione a quelle del nuovo governo.
E tutti costoro che si davano alla macchia, i briganti per intenderci, godevano anche dei favori del popolo che vedeva in loro non dei sobillatori dell'ordine, ma una specie di milizia proletaria che difendeva le antiche istituzioni e che, con i suoi eroismi, le sue sofferenze, era degna di essere aiutata e sorretta materialmente e moralmente. Inoltre questa nuova "occupazione" dei Piemontesi alimentava, per altro giustificatamente, i timori delle cessate autorità locali visto che la maggior parte di esse si preoccupava di perdere con l'impiego anche i benefici; e si temeva altresì che il nuovo governo non corrispondesse ai bisogni locali e che le nuove autorità per imporre a tutti i costi le leggi del nuovo governo, dovessero ricorrere a forme di violenza, istituendo per esempio i famigerati tribunali militari invece di opere sociali. E tale timore era senza dubbio fondato tanto che l'errata politica del nuovo Stato, aggiunta ai preconcetti delle popolazioni meridionali, fornì il fianco destro alla costituzione della reazione. Infatti le nuove leggi, a dir la verità male preparate, i nuovi prefetti, il nuovo dominio piemontese insomma, finirono per cozzare violentemente contro quelle consuetudini alle quali tutti, dai più poveri ai più abbienti, si erano assuefatti sotto il Regno Borbonico.
Un'altra motivazione che fornì la composizione del brigantaggio arrivò da un palese errore del nostro Governo che troppo frettolosamente sciolse l'esercito borbonico; i componenti dell'ex forza militare di Francesco II disoccupati, ridotti in miseria, e che di ciò accusavano naturalmente i Piemontesi, trovarono facile occupazione arruolandosi nelle bande, nelle quali, un po' coi denari che almeno nei primi tempi venivano da Roma, un po' con le rapine, avrebbero risolto la questione del vivere per se stessi e per le loro famiglie.
Dicevamo dunque che la reazione era guidata da uomini di alto rango fedeli alla corona borbonica; furono principalmente i fratelli di Ferdinando II, morto nel l859, a cospirare sempre in favore della reazione, continuando a vivere a Napoli; fecero eccezione solamente il conte di Siracusa ed il Conte dell'Aquila. Comportamento questo importante dal punto di vista storico che avremo modo di spiegare avanti, quando tratteremo della reazione nell'Aquilano.
I piani insurrezionali che vennero escogitati furono parecchi e, fra questi, due avevano qualche fondamento di serietà. Il primo porta la data del novembre 1861, il secondo dell'agosto l862: nel primo si trattava di affidare a cinque briganti, Chiavone, Cetrone, Falsa, Capoccia e Pischitiello, la formazione di altrettante bande; esse si vennero a costituire come un vero e proprio esercito, con arruolamenti e paghe, per adempiere a questi compiti s'impiantarono quattro uffici: a Roma, a Velletri, ad Anagni, ed un altro nel convento degli Scifelli. In quest'ultimo si formò la banda Chiavone.
Quello dell'agosto 1862 prevedeva, invece, un'azione che si doveva svolgere contro Avezzano, richiamando lì le forze italiane dislocate a Tagliacozzo e nel Cicolano, in modo da creare dei varchi al confine, per uno dei quali sarebbe passato Francesco II nel rientrare trionfalmente a Napoli e sollevare le popolazioni. Il movimento nella città partenopea sarebbe dovuto scoppiare fra li 28 ed il 29 agosto 1862. La trama però era già stata segnalata alle autorità italiane e le notizie in proposito indicavano anche un concentramento di un migliaio di briganti che, agli ordini del marchese di Orsogna, sarebbero avanzati su Atessa e Lanciano, qualora non fosse riuscito il piano contro Avezzano. Oltre alle citate bande Chiavone, Falsa etc, composte e comandate da elementi indigeni, e che perciò conoscevano molto bene i territori sui quali agivano (che erano praticamente inaccessibili per coloro che non li avevano mai visti), se ne fermarono altre composte di forestieri, principalmente spagnoli, quasi senza dubbio invitati dalla corte borbonica a venire in Italia.
Tra queste sicuramente la più famosa fu quella comandata dal catalano don Josè Borjas. Convinto di difendere una giusta causa, Josè Borjas si imbarcò, con alcuni suoi compagni, a Barcellona per sbarcare a Gerace (Calabria) il 13 settembre 1862. Attraversata la Calabria e la Basilicata, arrivò in in Abruzzo; al suo passaggio chiamava a raccolta i popoli dell'ex regno delle Due Sicilie, promettendo ad essi la libertà se lo avessero aiutato in quelle che lui riteneva una missione.
Ma le popolazioni del nostro Sud, benchè continuassero a non vedere di buon occhio il nuovo governo, le nuove amministrazioni, le nuove leggi tuttavia si dimostrarono poco propense ad aiutare il pur generoso tentativo della banda spagnola, non confidando forse, nè nelle promesse, nè nell'operato di una banda straniera.
Borja, dunque, giunse in Abruzzo senza che attorno a lui si fosse pronunciata quella rivoluzione che credeva generale, anche se non smise di credervi. Il suo, così, restò solo un sogno: sogno che peraltro si interruppe tragicamente per lui e per i suoi neanche tre mesi dopo la sua venuta in Italia. Il 7 dicembre 1852 nei pressi di Scurcola, mentre era in escursione con ventiquattro uomini a cavallo fu circondato da un drappello di soldati Piemontesi. Infatti la notizia della sua presenza nelle Marsica aveva raggiunto il sottoprefetto di Avezzano, che l'aveva subito telegrafata al maggiore Franchini, comandante del Primo battaglione bersaglieri di stanza a Tagliacozzo. Anche se riuscì a riparare in un casolare, Borjas, dopo breve resistenza offerta con la sua banda ormai decimata, si arrese e fu fucilato assieme ai suoi compagni l'8 dicembre 1862.
Riguardo al sostegno dell'autorità pontificia abbiamo una testimonianza del brigante Pasquale Forgioni, il quale, arrestato nel febbraio 1863, disse : " Noi combattiamo per le Fede e siamo benedetti dal Papa; chi combatte per la Santa Causa del Papa e di Francesco II non commette peccato". Anche sul piano religioso la Chiesa stessa sostenne la causa del deposto sovrano con la pubblicazione del Sillabo, col ripristino dell'obolo di S.Pietro e l'autorizzazione alla vendita dei beni ecclesiastici per evitare il trasferimento al Demanio dello Stato.
Potrebbe essere interessante, a questo punto della trattazione, passare brevemente in rassegna i caratteri esteriori del brigantaggio e cioè più in particolare l'organizzazione delle bande, la forza, l'armamento, l'equipaggiamento e le modalità d'azione.
Le grosse bande assunsero una struttura spiccatamente militare, e spesso la presenza di ex ufficiali o militari consentì di trasformare formazioni raccogliticce in unità compatte, le quali avevano basi disseminate su un vasto territorio. Il comando era assunto dall'elemento più autorevole ed energico che emergeva per coraggio e prestigio personale; alla sue dipendenze c'erano vari luogotenenti. Esistevano formazioni autonome minori che perseguivano obiettivi più limitati e si univano in caso di bisogno a quelle più grandi. Favoreggiatori mantenevano contatti tra bande e popolazioni e provvedevano ai rifornimenti. Informatori erano pronti a far trapelare notizie utili dagli uffici militari. Ai capi erano attribuiti, con investitura, gradi e qualifiche di comando consistenti in anelli e bottoni come segni di riconoscimento: Su briganti morti furono anche ritrovati anelli di zinco col grado ed il ruolo nell'esercito borbonico e piastre con l'effige di Francesco II.
I nuovi affiliati pronunciavano un solenne giuramento che qui riportiamo: " Noi giuriamo dinanzi a Dio e dinanzi al mondo intero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre) e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al ritorno del suo Regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini a tutti i comandi che verranno sia direttamente da lui sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto affinché la giusta causa voluta da Dio che è regolatore dei sovrani trionfi col ritorno di Francesco II. Re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli dei perversi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo anche con l'aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo.
Fondi furono messi a disposizione da Francesco II, ma le bande furono autorizzate a prelevare "manu militari" denaro ed altri mezzi specie ad esponenti liberali. Le bande erano riconosciute come reparti del disciolto Esercito Napoletano, e in combattimento innalzavano la bandiera bianca dei Borboni e cantavano inni del passato regime; nei giorni di festa seguivano la messa e concludevano con la preghiera "oremus pro rege Francesco".
b) Forza, armamento ed equipaggiamento
Alcune bande superarono i 1.000 uomini, anzi le grosse bande avevano reparti di cavalleria e a piedi, e addirittura cannoni di ferro fuso. L'armamento era vario ed era il più delle volte materiale di preda bellica, consistente nella doppietta a schioppo ad una canna a cui si aggiungeva una o due pistole alla cintura, bandoliera con cartucciera, armi bianche. I capi avevano carabina a percussione e revolver, sciabola e baionetta. Il vestiario era in linea di massima; calzoni corti e giubbetto e giubbetto, mantellina corta secondo il costume dei contadini del luogo, cappello a punta, calzari adatti ad ogni luogo; le cioce.
Distintivo unico la coccarda rossa al cappello. Per il munizionamento esistevano nell'Abruzzo Citeriore Secondo alcune fabbriche a livello artigianale per le esigenze delle bande locali. La disciplina era ferrea e mantenuta dai capi con punizioni esemplari.
c) Modalità d'azione
I sistemi erano quelli della guerriglia classica: colpire il nemico dove è più debole, ricercare la sorpresa, condurre l'azione con rapidità, violenza e spregiudicatezza, sfruttando le condizioni favorevoli del terreno. L'attacco aveva pressappoco un tale svolgimento: assalto su due diversi capi della colonna utilizzazione di complici (tra i quali specialmente donne) che spacciandosi per contadini davano indicazioni errate alle colonne degli eserciti, facendoli così dirigere nel luogo dell'agguato; utilizzazione di segnali di fumo per indicare l'arrivo o gli spostamenti delle colonne degli eserciti; scelta dei luoghi che permettevano una agevole ritirata in caso di fallimento dell'agguato.
Azioni caratteristiche delle bande furono attacchi a diligenze e corriere, imboscate a piccoli distaccamenti, attentati, sabotaggi, devastazioni e saccheggi di masserie e proprietà private, requisizione di bestiame, invasioni di paesi, devastazione delle case dei liberali. L'azione era improntata su grande mobilità e favorita dalla conoscenza dei luoghi. Ripiegavano poi nei boschi.
In marcia le grosse bande procedevano con un'avanguardia e con una retroguardia, e, se si decideva per un attacco contro colonne in movimento, l'azione consisteva in un assalto dimostrativo di sorpresa su un fianco ed un attacco principale in altra direzione.
Fra le modalità d'azione vanno segnalate le estorsioni o ricatti nei confronti di massari e proprietari terrieri per ottenere la consegna di somme elevate. Più aspre le vendette contro i liberali, guardie nazionali e delatori.
Quando i Piemontesi ripresero il controllo militare delle province del Sud, nella zona dell'aquilano si collocò il 72° reggimento che si segnalò per un vittorioso scontro sul monte Coppa; inoltre per controllare alcune delle città e dei territori, ritenuti ancora pericolosi nonostante ormai il problema del brigantaggio fosse stato risolto quasi del tutto, il governo di Torino decise di dividere tutto il Sud in zone e sottozone in ognuna della quali si stanziò un reggimento dell'esercito.
Contro le masse popolari che si muovevano in difesa delle loro tradizioni inevitabilmente si posero le forze che difendevano il nuovo governo; ma quest'ultimo per imporsi non seppe trovare altro mezzo che ricorrere all'uso della forza.
Tale impiego della forza, che in mancanza di meglio avrebbe almeno rivelato una decisione assoluta ed avrebbe troncato il male sul nascere, fu, per timore d'impopolarità, così meschino nei primi tempi della reazione che non tutelò neppure gli averi di coloro che si erano dimostrati ben disposti verso la causa italiana, cosicché non tardarono le proteste per l'aumento dei disordini e delle operazione dei briganti volte a colpire tutti i ricchi possidenti favorevoli a Casa Savoia. Lo Stato perse di autorità e di prestigio mentre i reazionari aumentavano la loro propaganda.
Possiamo aggiungere a questo giudizio del Cesari, che l'operato della controreazione fu, inoltre, incoerente perché solo quando ci si accorse che il fenomeno poteva assumere dimensioni preoccupanti si procedette con durezza; ma così si venne a colpire un brigantaggio già forte e non più allo stato iniziale.
Il fenomeno del brigantaggio aveva assunto proporzioni ormai insostenibili per il governo, ed allora cominciarono a levarsi voci di estrema preoccupazione in seno al governo stesso.
Come dice però Luigi Tuccari nella sua opera "Il brigantaggio nelle province meridionali" e precisamente nel capitolo riguardante proprio le leggi eccezionali, il governo fu restio a dar ascolto a quei deputati, in maggioranza meridionali, che denunciavano le gravi conseguenze che nelle loro terre stava provocando il brigantaggio. Questo atteggiamento del governo è facilmente comprensibile, visto che i deputati, nel denunciare la piaga del brigantaggio, risalivano in qualche modo alle cause e cioè alla eccessiva " piemotesizzazzione ", alla introduzione in blocco delle leggi del regno sardo, ai danni subiti dall'economia meridionale, per lo scioglimento dell'esercito napoletano e per la soppressione delle strutture autonome locali (Corte, ministeri, ambasciate); tutti argomenti insomma che indirettamente volevano dal colpa del fenomeno al governo stesso, il quale allora, per reazione, cercò di prendere tempo e di non prendere quei provvedimenti eccezionali che poi, nel bene e nel male, si riveleranno utili per schiacciare il brigantaggio.
Ma che la cosa fosse di estrema importanza, lo si vide subito dopo che Rattazzi aveva chiesto ed ottenuto una relazione sul brigantaggio da Lamarmora; considerata questa relazione troppo poco esauriente, e ritenuta troppo poco decisa la presa di posizione del deputato sopra citato, il governo, attaccato da vari settori della Camera, fu costretto a dimettersi, e fu sostituito l'8 dicembre 1862 dal ministro Farini.
In questa agitata atmosfera, il parlamento nominò un Comitato Segreto presieduto dal deputato meridionale Carlo Poerio, che fu incaricato di approfondire gli elementi contenuti nel rapporto Lamarmora; dalla discussione che ne seguì in aula, effettuata a "porte chiuse", si giunse alla nomina il 16 dicembre 1862 di una "Commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio" che in fondo ebbe il gravoso compito di risolvere una volta per tutte la complicata situazione.
La Commissione risultò composta da nove deputati di cui tre moderati (Massari, Morelli, Ciccone ), uno della destra ( Castagnola ), tre democratici ( Saffi, Romeo , Argentino ) , due generali garibaldini ( Sirtori e Nino Bixio ), con Sirtori alla presidenza e Massari segretario. Tale Commissione fece tutto il possibile, visitando le zone più infestate dal brigantaggio, interrogando funzionari, consiglieri provinciali, cittadini di ogni ceto e condizione, raccogliendo una vasta e minuziosa documentazione . La Commissione si dette estremamente da fare per cercare di accelerare il ritorno alla normalità delle condizioni nelle province meridionali e con procedura d'urgenza adottò provvedimenti come quello di invitare i prefetti a muovere una sottoscrizione in ciascuna provincia per la raccolta di fondi da destinare ai soccorsi per le popolazioni vittime del brigantaggio; inoltre promuoveva la formazione di squadre di volontari composte da persone conoscitrici ed esperte di singoli luoghi, cioè in pratica da elementi autoctoni.
Questa commissione (C.P.I.) concluse i suoi lavori nel maggio 1863: la relazione del Massari (una delle tante, ma considerata poi la base per le conclusioni della Commissione stessa ) cercò di far luce sulle cause del fenomeno, ed indicò quali motivi di tale scontento popolare i danni provocati dal servizio di leva secondo le leggi piemontesi, l'elevata pressione fiscale, l'attività degli agenti britannici e clericali. Naturalmente questa relazione si proponeva di additare dei rimedi che non dovevano essere limitati solo al,la repressione militare, ma che dovevano tendere a promuovere vasti programmi di lavori pubblici ( in particolare costruzioni stradali e ferrovie ), facilitazioni in maniera di credito agrario, diffusione dell'istruzione, ecc.
In ultimo la Commissione proponeva l'adozione di una legge repressiva di carattere eccezionale. Questa e le altre che seguirono, ebbero come comune denominatore la durezza, spiccava crudeltà dei loro articoli che prevedevano pene terribili anche per coloro che venivano semplicemente sospettati di essere complici della reazione armata.
Anche se in alcuni punti oseremo definirle spietate, queste disposizioni furono necessarie se si voleva mettere a tacere per sempre quanti tentavano con ogni mezzo, e in maniera per nulla sprovveduta, di verificare il duro e lungo lavoro di unificazione nazionale che allora era stata raggiunta almeno sul piano politico.
Dunque, in questa atmosfera e in questa latente esigenza di un provvedimento di carattere eccezionale, si tirò un sospiro di sollievo quando il 15 agosto 1863 il deputato aquilano Giovanni Pica presentò una severissima legge repressiva di carattere veramente eccezionale.
In pratica questa legge, che dal nome del deputato proponente prese il nome di Legge Pica, prevedeva che nelle province dichiarate "in stato di brigantaggio" si trasferisse la competenza a giudicare i briganti e i loro complici ai tribunali militari; inoltre prevedeva la immediata fucilazione per chi avesse opposto resistenza con le armi.
Sebbene alla Camera netta fosse l'opposizione dei democratici preoccupati di possibili strumentalizzazioni della stessa legge a loro danno, tutti ormai si erano convinti della validità ed utilità di tali provvedimenti eccezionali. Così la Legge Pica, la cui validità era stata limitata al 31 dicembre 1863, restò in vigore attraverso successive proroghe fino a dicembre 1865, anche se modificata in alcuni suoi articoli da un altro parlamentare, Ubaldo Peruzzi; nacque così la legge che porta il nome del suo ideatore e che fu approvata dal Parlamento il 15 ottobre 1863.
Il parlamento modificò ancora la Legge Peruzzi nel 1864, inasprendone alcuni articoli, e l'anno successivo, nel 1865, un decreto annullò tutte le leggi eccezionali, sostituendole4 con norme generali per eliminare gli ultimi resti del brigantaggio, credendo così di cancellare il ricordo della brutta piaga che in realtà esisteva ancora, attenuata sensibilmente, ma pur sempre serpeggiante in quasi tutte le province dell'Italia meridionale.
IL FENOMENO BRIGANTAGGIO NELL'ABRUZZO
La storia d'Abruzzo, come si è già detto, è sempre stata un susseguirsi di occupazioni violente ( barbari, normanni, svevi, angioini, aragonesi ); le popolazioni avevano sempre assistito inermi a tali avvenimenti, ma ora gli eventi del 1861/1862 non vengono più accettati con rassegnazione: il nuovo usurpatore, la nuova sopraffazione non possono più essere sopportati, occorre reagire e le masse contadine iniziano a muoversi. Gli Abruzzesi consideravano da sempre il Regno di Napoli come loro patria: così, ad esempio, i contadini teramani, pur di non votare al plebiscito di annessione al Piemonte, si ribellarono e si ritirarono in montagna, formando bande di briganti per evitare rappresaglie.
L'egoismo dei nuovi padroni e la loro arroganza, legittimate quasi dalla nuova amministrazione statale, davano l'idea di una violenza politica che si poteva solo eliminare con la reazione e la restaurazione dei Borboni. E' da considerare anche lo s stato di disagio in cui vennero a trovarsi soldati ed i capitani delle fortezze dell'Aquila, Civitella, Pescara; malvisti, derisi, maltrattati dai reparti dell'esercito italiano, essi infatti, piuttosto che sopportare quella situazione, preferivano aggregarsi alle bande dei briganti.
La causa più vera, è da ricercarsi nelle miserande condizioni dei contadini, perché con il loro ristretto salario quotidiano non riuscivano a garantirsi il minimo vitale; tributi nuovi, l'aumento del sale e del pane, l'elargizione pecuniaria da parte di elementi reazionari per ingrandire l'opposizione o comprare l'omertà, l'odio per il padrone, il disordine amministrativo, l'analfabetismo: ecco il quadro in cui si colloca naturalmente il brigantaggio.
Eppure Croce scrive: "...a conseguire il fine di migliorare le condizioni dei contadini sarebbe giovato adoperare i beni ecclesiastici, beni dei poveri da restituire ai poveri, e non lasciare invece che li divorassero impiegati e speculatori. Il clero ed il politico, ambo nemici del nuovo governo, e da questo resi solidali nell'avversione, sarebbero stati, in tal modo, divisi da interessi".
A verificare ulteriormente che il brigantaggio affonda le sue radici nell'estrema povertà della nostra Regione giova riportare la lettera di F.S. Sipari di Pescasseroli ai censuari del Tavoliere (Foggia 1863 ), lettera tratta dall'opera di Benedetto Croce "Storia del Regno di Napoli": "Le dirò, io nato e cresciuto tra essi. Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento: non possiede che un metro di terra comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha farmaci. Tutto ciò gli è stato rapito o dal prete al giaciglio di morte, o dal ladroneccio feudale, o dall'usura del proprietario, o dall'imposta del comune o dello stato. Il contadino non conosce né vivanda di carne, ma divora una poltiglia nominata di spelta, segale o melone, quando non si accomuna con le bestie a pascere le radici che gli dà la terra m matrigna a chi l'ama; il contadino robusto ed aitante, se non è accasciato dalle febbri, dell'aria, con sedici ore di fatica, riarso dal solleone, rivolta a punta di vanga due are di terra alla profondità di quaranta centimetri e guadagna ottantacinque centesimi, beninteso nelle sole giornate di lavoro, e quando non piove, non nevica, non annebbia.
Con questi ottantacinque centesimi, vegeta esso, il vecchio padre, invalido dalla fatica, e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie ed una nidiata di figli. Se gli manca per più giorni gli ottantacinque centesimi, il contadino, non possedendo nulla, nemmeno il credito, non avendo che portare all'usuraio o al monte di pegni, allora (oh, io mentisco) vende la merce umana, esausto l'infame mercato, piglia il fucile e strugge, rapina, incendia, scanna, stupra e mangia. Il proletario vuol m migliorare la sua condizione né più né meno che noi. Questo ha atteso invano dalla stupida pretesa rivoluzionaria, questo attende dalla monarchia. In fondo nella sua idea bruta il brigantaggio non è che il processo o, temperando la crudezza della parola, il desiderio del meglio. Certo la vita è scellerata, il mondo iniquo ed infame...Ma il brigantaggio non è che miseria è miseria estrema e disperata: le avversioni del clero e dei caldeggiatori, il caduto dominio, e tutto nel numeroso elenco delle volute originarie cause di questa piaga sociale sono scuse secondarie ed occasionali, che ne abusano, e fanno perdurare. Si facciano i contadini proprietari, Non è cosa così difficile ruinosa anarchica e socialista come ne ha la parvenza. Una buona legge sul censimento, a piccoli lotti dei beni della cassa ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio dei nullatenenti e il fucile scappa di mano ai briganti. Date una moggiata al contadino, e si farà scannare per voi, e difenderà la sua terra contro tutte le orde straniera e barbariche dell'Austro-Francia".
Riportiamo anche, come curiosità, uno stornello che circolava tra i contadini ed i briganti in questo periodo:
"Vittorie Mmanuèle, re di munnezze!
Cariboalde le porte a capèzze!
Maria Zufie, reggine di bellezze!
E francischille, Re de li ricchezze!"
Singolare era l'odio che essi avevano per i baffi, segno palese di liberalismo; chi aveva i baffi doveva sopportare, in caso cadesse nelle mani dei briganti, la straziante tortura di sentirseli svellere pelo per pelo. Altra tortura, sempre inflitta dai briganti ai liberali, consisteva nel "pillottare" le vittime; essi procedevano in questo modo: si stendeva il liberale su di un tavolo esponendo le su carni alle gocce infuocate di un pezzo di lardo che, infilato su di uno spiedo, si scioglieva grazie al fuoco di un pezzo di giornale.
E' comunque logico che i briganti avessero una parte importante nella letteratura dell'epoca, visto che essi erano dei veri e propri personaggi mitici che influenzavano non solo i contadini e i popolani, ma anche persone di una certa cultura che, così affascinati dalle loro epiche gesta, non potevano fare a meno dio narrare quelle rocambolesche avventure.
Di questo argomento, però, tratteremo meglio nella seconda parte in cui faremo riferimento anche a documenti originali.
SECONDA PARTE
IL FENOMENO DEL BRIGANTAGGIO NELL'AQUILANO
Il fenomeno del brigantaggio che caratterizzò le nostre zone fu anch'esso fomentato da motivi reazionari e di chiara ostilità nei riguardi di un governo, quello Piemontese, che veniva visto come estraneo e straniero; qualcosa di simile si era già verificato nel periodo dell'invasione francese, e quindi può esserci di estrema utilità considerare ciò che accadde in quegli anni, cioè alla fine del XVIII secolo, nella zona del circondario aquilano: tali avvenimenti infatti possono essere considerati come primordi di quello che invece fu il grande brigantaggio successivo all'Unità d'Italia.
Ci siamo serviti a tal proposito di un accurato studio effettuato dal Barone aquilano Giuseppe Rivera, che riguarda appunto gli avvenimenti nella città e nei dintorni all'epoca dell'invasione francese (1792 - 1799 ), pubblicato sui "Bollettini della Deputazione di Storia Patria " del 1907-1908-1909, dai quali possiamo rilevare come anche allora, in sostituzione dell'esercito regolare, quello del Regno delle Due Sicilie, che andava sgretolandosi sotto i colpi delle milizie transalpine, furono bande popolari a tentare di salvaguardare il trono del Re Ferdinando IV di Borbone.
La differenza sostanziale che si pone tra questo brigantaggio e quello successivo al 1861, visto che entrambi si prefiggevano lo stesso scopo, quello cioè di sbarazzarsi con un'azione illegittima del governo che si era imposto e con la violenza delle popolazioni che non lo accettavano, va ricercata soprattutto nella motivazione per la quale suddetti movimenti si muovevano. Entrambe le rivolte si battevano in nome del re detronizzato, ma il brigantaggio successivo all'Unità d'Italia, quello che tutti conoscono, era sorto in realtà a causa delle precarie condizioni economiche e sociali in cui le popolazioni dell'aquilano, come d'altronde quelle di tutto il Sud, versavano, in condizioni che fino allora non erano state avvertite in maniera evidente solo per la politica accomodante dei Borboni e che invece ora, con l'istituzione del nuovo regno, cominciavano a pesare e ad ingrandirsi. Per cui l'intenzione con la quale le bande combattevano, quella di riportare sul loro legittimo trono Francesco II e la regina Maria Sofia, non era altro che un pretesto, una bandiera, che serviva a giustificare il loro operato e sotto il quale si celava il vero motivo che agitava la reazione.
Risulta evidente, invece, dal lavoro effettuato dal Barone Rivera, come, all'epoca dell'invasione francese, almeno nelle nostre zone, nessun motivo sociale ed economico fosse alla base della ribellione popolare. I "briganti" di allora avevano solo l'intenzione di scongiurare l'avanzata francese per mantenere integra la dinastia Borbonica alla quale erano molto affezionati. In più, i nobili che erano al comando della reazione si impegnavano particolarmente a fermare l'avanzata dell'esercito francese in quanto, qualora lo straniero avesse imposto le sue leggi, i suddetti nobili avrebbero perduto la loro importanza, i loro titoli, le loro prerogative e le loro proprietà.
Può invece sorprendere l'atteggiamento dei contadini e delle masse popolari, che si schierarono anch'esse per la causa Borbonica; ma non va dimenticato che le idee di libertà, che almeno in teoria le truppe rivoluzionarie francesi avrebbero dovuto divulgare, non potevano essere comprese dalle popolazioni del tempo rimaste da secoli nella più profonda ignoranza.
Tra i vari capi di queste masse popolari delle nostre zone, possiamo ricordare: Antonio Cardelli da Civitaretenga, Giuliano Francisconi da Navelli, Pasquale Gianasorica e Domenico Ognibene da Sulmona. Ma la figura più emblematica che la storia della nostra città ( e della nostra zona ) ricordi nell'ambito della lotta anti- francese, fu quella di un nobile aquilano, tale Don Giovanni Salomone, che tentò nel Dicembre del 1798, a seguito del proclama con il quale il Generale francese Le Moine invitava, in data 10 Glaciale dell'anno 7 (corrispondente al 19/12/1798) gli aquilani a dimenticare i saccheggi e le violenze fatti alla città dopo la sua presa e ad accogliere i Francesi non come nemici ma come liberatori, di resistere nella città con alcuni uomini.
Ma a seguito di una sconfitta subita nella città si ritirò ad Arischia onde fronteggiare da lì meglio i Francesi e sperare di riconquistare nel più breve tempo possibile l'Aquila, valendosi dell'ausilio delle masse popolari organizzate nel Cicolano che, sconfitte a loro volta, si erano ritirate sotto il comando dell'abate Micarelli sulla montagna di Roio. Ma il Salomone e il Micarelli non giunsero mai ad un accordo ( e ciò sta a dimostrare quanta poca organizzazione ci fosse tra le bande popolari, che non avevano altra forza per combattere che non fosse il loro entusiasmo ), e L'Aquila cadde definitivamente nelle mani degli invasori.
Altri nomi di altrettanti capobanda vengono ricordati nel novero degli eroi che si contraddistinsero nella lotta contro i Francesi, e sono quelli di Giuseppe Pronio e di Don Pelino Rossi ( a tal proposito non possiamo esimerci dal far rilevare la straordinaria partecipazione attiva dell'elemento clericale a queste rivolte popolari ) che difesero Sulmona, uno da Roccacasale, l'altro dalle gole di Tremonti; ma vennero inspiegabilmente licenziati dal De Gambis, tenente delle truppe regie; i due però non sciolsero le loro forze: il primo infatti si ritirò ad Introdacqua e resistette eroicamente per dodici giorni prima di cedere ad un avversario più numeroso, meglio organizzato e maggiormente equipaggiato di lui e dei suoi uomini.
Il fatto che le bande popolari non possedessero quella valida organizzazione che invece contraddistingueva l'esercito invasore e che per questo lo rendeva pressoché invincibile, non significa che suddette bande dovevano sempre inesorabilmente cedere di fronte ad un avversario sicuramente più forte di loro.
Ancora dal Bullettino possiamo leggere che alcune divisioni francesi si erano dovute ricongiungere nei pressi dell'Aquila perché troppo decimati ai continui assalti della banda di Michele Pezza, il mitico Fra Diavolo. Dunque la reazione i suoi successi, seppur parziali, riusciva ad ottenerli.
Nel Febbraio del 1799, comunque, i Francesi costituiscono la repubblica partenopea ed impongono le loro leggi a tutto l'ex regno di Ferdinando IV; studiavano inoltre nuovi provvedimenti da prendere per mutare la costituzione monarchica; ma mentre erano indaffarati a far questo, all'Aquila le masse, che si erano battute per impedire l'entrata dei Francesi, fremevano di sdegno nel vederli insediati in città, e già meditavano di cacciarli.
Il Salomone era ancora fermo ad Arischia con i suoi uomini, mentre altri due capobanda, il Guarnirei ed il Mari, presidiavano il circondario dell'Aquila da Montereale a Leonessa. Salomone poteva disporre ancora dell'aiuto di altri due protagonisti della reazione, tali Antonio Mosca da Zizzoli e Luigi Masci da Cagnano; la sua intenzione era quella di elevarsi a capo unico della rivolta popolare anche nella Marsica, essendolo ormai di fatto nell'aquilano. A tale scopo sollecitò Angelo Maria Petricca perché adunasse le masse popolari, che avevano intenzione di partecipare attivamente alla reazione, a Magliano; ebbe inoltre aiuti nella stessa Arischia, nella quale, come ripetiamo, si era stanziato, da parte del Barone Osario che gli mise a disposizione uomini, armi e i cospicui magazzini di cereali che possedeva nel feudo di Arischia.
Avevamo detto, poc'anzi, come Salomone avesse intenzione di ergersi quale capo unico della rivolta popolare nella Marsica e, forse, in tutto l'Abruzzo; ma molto intelligentemente abbandonò questi sogni di grandezza una volta riconosciuto, anzi acclamato, dagli altre capobanda quale comandante assoluto delle popolazioni armate del circondario aquilano. L'acclamazione fu data a tutti i comandanti delle varie bande, come si legge da un documento dell'archivio notarile aquilano. Da buon aquilano, l'unica cosa che particolarmente gli premeva era quella di liberare il capoluogo abruzzese; poi, se fosse riuscito in tale impresa, si sarebbe occupato della situazione della Marsica e di tutto l'Abruzzo, cosa che però non avvenne mai. Si mise dunque al lavoro e iniziò ad approntare un piano per riconquistare la città e toglierla dalle mani dei Francesi.
Le masse che Salomone era riuscito a raccogliere furono divise in cinque squadre: una sotto il suo diretto comando, che comprendeva le bande accampate a Bagno, Pianola e Fossa. Due sotto i comandi di Masci e Mari che avrebbero raggruppato i loro uomini a Coppito; altre due, composte per lo più di fuggiaschi del Cicolano riparati a Roio. Sotto il comando dell'abate Micarelli e del Colosi.
L'operazione più importante per la ripresa della città. Fu condotta in notturna e portò gli uomini comandati da Salomone alla riconquista del Castello, sicuramente il punto strategicamente più favorevole della città dal quale i Francesi avevano tentato un'ultima resistenza.
Le altre bande erano già penetrate da ogni punto della città che fosse ritenuto meno protetto dai Francesi come Porta Romana e Porta Bazzano; L'Aquila fu riconquistata in breve tempo; il Salomone si adoperò per la sicurezza interna della città, ma il 10 Agosto 1799 quelle masse popolari che erano rimaste per otto mesi presso la nostra città per difenderla dal ritorno del nemico, partirono per le campagne romane al fine di estendere anche lì il messaggio anti-francese, e Salomone si offrì per guidarle.
Di quest'uomo, che fu il simbolo della libertà per le popolazioni dell'aquilano, l'eroe che fronteggiò l'avanzata dei Francesi e che riprese a quest'ultimi il possesso della città dell'Aquila (che venne mantenuto fino al 1806 ) rimangono i ricordi delle sue imprese compiute, oltre che all'Aquila, anche a Rieti e a Monterotondo ( qui con l'aiuto del Pronio giunto dalla Marsica). Le narrazioni delle sue epiche gesta vengono poi a perdersi dopo la sua entrata a Roma. Del Generale Don Giovanni Salomone restano alcune menzioni fatte da lui all'indirizzo del Barone Rivera Francesco nella conquista dell'Aquila, come si legge da un documento dell'archivio privato di casa Rivera.
Dopo l'excursus storico su ciò che fu il brigantaggio all'epoca dell'invasione francese del 1792-1799, ci occupiamo ora della cause del brigantaggio postunitario nell'aquilano.
Ed allora per comprovare la nostra idea riguardante la matrice del brigantaggio nell'aquilano, e cioè che esso fu un fenomeno sostanzialmente sociale e non politico, siamo andati alla ricerca di documenti dell'epoca dai quali potessimo trarre delle prove tangibili. Non si rivelato particolarmente difficile reperire due documenti ufficiali, cioè due relazioni di due prefetti aquilani, ed anche una fonte meno ufficiale, cioè un giornale dell'epoca.
Dall'analisi di questi tre documenti, risulta evidente che il brigantaggio nel circondario aquilano appartiene a quello che abbiamo definito "brigantaggio minore" e non al "grande brigantaggio", ed anche se all'inizio volle assumere un significato politico, via via divenne un o sfogo dei problemi che angustiavano le popolazioni aquilane, tanto è vero che possiamo parlare di briganti stagionali, cioè contadini che si davano alla macchia in quei mesi dell'anno in cui non sapevano come procurarsi i mezzi per vivere, visto che i campi non richiedevano lavoro.
Ma non c'è modo migliore per avvalorare questa tesi che riferirsi direttamente alle suddette fonti storiche.
In ordine cronologico abbiamo esaminato alcune considerazioni fatte dal prefetto dell'Aquila Giuseppe Alasia, considerazioni che sono riportate in uno studio sul brigantaggio nella zona dell'Aquila effettuato da don Filippo Murri e riportato nella sua opera "Lucoli, profilo storico". Il prefetto Alasia, in una relazione del 17 dicembre 1863, prima di riferire al deputato Giuseppe Pica le modalità con cui aveva fatto applicare la legge per la repressione del brigantaggio nella provincia dell'Aquila e gli effetti che ne erano scaturiti, volle illustrare quale era la situazione dal tempo dell'emanazione della legge.
In questa relazione il prefetto dice che le bande di briganti riconosciute come tali, erano principalmente tre:
1) La banda di Tamburini che si aggirava per le province dell'Aquila, di Chieti e per il Molise, composta da circa quindici individui;
2) La banda detta di "Luco e Tra sacco" perché operava quasi sempre nei dintorni di quelle zone, composta di circa dieci elementi;
3) La banda di "Tornimparte", detta così perché i fuorilegge abitualmente agivano nelle vicinanze di quelle frazioni, che era composta da circa sette persone.
Inoltre il prefetto dice che però molti di più erano i briganti effettivi e sebbene i carabinieri avessero dovuto affrontare fatiche, disagi e pericoli per cercare di combatterli, non erano riusciti ad arrestarne nemmeno uno.
In base a queste considerazioni, il prefetto conclude che era impossibile che i briganti non avessero persone che li appoggiassero, o occasionalmente, e si riferisce certo ai già citati briganti stagionali, o per un secondo fine, riferendosi stavolta a persone eminenti ed importanti, soprattutto dell'alto clero. Infatti Alasia così si esprime in una dettagliata descrizione sulla tragica situazione che aveva causato il fenomeno del brigantaggio:
"Non ho d'uopo di riandare ai fatti passati; essi sono troppo conosciuti: basti il dire che solo in questi ultimi giorni passarono per le mie mani più di trecento fedi criminali d'individui dimessi dal potere giudiziario o per indulti governativi per fatti, tendenti a cambiare la forma del governo accompagnati da uccisioni, furti, incendi, saccheggi; basti il dire che si sequestrarono in alcuni conventi le corrispondenze che da Roma accusavano l'arrivo di renitenti, di sbandati, di disertori colà avviati sotto abito religioso: basti il dire che nell'arrestare i renitenti e disertori avviati a confino si sequestrarono loro in dosso fedi di buona condotta di Parroci, le quali fedi si sa che loro servono per avere ricovero, vitto e denaro di parrocchia in parrocchia, di convento in convento fino al confine, e che traversato il confine servono loro di passaporto molto meglio che lo stesso passaporto governativo: basti il dire finalmente che il figlio del Re, il Principe Ereditario è venuto all'Aquila, e non fu possibile di farlo ammettere in Duomo, perché il Vicario Generale, e l'intiero Capitolo si rifiutarono di riceverlo; e lo sanno tutti, e lo sa il Deputato Camerini che spese inutilmente in quella occasione l'influenza credeva essersi acquistata con la protezione costantemente esercitata a favore dei preti e dei frati di tutti i colori.
Or quando esistono questi fatti, pare a me che bisogna avere un petto di bronzo, ed una fronte di acciaio per venire a dire che in questa Provincia i manutengoli sono pochi, e che bastano pochissimi arresti per estirpare il brigantaggio, e che gli arresti eseguiti furono un inutile persecuzione esercitata contro innocenti che non sapevano nulla, e che meritavano protezione piuttosto che rigore.
A fronte di tali fatti pare a me che un sincero amico del suo paese, un amante della giustizia, dell'ordine e della legalità, a cui sia posta in mano la legge 15 agosto, ed a cui l'esecuzione della medesima venga affidata, debba proporsi di ricercare quali siano le persone sulle quali pesi il sospetto di associarsi a briganti, e quali quelle sospettate di manutengolismo senza lasciarsi spaventare o distrarre né dal numero né dalla qualità degli individui sospettati.
Non certamente gettarsi a diritto e rovescio ad eseguire arresti su semplici sospetti fondati sulle opinioni retrive delle persone, ma studiando i fatti, le abitudini delle diverse persone, e la reputazione che si sono acquistata presso i loro concittadini.
Così per esempio: quando un individuo si vede frequentare tranquillamente le montagne infestate dai briganti, mentre la generalità dei cittadini non osa accedervi: quando le proprietà di un altro sono costantemente rispettate e quelle di un tal'altro sono spietatamente devastate dai briganti: quando l'0pinione pubblica accusa con unanimità, con insistenza, con calore questi individui di favorire il brigantaggio: quando le fedi criminali di questi individui attestano ch'essi vennero replicate volte inquisiti per furti, per assassinii, per fatti reazionari, per aver fatto parte di bande armate, per aver abbattuto o deturpato stemmi nazionali, e perfino la sacra immagine dell'augusto nostro Sovrano: quando i fatti di simil genere, oltre alle fedi criminali, sono concordemente attestati dall'Arma dei Carabinieri, dai giudici di Mandamento, dai comandanti dei distaccamenti, dai Delegati di sicurezza pubblica, e dai Sindaci dei rispettivi comuni, io credo che non si possa esitare un momento a prestarvi fede, ed a colpire le persone che sono designate in tal modo. So bene che molte persone per salvare un birbante, non esitano a coprire di fango tutte le Autorità, ad accusare come prevaricatori, e mentitori Carabinieri, Giudici, Ufficiali, Sindaci e Delegati: so bene che si scrisse e si stampò da taluno e segnatamente dal Deputato Camerini che i Carabinieri cominciano a gendarmeggiare, che i Giudici furono scelti pessimamente, che i Delegati sono una famigerata genia, che gli Ufficiali sono inesperti, e che i Sindaci sono tutti uomini di partito: ma per me tali basi, non so più qual sistema di governo sia ancora possibile: stabilito che non si debba credere ai rapporti dei funzionari, nemmeno quando sono tutti perfettamente d'accordo, io trovo oltremodo imbarazzato a stabile a chi si debba ancora credere, e sarei molto riconoscente a chi volesse ben suggerirmelo".
Ed oltre a quelli già detti, il prefetto Alasia, in un'altra lettera che spedì al deputato Pica, tra gli ostili al nuovo governo, e conseguentemente favoreggiatori del brigantaggio, annoverò anche il deputato Angelo Camerini, e diversi ordini religiosi della città, tra essi soprattutto i Francescani Riformati, i Padri Liquorini e i Passionisti; quest'ultimi, sempre secondo il prefetto, avrebbero negato persino l'assoluzione a chi ricoceva l'attuale sovrano e distolto gli alunni della scuola normale a frequentarla, dichiarandoli scomunicati.
Ma, dopo queste parole, qualcuno potrebbe obiettare che allora il brigantaggio nell'aquilano ebbe un carattere politico, accusandoci dunque di essere caduti in una chiara contraddizione. Indubbiamente all'inizio, lo abbiamo già accennato, anche il brigantaggio a L'Aquila e zone limitrofe nacque come ribellione al nuovo governo, ma abbiamo altresì aggiunto che ben presto questa matrice politica svanì(benché naturalmente i briganti continuarono a combattere in nome di Francesco II), e poi tale carattere politico vollero attribuiglierlo coloro che avevano dei motivi di avversione al governo piemontese, come per esempio l'alto clero il quale cercava in ogni modo di osteggiare il nuovo governo, ed aveva trovato, per questo, degli esecutori materiali, i quali non si davano pensiero di ciò che stava accadendo politicamente, né si erano accorti che la loro azione eversiva faceva comodo all'azione sovvertitrice di alcune entità politiche contrarie al nuovo governo.
Certamente queste bande di briganti avevano dei contatti col brigantaggio che tutti conoscono, quello politico per intenderci, ma sono probabilmente gli stessi che si hanno ai nostri giorni tra le massime organizzazioni eversive politiche, come ad esempio le Brigate Rosse, e la piccola delinquenza locale, la quale appunto agisce esclusivamente per proprio conto e per far fronte ai propri problemi. Ciò che stiamo dicendo può essere comprovato proprio dal comportamento dei briganti che agivano nella zona aquilana, i vari Zeppetella, Viola, ecc., i quali ponendosi sotto l'etichetta di briganti, volevano reagire non tanto al governo italiano, del quale non avevano avvertito assolutamente la presenza, quanto invece ai problemi locali.
In tal modo non possiamo trovare, ed infatti non abbiamo trovato, bande di briganti del circondario aquilano che abbiano fatto delle rivendicazioni politiche. Sentiamo parlare di pecore sgozzate, di polli rubati, di ricatti per avere beni materiali, ma non sentiremo parlare mai, nemmeno con un accenno, contro il Piemontesismo o contro Vittorio Emanuele II.
Via via , col trascorrere degli anni, il brigantaggio nella zona della città dell'Aquila venne a perdere, e lo ripetiamo per l'ennesima volta, anche le apparenti motivazioni politiche. E ciò è dimostrato in una dichiarazione del prefetto Coffaro, tratta dal "Giornale della Prefettura dell'Aquila" che però tratta del fenomeno del brigantaggio negli anni intorno al 1866, quindi una considerazione fatta da una personalità ufficiale in merito al brigantaggio a distanza di tre anni da quella redatta dal prefetto Alasia.
In tre anni le cose sono cambiate, ed infatti bel bollettino del 21 settembre 1866, il prefetto Coffaro nemmeno accenna a dei problemi politici da risolvere, ma scrive: "Quando sullo scorcio del mese passato venni destinato dal governo del Re a reggere questa ragguardevole provincia degli Abruzzi( è chiaro che sta parlando dell'Aquila), fui vivamente preoccupato delle condizioni in cui versava la sicurezza della vita e della proprietà dei suoi abitanti, pel frequente apparire di briganti che infestavano questa e le vicine province".
Il prefetto parla di aggressioni alle proprietà di alcuni abitanti, non di manifestazioni violente contro le nuove autorità governative.
A distanza di un anno, il 16 agosto 1867, lo stesso Coffaro scrive di aver tratto delle conclusioni che, secondo il nostro parere, vengono a comprovare un po' tutto quello che abbiamo sostenuto finora: "Il governo ha avuto luogo ad osservare per l'esperienza di questi ultimi anni e per lo studio delle particolari circostanze in cui nacque e si mantiene il brigantaggio, che se queste criminali associazioni possono dal di fuori ricevere favoreggiamenti ed aiuti, sono però nell'intrinseca loro natura una produzione del tutto locale che si forma con gli elementi pericolosi dello stesso paese in cui si rassoda; a dir breve una mala pianta che dal suolo stesso in cui nasce trae vigore ed alimento".
Nessuna definizione meglio di questa poteva isolare il fenomeno del brigantaggio nell'aquilano come autoctono problema sociale, senza alcuna caratterizzazione politica.
Infine un'altra testimonianza dell'epoca, è presente in un polemico articolo pubblicato sul giornale periodico aquilano "L'Amiternino", datato 1867. Anche qui l'autore non fa assolutamente riferimento ad argomentazioni di carattere politico. Solo all'inizio dell'articolo spiega che quelli che in un primo momento erano scambiati per garibaldini " non sono punto quelli della Camicia Rossa, ma pretti briganti".
Ed anche questo sta a dimostrare che persino l'opinione pubblica, in questo caso espressa da un giornale, non ha assolutamente coscienza della matrice politica del grande brigantaggio, tanto è vero che alcune persone arrivano a scambiare i briganti per garibaldini; e ciò sta appunto a significare che gli aquilani non stavano a riflettere sul significato che poteva avere tale svista; e proprio l'onesta ingenuità nel valutare la presenza dei briganti espressa in questo articolo dell'epoca, ci porta a credere maggiormente che gli aquilani non ci pensavano nemmeno lontanamente che il brigantaggio potesse essere un'opposizione al nuovo governo piemontese.
Nell'animo dell'aquilano di quei tempi, il brigante non era colui che voleva sovvertire l'ordine del governo di Vittorio Emanuele, ma una specie di eroe popolare capace di reagire ai secolari problemi, coraggioso, spietato e crudele, ma nello stesso temo galantuomo, e capace di togliere al ricco per dare al povero.
Giacinto Mariangeli, Sindaco di Carsoli, nel certificare che il sacerdote D:Ottavio Pace si era "distinto nel proteggere i briganti e tutti e reazionari colà rifugiatesi, somministrando e facendo somministrare alloggio e vitto dalle primarie famiglia" sottolineava che il denaro "venivagli rimesso da Roma, da quel Comitato Pretino, per mantenere e sostenere il brigantaggio". Né fu più tenero il Luogotenente Generale Cavalier Cosenz il quale, mentre lodava le Guardie Nazionali di vari centri dell'aquilano, non risparmiava biasimo alla classe dei preti, perché questi - diceva - "servendosi del Sacro Ministero influiscono sulle donne povere di spirito e queste sui mariti loro più poveri di mente di esse".
La mentalità diffusa che sacerdoti nostalgici del governo abbiano cooperato positivamente alla reazione. Il governo Pontificio quando però s'accorse che non era più questione di fatti politici, condannò ufficialmente il brigantaggio con l'editto di Frosinone emanato per mezzo di Mons. Pericoli, Delegato Apostolico, il 17 Dicembre 1865, ma già il 24 Febbraio 1865 era stata firmata una convenzione col Governo Italiano, convenzione che entrò in vigore per il reciproco aiuto e le conseguenti estrazioni del brigantaggio.
L'entrata in vigore della convenzione risulta anche dalla relazione senza data che il Colonnello Comandante Lopez inviò al Prefetto dell'Aquila con accenni specifici alla collaborazione della gendarmeria italiana e pontificia.
Ma per approfondire il tema che ci interessa maggiormente, guardiamo quali furono i rapporti tra il clero dell'aquilano e i briganti che operarono in questa zona. Prendiamo per esempio il reato del Pizzolano Gregorio Ponzi, domiciliato a L'Aquila, fornitore di olio alle truppe di linea stanziate in città. Durante uno dei rifornimenti, il Ponzi chiese al soldato Annibale Rossi del 35° Regg. Di disertare e unirsi ai banditi della montagna di Chiarino; sorvegliato, però, fu trovato in relazione con Antonio Leonetti di Amatrice e Sansone di Campotosto . Ponzi fu condannato a lire 25 di multa e 15 anni di lavori forzati, il legnetti alla multa di lire 100 e a 7 anni di reclusione, ed entrambi alla sorveglianza speciale della pubblica sicurezza per sei anni e alle spese processuali.
Anche il Sansone fu arrestato. Ma il sacerdote di cui si parlò in quella circostanza fu D.Antonio Cassini, come suo socio negli appalti di fornitura, ma sono più mesi che non lo veggo e mi si è detto che era andato a Chieti e suppongo per conteggiare delle forniture con l'appaltatore generale. "Il Canonico poi aggiunge di aver avvicinato il Cassini senza aver sentito mai discorsi politici "non ho mai dato motivo a sospettare di lui tenendo regolare condotta morale".
Reazioni piuttosto vivaci si ebbero invece nelle diocesi nei giorni del plebiscito ed in quelli immediatamente precedenti e seguenti. Sulla rivolta di Fagnano del 20 Ottobre 1860 ci ha lasciato relazione Vincenzo Bonanni Caione, supplente del Regio Giudice di Polizia Giudiziaria di S.Demetrio. Da esso sappiamo che a Vallecupa mentre si votava, si avvicinarono una trentina di contadini che inneggiavano a Francesco II e minacciavano di gettare dalla finestra coloro che votavano. Il trambusto fu sedato con difficoltà. Si volle trovare un capro espiatorio in D.Giovanni Silveri.
Il Bonanni Caione precisa: "In quanto riguarda le insinuazioni che si attribuiscono al Sacerdote Silveri è da marcarsi che d'esser stato veduto per la via di Vallecupa con gli imputati nell'indicato giorno e che da questa circostanza sorse il sospetto formato contro di lui".
In conclusione si viene a dedurre che rarissime sono le presenze di sacerdoti nell'ambito del brigantaggio sia politico sia delinquenziale, in alcuni casi ci furono briganti che con l'abito talare cercarono rifugio in monasteri, ma non è da implicare per questo al clero.
Come si è detto nella prima parte, l'esercito italiano, con modi più o meno violenti, cercò di spezzare sul nascere, senza riuscirvi, il brigantaggio. Infatti dieci anni, dal 1860 al 1870, ci vollero per liberare l'Italia da questa triste piaga.
Alla notizia della partenza dell'esercito piemontese, FrancescoII dà ordine ai vari capobanda di iniziare alcune operazioni per sollevare il SUD prima dell'arrivo delle truppe regolari. Il primo incarico per queste operazioni fu affidato ai colonnelli, ex ufficiali borbonici, Lagrange (che in realtà era un tedesco di nome Kleischt) e Loverà, che formarono le loro bande con alcune centinaia di galeotti e che entrarono con essi nell'Abruzzo e nella Marsica.
Il Lagrange occupa di sorpresa Città Ducale(quando ancora faceva parte dell'Abruzzo, oggi provincia di Rieti) ed Antrodoco(idem) e giunse fino a pochi chilometri dall'Aquila, ingiungendo alle autorità della città di rimettere sui pubblici esercizi i vecchi stemmi di Francesco II; ma la capitale dell'Abruzzo rispose prendendo energiche misure difensive e chiamando a raccolta la Guardia Civica.
Cronache brigantesche
ANNO 1862
Per non aver voluto gridare "Viva Francesco II", Berardino Colombi di Feliciantonio fu ucciso a colpi di stile dal "reazionario" Berardino Viola il 2 Luglio, nel giorno in cui Teglieto si festeggia la Madonna del Poggio.
CAAPRB B.4 Vol. 6,6 Bis
Il 19 Agosto 1862 fece irruzione nello stazzo di Raffaele Ratini che pascolava il suo gregge sulla montagna di Cagnano una banda di fuorilegge. I briganti, dopo ripetute minacce di uccisioni di pecore, riuscirono ad estorcere al Ratini una ingente somma di denaro. Questi briganti, tra i quali fu riconosciuto Salvatore Sottocarao, rubarono al pastore anche pecore, latte, pane e formaggio.
CAAPRB B.8 Vol. 8
ANNO 1863
In località a "piedi della Ricciola", il giorno 8 Settembre Berardino Viola di Teglieto e il suo fido Candido Vulpiani di Castagneta sequestrarono Antonio Morelli fu Serafino. Il Morelli però riuscì a fuggire subito dopo poiché i due "fuoriusciti" si erano affaccendati e distratti nel voler sequestrare il parroco di S.Lucia, Pietro Minelli. Che si recava a Torre di Taglio.
I due poi, dopo aver derubato il parroco di un orologio a cassa d'argento e di varie monete, lo portarono a Colle di Pace, dove il Minelli rimase sequestrato per tre giorni.
CAAPRB B.4 Vol. 9 bis, c.3r
Il mattino del 24 Settembre in località Valleimpune fu rinvenuto il cadavere del brigante Candido Vulpiani di Castagneta dai pastori Pietro Cicerone fu Giuseppe e Domenico Passamonte fu Ferdinando. La voce pubblica affermava che il Vulpiani era stato ucciso dal brigante Berardino Viola di Teglieto.
CAAPRB B. 4 Vol. 5
ANNO 1866
Il 13 Agosto Giovanni Colaiuda, Salvatore Sottocarao e Diodato Innocenzi in località Lago, sulla montagna della Duchessa, sgozzarono 1217 pecore, a colpi di baionetta, di proprietà di Domenico Vulpiani di Filippo; i tre briganti vollero così vendicarsi del fatto che il Vulpiani li aveva denunciati e fatti arrestare a Roma nell'inverno del 65.
I tre inoltre lasciarono un biglietto col quale, minacciando l'uccisione di altri animali, chiedevano al Vulpiani mille scudi pari a 4219 lire e 90 centesimi (tale biglietto fu poi consegnato ai carabinieri ).
Trattandosi di pecore in stato di gravidanza, grandi ed in ottimo stato, i danni subiti dal Vulpiani ammontarono a 25.000 lire.
CAAPRB B.8 Vol. 30 Lett.B
ANNO 1867
I briganti Salvatore Sottocarao, Diodato Innocenzi e Amedeo del Soldato, il 10 Giugno si facevano cuocere nello stazzo di proprietà di Giovambattista Properzi di Lucoli situato in località Cava della Duchessa.
I tre furono costretti a fuggire sparando per l'arrivo di una pattuglia formata da carabinieri e da guardaboschi; durante la fuga i briganti abbandonaro: 1) due bottiglie di Rum,; 2) una quantità di palle da fucile e da revolvers; 3) tre fiaschette di latta con i rispettivi cintolini di cuoio; 4) una scatola di polvere da caccia di prima sorte, di privativa; 5) una borsa di pelle nera con dentro circa due chilogrammi di prosciutto e un filone di pane "ordinario"; 6) tre mantelle di lana bianca, come quelle dei pecorai, del valore di 23 lire ciascuno; 7) un paio di calze di lana nuove.
CAAPRB B. 8, Vol. 4 Lett. D.
B.9 Vol. 1 Lett. D,c. 28
B.9 Vol. 3 Lett. D.
Atti della reazione
In questo paragrafo riportiamo gli originali e le relative trascrizioni dei cosiddetti atti della reazione che sarebbero biglietti di ricevuta o di richiesta di viveri o generi di prima necessità inviati dai briganti ai capi delle famiglie più ricche oppure alle autorità dei paesi che assalivano.
Dichiaro io Amadio Visca caporale di aver ricevuto un fucile a pietra con bagnonetta dal sig. Michele Fiorinelli brigadiere posto in Villacega, perciò facendogliene il presente ricevo onde a qualunque ordine a fargliene la dovuta restituzione e mi sottoscrivo
Villacega 14 9bre 60 Amadio Visca caporale
P.S. più si è ricevuta una sciabla dal med. Brigadiere e anche un mazzo di cartocci
Osia tre paliotti
Amadio Visca caporale
Stimatissimo sig. Giuseppe
Il comandante di masse osia truppe di Francesco secondo Dio quardi sarete pre chato anticipatamente di pronte faccià trovare dui mila e 13 uommini tutta truppa di bonordine della quale non abbiate alcuna paurà perché è comandata tutta di bonordine per conseguenza non potete dubitare di mali sgrossamenti come mi ripetò per dare acciò la presente, per due giorni di anticipazione se volete essere perdonato da Francesco seconto e mi tico e sono suo
Ascenso Napoleone
lì 13 Gennaio 1867
Biglietti ricattatori dei briganti
"Caro zio Giuseppe se voi avete desiderio di rivedermi e cari fratelli e sorelle di non fare sapere niente a nessuno, e per carità di non fare sapere qualche cosa alla forza perché io sono in mano di 15 bajonette potete considerare in che stato mi ritroverò con la fucilazione di me. Vi prego che mi mandate cinque mila scudi e subbito e presto se avete misericordia di me 15 anelli d'oro, due orologi, per carità non fate sapere niente alla forza che sarei subito fucilato".
"Caro D. Pepe pare che vi state lusinchano di me se no mi mandate la soma del denaro che io vi o chiesta il vostro nipote non lo riavete più in vostra casa questo e il primo ed ultimo biglietto che ricevete dame se mezo giorno no tornara i denaro vi faro sento la festa del vostro nipote e non lenta mai di piangere che si ritrova in questo stato abbandonato da i miei genitori no conosciuto no curarano più di me no pensate che no sono sodisfato querce si ano chiesto perdata di me mio caro zio io no lo maritano va bagio le mano e li pieti ivi perdono se dira per mondo che no, si poterono riscattare uno sacerdote per il denaro.
Ferdinando Cecconi"
"Caro zio
questa è l'ultima, madate il danaro senza meno questa sera o mi fucilano. date il denaro
mi libera la vita.
Ferdinando Cecconi"
"Gentilissimo signore D. Pepe
questa è stata una coglionata
seno mandate la soma de
bigliet sara fucilato"
"Carissimo amico D. Paolo Antonimi ovete pietà dime povero Ferdinando Cecconi potessi
riscattare da queste pene io dormo la notte
in terra in mezzo all'acqua i sig.i stima di mia casa si sono scordati di me sorelle e
fratelli uniti colla zia e padre giacchè non mi avete
potuto riscattare da queste pene mandatemi
la S.Benedizione, pregate Dio per me. Carissimo amico D. Paolo Antonimi
vi bagio le mani e li piedi vi prego di benignarti le vostre grazie sopra di me ho contentato il capo
brigante borbonico a ginocchie nude di contetarse per 2000 docati se avete piacere di
rabracciarmi se no domani a mezzo giorno sentirete
che io Ferdinando Cecconi sarò passato
all'altra vita. Rimandate lo spedito dimani
per regolarmi o di sì o di no.
Io Ferdinando Cecconi"
"Gentilissimo signore D. Costantino
Sono a precarvi, amantare tutto ciò che
avete promesso se volete riavere tutto
ciò che avete presso di voi, vi preco di
non mangare appena riceverete il spetito
se non mi corrisponderete subbite quello
che è stato fatto non è niente
penngate per la venire_adio".
"Caro mastro Domenico
Staffoli lì 9bre 1860
L'ordine del sigrè capitano che io porto voi, lo sapete, che tengo sotto
sette, paesi, il sigrè capitano quando manda un ordine lo deve
mandare amme, per cui non vi pigliate in fatti che non vi toccano,
il capitano alla putrella lo farò ammio comodo, che già ho
incaricato Gelasio se poi vi fosse venuto ordine fa Fiamignano
dal sigrè capitano melomania in scritto, sono vostro,
Ascenso Manente"
Salvatore Sottocarao, alias Zeppetella
Molti anziani della nostra città sicuramente ricorderanno il nome di Zeppetella, di quel brigante cioè che tanto fece parlare di sé nella nostra zona da essere quasi nella leggenda.
Zeppetella in realtà si chiamava Salvatore Sottocarao e nacque il 29 Giugno 1830 presso Villagrande da Pasquale e da Mariangela Ponziani.
Salvatore sembrava avviato al suo destino di bravo ed onesto contadino, ma dopo essere ritornato dai lavori campestri nello Stato Pontificio nell'inverno tra il 1861-1862, nel maggio, per ragioni sconosciute agli stessi genitori, si diede alla macchia unendosi con i briganti di Tornimparte, precisamente nella banda Colluda, con la quale rimase fino all'estate del 66. Già dal 67 però, Zeppetella si staccò da questa banda formandosi una propria banda di cui i principali esponenti, oltre a lui, erano Diodato Innocenzi, Spera Trapasso e Amedeo del Soldato. Proprio con questi ultimi due Zeppetella, "un dente(incisivo) mancante, piuttosto smilzo, di bassa statura, con capelli misti", era sulle montagne di Preturo e di Cagnano nell'ottobre del 1868 a "tutti e tre andavano armati con fucili a due canne a retrocarica, con revolvers, e stili-vestivano calzoni lunghi con stivaloni fino a mezza gamba ligati".
Dopo aver scorrazzato in lungo e in largo ne4l circondario soprattutto aquilano, ormai ricercato da tutti per un'infinità di reati, il Sottocarao fu catturato il 27 ottobre del 69 sulla montagna di Cascina presso Cagnano dai carabinieri di Zizzoli.
La Corte di Assise del circolo di Aquila condannò il Sottocarao con una sentenza del 10 novembre 1870 alla pena dei lavori forzati a vita.
Un particolare curioso da notare nei riguardi di Zeppetella è che egli era uno dei pochi briganti della nostra zona che sapesse leggere e scrivere.
Di Zeppetella abbiamo anche la possibilità di riportare l'estratto di nascita e l'interrogatorio del 15 ottobre del 1870.
"Estratto di Nascita dai Registri dello stato civile esistente in questo Comune di Tornimparte.
Numero d'ordine 35
L'anno milleottocento Trenta il dì
Ventinove del mese di Giugno alle ore
Dodici avanti di Noi Dom. Ant. Santini
Sindaco ed Ufiziale dello stato civile del Comune
di Tornimparte Distretto di Aquila
Provincia di Aquila, è comparso Pasquale
Sottocarao di anni Trentasei
Di professione campagnolo domiciliato
in detto luogo, il quale ci ha presentato
un maschio secondochè abbiamo
riconosciuto, ed ha dichiarato che lo stesso è nato
da Mariangela Ponziani
di anni Trentasette di professione filatrice
domiciliato in detto Comune
E da pro dichiarante
Di anni come sopra di professione
Domiciliata in detto Comune
Nel giorno Ventotto del mese di Giugno
Anno corrente alle more Ventuno
Nella casa di propria abitazione.
Lo stesso ha inoltre dichiarato di dare al neonato
Il nome di Salvatore.
La presentazione e dichiarazione anzidetta si è fatta
Alla presenza di Pietro Giego di
Anni quarantuno di professione Guarda Boschi
Regnicolo domiciliato in detto Comune
E di Famiglio Cremini di
anni cinquantuno di professione vaticale
regnicolo domiciliato in detto Comune
testimoni intervenuti al presente atto, e da esso sig. Pasquale Sottocarao.
Il presente atto, che abbiamo formato all'uopo è stato iscritto sopra i due registri letto al dichiarante ed ai testimoni, ed indi nel giorno, mese ed anno come sopra firmato da noi e non dal Dichiarante".
"Interrogatorio dell'accusato
L'anno mille ottocento settanta il giorno quindici
Del mese di ottobre
Noi Cav; Nicola Urbani Presidente della Corte D'Appello
Di Aquila assistito dal Vice Cancelliere
Veduti gli atti a carico del carcerato Salvatore Sottocarao
Veduta la sentenza del 31 Xbre 1864, 29 Marzo 1867, 4 Aprile 1867
Che pone l'imputato sudetto ioni stato di accusa e lo rinvia
Alla Corte di Assise del Circolo di Aquila
Veduto l'atto col quale il Pubblico Ministero accusa l'anzidetto
Imputato di:
apposizione di malfattori, grassazioni in danno di Raffaele Botini
Botta e famiglia Properzi, e d'estorsione a danno di Venanzio
Lupuccini, di grassazione a danno di Giuseppe di Nino di omicidio
Volontario in persona di Girolamo Valentini di grassazione a danno
Di Cristoforo Sibilla e Antonio Corsi, a danno di Giuseppe Nanni di tentata estorsione a danno di Domenico Vulpiani, Domenico
Marini, Giovanni di Stefano, di Vincenzo Ludovici Antonio Achille
D'estorsione a danno di Antonio Santilli e di ribellione alla
Forza pubblica.
Veduto l'atto di notificazione fatta all'accusato della sentenza
Ed accusa sudetta veduti gli art. 456 e 457 del codice di procedura penale, ed in esecuzione di quanto con essi si dispone,abbiamo fatto innanzi a Noi nella sala degli esami tradurre il carcerato libero e sciolto da ogni ligame, il quale domandato delle sue qualità personali ha risposto di chiamarsi Salvatore Sottocarao col
Sopranome Zeppetella figlio di Pasquale e di Mariangela Ponziani di anni 4° nativo di Tornimparte domiciliato ivi di condizione contadino, non sono possidente, non sono coniugato, non sono stato mai processato, nè detenuto, non ho fatto il militare, so leggere e scrivere.
Connotati
Statura giusta capelli quasi canuti occhi castagni naso filato
Colorito naturale corporatura giusta segni particolari.
Interrogato sulle diverse accusate fattegli ha risposto
E' vero che dal 1862 sino al mio arresto ho scorso la campagna,
essendomi unito con Colajuda e un Del Soldato e con al
Che non conoscevo per essere forestieri ma sono innocente delle
Diverse grassazioni estorsioni di uccisione d'animali che mi si
Attribuiscono; Solamente sequestrai gli animali di Ludovici e di
Antonio Achille per avere qualche somma che in realtà non ebbi.
E' vero che nel 10 Giugno 1867 nella montagna di Corsaro ebbi
Un attacco con la forza pubblica.
Nell'8 Maggio 1864 giorno in cui si dice ucciso nella montagna
S.Giovanni Paolantonio Inferi, io insieme a due della provincia
Di Teramo e a un mio paesano, che è morto, mi trovavo nella contrada
Dell'Ospedale nel territorio di Fiamignano e seppi la morte
di Infari nel Sabato seguente per notizia che me ne diede
Camillo Infari di Tornimparte. Che mi trovassi nella suddetta contrada dell'Ospedale
Può deporsi da Ludovico e Stefano Magnamela
Abitanti con altri della suddetta contrada dell'Ospedale".
Spera Trapasso
Sembrava un bravo ragazzo anche Spera Trapasso, un giovane bracciante nato a Colle di Lucoli il 29 maggio 1825 da Domenico e da Palena Maria Colatigli, poi invece tra il maggio e l'ottobre del 1868 diventò uno dei briganti più famigerati delle montagne di Preturo, Lucoli e Cagnano insieme con Amedeo Del Soldato e Salvatore Sottocarao.
Ma anche lo Spera fu catturato precisamente il 25 gennaio 1869 in un pagliaio di proprietà di Murri Pasquale di Casa Vecchia di (Lucoli) dai carabinieri di Tornimparte e dai soldati, del 44° fanteria, distaccati in Lucoli.
Ed anche Spera Trapasso, con una sentenza del 10 Novembre 1870, fu condannato dalla Corte di Assise del circolo di Aquila alla pena dei lavori forzati a vita.
Amadeo, o Amedeo, Del Soldato
Singolare la vicenda di Amedeo Del Soldato nato a Colle di Lucoli il 28 Febbraio 1840 da Innocenzo e da Luisa Giannoni: egli fu prima "garzone " a servizio della marchesa Quinzi, poi soldato borbonico un po' sbandato, ed infine si diede alla macchia per non arruolarsi nelle file dell'esercito italiano.
Già nelle cronache del 62 è nominato quale uno dei più pericolosi briganti sulle montagne di Tornimparte e Lucoli Di "statura piuttosto alta, con barba lunga, di bell'aspetto " nel maggio-ottobre del 1868 il Del Soldato operava con il grado di "caporale" sotto Sottocarao e Trapasso sulle montagne di Preturo, Cagnano, Lucoli.
Amedeo Del Soldato fu uno dei pochi che rimase ucciso durante qualche azione: il 1 gennaio 1869 venne ucciso presso Torre di Taglio in uno scontro a fuoco.
Berardino Viola
Berardino Viola nacque Teglieto il 24 o 29 Novembre 1838 da Angelo, guardia doganale, e da Marianna Rossetti, filatrice.
Quando era bambino il sacerdote Felice Brizi gli insegnò a leggere e scrivere presso il paese di Borgo S.Pietro. A 22 anni, nell'ottobre del 1860 il Viola fece addirittura parte del drappello di guardie nazionali guidato dal capitano Francesco Mozzetti e dal primo sergente Anacleto Desideri che andò ad Avezzano per reprimervi la reazione. Il Viola fu anche guardia nazionale del comune di Fiamignano.
Ma ad un certo punto Berardino decise di divenire brigante e il 2 luglio 1862, già "iniquo qual celebre reazionario", uccise presso Teglieto Berardino Colombi di Rigatti e così si diede latitante formandosi una propria banda, anche se fu componente della banda Pietropaoli.
Nel settembre del 63 il Viola "statura bassa. Colorito bruno. Occhi castano sanguigno. Capelli negri. Barba rada e nera con mostacchi e Napoleone quasi congiunti insieme. Corporatura regolare, piuttosto spalluto. Volto piuttosto ovale" vestito a "panno negro". Cappello tondo nero pieghevole, basso con sottogola" prima unì a sé Candido Vulpiani di Castagneta, poi il 24 dello stesso mese lo uccise e probabilmente si ritirò nello Stato Pontificio.
Fin dall'estate del 65 il Viola si trovava in carcere e la Corte d'Assise del circolo di Aquila con una sentenza del 17 giugno 1873 lo condannava ai lavori forzati a vita. Il Viola, detenuto, presentò ricorso a tale sentenza, che gli fu però respinta dalla Corte di Cassazione di Napoli, sezione penale nell'udienza del 30 agosto 1875.
La pena dei lavori forzati a vita gli venne commutata in ventiquattro anni di reclusione, pena che, per il beneficio dell'articolo 3° del decreto 24 ottobre 1869 n. 464, fu alleggerito di tre mesi il 18 febbraio 1897 dalla Corte di Appello di Aquila, sezione4 accusa.
A conclusione di questa trattazione è nostra viva intenzione tirare le somme di tutto quanto abbiamo esposto e commentato; vorremmo cioè dare dei giudizi personali (che senz'altro susciteranno critiche, le quali però non ci preoccuperanno, anzi verranno accettate da noi ben volentieri se saranno costruttive e dirette da mettere in luce alcuni nostri errori) su quanto fino ad ora abbiamo detto, cosicché questo nostro lavoro non abbia solo la dimensione di una nozionistica e stucchevole esercitazione, ma abbia anche, come ogni saggio di Storia che si rispetti, una vena critica.
Abbiamo fissato la nostra attenzione su tre elementi che sicuramente emergono se si considera e si analizza approfonditamente il fenomeno del brigantaggio nell'aquilano. Innanzitutto, lo abbiamo sovente ripetuto, ma ci sembra opportuno ribadire ora questo nostro parere, va sottolineata la matrice sociale e non politica di questo fenomeno. Non ingannino i motti che erano comuni alle bande operanti nelle zone vicine alla nostra città, e che inneggiavano in favore del deposto Re Ferdinando II, e contro il nuovo governo.
In realtà questo nuovo governo non era il primo obiettivo nel mirino di Zeppetella, Spera etc., ma piuttosto questi si battevano per far fronte alla miseria nella quale loro, le loro famiglie, i loro paesi, versavano ormai da secoli; e questa voleva essere una reazione violenta che non aveva assolutamente la pretesa di migliorare le carenti condizioni economiche esistenti ( e come d'altronde sarebbe stato possibile ), ma illudeva i briganti di aver raggiunto, con qualche rapina, o con qualche sequestro, un certo stato di benessere, e garantiva loro una evasione dalla realtà, alla quale essi tanto tenevano.
Può sembrare troppo facile ricercare le cause anche parziali del brigantaggio in tale motivazione, ma dobbiamo cercare di comprendere la situazione dell'Aquila e dell'Abruzzo in genere, che è così simile ma anche così diversa da quella del resto dell'Italia meridionale. La condizione di un contadino era quella che gli offriva un vita monotona, stentata e priva di qualsiasi garanzia a tale proposta i tipi più intraprendenti e coraggiosi preferivano accettare l'ipotesi di una vita irta di pericoli e più breve, magari, ma che potesse garantire loro una minima popolarità e condizioni economiche migliori.
Un altro elemento che potrebbe costituire motivo d'interesse è la figura del brigante vista però non dallo storico o dal Piemontese del tempo o dal borghese, e qui richiamiamo alla conclusione del paragrafo "Analisi delle cause del brigantaggio nell'aquilano con l'ausilio di fonti storiche", ma visto dalla gente che gli viveva attorno, e presso la quale il brigante riscuoteva molti consensi.
Il fatto che il brigante abbia avuto molto seguito tra le masse popolari, affonda le sue radici anche nelle motivazioni che tra poco esporremo. Il brigante era visto dai contadini come colui che si opponeva alle ingiustizie gravi che essi subivano e che creavano ed accentuavano lo stato di miseria in cui le popolazioni erano costrette a vivere. Tale tesi inoltre può venire comprovata da fatto che i pastori a cui venivano fatte estorsioni e rapine non si ribellavano, visto che in fin dei conti la reazione era fatta anche per loro e così credevano in un certo modo di dare aiuto a questi fuorilegge.
Tanti contadini intrapresero la via del brigantaggio, piena di stenti e di pericoli, non solo per la miseria che li opprimeva e per le tasse che li vessavano, ma anche perché il mondo della reazione attirava l'attenzione di tutti. E' in fondo il mito dell'eroe romantico che è eroe, perché, pur ponendosi al di là delle leggi, realizza la giustizia riparando alle offese di chi certo giustizia non faceva. Sarebbe assurdo pensare che i briganti fossero influenzati dalle tematiche romantiche, ma noi, anche in questa ottica dobbiamo vedere il fenomeno brigantaggio.
L'ultima notazione che vorremmo fare riguarda proprio il brigantaggio, ma il comportamento della nostra città all'epoca in cui questo fenomeno prese consistenza; ci preme molto farla perché tale atteggiamento si rivela anche della più stretta attualità. Avevamo accennato al primo episodio di controreazione della nostra città nei riguardi del brigantaggio, invece abbiamo rilevato la presenza da parte dell'Aquila nella lotta contro i francesi. Insomma si presentano davanti ai nostri cittadini due eserciti entrambi stranieri, quello francese e quello piemontese; ma nei riguardi dell'altro ci furono solo favoritismi ed aiuti per piegare la resistenza brigantesca.
Come si spiega ciò? Per noi che siamo nati e vissuti sempre a L'Aquila, la risposta non è difficile, e cerchiamo di essere chiari nei riguardi di chi non riesce a spiegarsi questi comportamenti.
Precisiamo innanzitutto che i responsabili di q1uesti atteggiamenti furono le persone4 più influenti della nostra città, i nobili e gli alto borghesi.
Vorremmo ora polarizzare l'attenzione di tutti sulle parole latine riportate sul nostro stemma (che ha per simbolo, naturalmente, un'aquila): "Immota Manet"; in italiano rimane immobile, ferma. Questo motto ha per noi due significati: uno quello che riconoscono tutti, che vuole intendere che la città resta sempre immobile nonostante le vicissitudini e le catastrofi naturali costretta a subire; più strettamente personale lascia capire che la nostra città, e lo affermiamo con somma tristezza perché sappiamo che è vero resta immobile nel tempo; la storia della nostra città ha visto protagonisti sempre e solo i nobili, di cui L'Aquila è piena tanto da meritarsi l'appellativo di città nobile, ed i ricchi possidenti, gli alto borghesi per intenderci.
E fu così che nobili e ricchi borghesi, all'epoca della venuta dei francesi (1792 -. 1799) non poterono non prendere le armi e obbligare il popolo affinchè combattesse contro un governo che minacciava di instaurarsi e di togliere loro, con i suoi ideali di uguaglianza, i privilegi ed i possedimenti.
Il governo di Vittorio Emanuele, viceversa, riconosceva a borghese e nobili proprietà e titoli; dunque l'esercito piemontese non si presentava come nemico da combattere: ed ecco perché il brigantaggio, pur esistendo nelle nostre zone, non toccò mai L'Aquila che anzi si oppose sempre a queste manifestazioni che tendevano a sovvertire l'ordine costituito.
Nostra intenzione è stigmatizzare tali comportamenti della nostra città (alla quale però siamo molto attaccati) che per difendere gli interessi di pochi tra nobili ne ricchi possidenti, non è mai riuscita ad uscire, come ogni città del Sud, da suo stato di miseria e di arretratezza mentale ed economica.
- Cesare Cesari - "Il brigantaggio e l'opera dell'esercito italiano (1860 - 1870)", Roma 1920
- Luciano Sarego - "Brigantaggio e reazione nel Cicolano" (1860 - 1867), Rieti 1976
- Luigi Tuccari - "Il brigantaggio nelle province meridionali dopo l'unità d'Italia (1861 - 1870", Lecce 1982
- W. Del Villano- Z. Di Tillio - "Abruzzo nel tempo", Didattica Costantini, Pescara 1978
- "Racconti d'Abruzzo" (Scelte e trattamento didattico di Giuseppe Rosato - Didattica Costantini, Pescara 1977
- Filippo Murri - "Lucoli (Profilo storico)", Leandro Ugo Japadre Editore, L'Aquila - Roma 1983
- Sac. Mario Morelli - "La chiesa aquilana dal 1860 al 1892", L'Aquila 1981
- "Bullettini" della Deputazione di Storia Patria degli anni 1907 - 1908 - 1909
Documenti dell'Archivio di Stato dell'Aquila - Corte D'Assise dell'Aquila Processi Reazione brigantaggio (CAAProc. Reaz. Brig.)
- Giornale della Prefettura dell'Aquila
- Amiternino